Charlotte Rampling: i 70 anni di un mito

Enigmatica, androgina, sensuale: Charlotte Rampling spegne oggi 70 candeline. L’attrice britannica, divenuta celebre a seguito della sua interpretazione nel film di Liliana Cavani Il portiere di notte, è ancora oggi un sex symbol.

Nata a Sturmer, nell’Essex, il 5 febbraio 1946, all’anagrafe Tessa Charlotte Rampling, l’attrice è figlia di un ex atleta olimpico e di una pittrice. Un’infanzia vissuta tra Inghilterra e Francia e i primi lavori come modella. Il suo fascino torbido e la sua fotogenia la rendono un’icona.

Posa, tra gli altri, per Cecil Beaton, David Bailey ed Helmut Newton, che immortala la sua bellezza in scatti che coniugano magistralmente il suo charme sofisticato alla sua potente carica erotica. Ancora bellissima nonostante il passare degli anni, l’attrice ha posato per Peter Lindbergh, Bettina Rheims, Paolo Roversi e molti altri, ed è apparsa su magazine del calibro di Vogue, Interview, Elle, solo per citarne alcuni.

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Charlotte Rampling ritratta da Bettina Rheims a Parigi, Settembre 1985
Charlotte Rampling in una foto di Clive Arrowsmith, 1970
Charlotte Rampling in una foto di Clive Arrowsmith, 1970
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L’attrice è nata il 5 febbraio 1946 in Essex

Charlotte Rampling in una foto di Helmut Newton per Vogue, gennaio 1974
Charlotte Rampling in una foto di Helmut Newton per Vogue, gennaio 1974



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Nel 1965 il debutto cinematografico con il film di Richard Lester Non tutti ce l’hanno, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes. L’anno seguente si apre per Charlotte un periodo buio, a causa del suicidio della sorella, che le viene nascosto dai familiari e che l’attrice scopre solo pochi anni fa. La giovane si prende una pausa dal cinema e si dedica alla meditazione, ritirandosi in un monastero in Scozia.

Due anni più tardi, nel 1968, recita ne La caduta degli dei di Luchino Visconti, che le affida il ruolo tragico di una madre deportata in un campo di concentramento con i suoi due bambini. Ma è con Il portiere di notte di Liliana Cavani che Charlotte Rampling ottiene la fama a livello internazionale: indimenticabile il suo ruolo intriso di suggestioni sadomaso e la straripante sensualità che l’attrice conferisce al suo personaggio. Lucia Atherton è un’ebrea che inizia una relazione sadomaso col suo aguzzino: la bellissima attrice in quella pellicola appariva inguainata in lunghi guanti in pelle nera e bretelle che fanno capolino sui seni nudi, mentre il volto enigmatico è coperto dal berretto tipico delle Schutzstauffeln. Fu così che Charlotte Rampling entrò di diritto nell’immaginario erotico.

Charlotte Rampling ritratta da David Bailey, 1973
Charlotte Rampling ritratta da David Bailey, 1973
Charlotte Rampling in Marlowe, il poliziotto privato, di Dick Richards, 1975
Charlotte Rampling in Marlowe, il poliziotto privato, di Dick Richards, 1975
Charlotte Rampling in un celebre scatto di Helmut Newton, Hotel Nord Pinus, Arles, 1973
Charlotte Rampling in un celebre scatto di Helmut Newton, Hotel Nord Pinus, Arles, 1973
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L’attrice ne Il portiere di notte, 1974
CHARLOTTE RAMPLING Photographed by Helmut Newton in Paris, 1984
Charlotte Rampling ritratta da Helmut Newton a Parigi, 1984
Charlotte Rampling ritratta da Cecil Beaton, 1972
Charlotte Rampling ritratta da Cecil Beaton, 1972

Charlotte Rampling, foto di Sofia Sanchez e Mauro Mongiello
Charlotte Rampling, foto di Sofia Sanchez e Mauro Mongiello


Nella vita privata fece scandalo il suo ménage a trois con il fotografo Randall Lawrence e il migliore amico di quest’ultimo, l’agente pubblicitario Brian Southcombe, che nel 1972 sposò la Rampling dandole un figlio, Barnaby. Il matrimonio finì quattro anni dopo. Nel 1977 al Festival di Cannes l’incontro con il secondo marito, il compositore francese Jean Michel Jarre, da cui ebbe altri due figli. Ancora affascinante e scandalosa, la ritroviamo nel 2003 nella pellicola diretta da François Ozon, Swimming Pool.

Nel 2015 vince l’Orso d’argento come migliore attrice al Festival di Berlino con il film 45 anni di Andrew Haigh, al fianco di Tom Courtenay (anch’egli premiato come migliore attore). Grazie alla pellicola la Rampling viene candidata all’Oscar 2016 come migliore attrice protagonista. Il prossimo 28 febbraio sapremo se la celebre statuetta sarà sua.

THE HATEFUL EIGHT: LO SPAGHETTI WESTERN FIRMATO TARANTINO

Il Maestro è tornato, con il suo ottavo capolavoro, celebrazione assoluta dello stile tarantiniano in versione western. Ed è già cult.

Attesa finita: il Maestro del cinema pulp è tornato e, come ormai di consueto, ha fatto centro. Questa volta più che mai. Torna Quentin Tarantino e lo schermo si ritinge di quel rosso puro che non solo è l’emblema del suo “fare cinema” riempiendo la pellicola di scene crude e ricche di quel sangue rosso vivo, ma bensì anche di quel rosso associato alla passione, la stessa che il regista riesce con ogni suo lavoro ad infiammare in un pubblico che ormai lo ha consacrato a mito, un regista ribelle capace di trasformare lunghe scene di violenza in veri e propri cult.

 

Lo aveva fatto agli esordi con il mitico Pulp Fiction, con Le Iene, con Kill Bill e via dicendo e quest’anno lo ha riconfermato portando sul grande schermo il suo ultimo grande lavoro: The Hateful Eight. L’ottavo film di Tarantino, proiettato in anteprima solo in tre sale in tutta Italia (il Teatro 5 di Cinecittà, il Cinema Arcadia di Melzo (Mi) con super tecnologia audio firmata Doldy e realizzata da Sangalli Tecnologie di Bergamo e il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna) è già stato definito dalla critica come la consacrazione del genere “spaghetti western” alla Tarantino. Se già con Jango Tarantino si era addentrato in questo “terreno” da lui tanto amato, con The Hateful Eight è riuscito a riproporre in tutto e per tutto un film che non solo ha tutto il sapore di quei film wester tanto amati dal cinema americano, ma in più ha inserito tra i mm di questa pellicola tutto il suo stile inconfondibile.

 

E parlando di mm non si può non porre l’attenzione sulla scelta del Maestro di portare sul grande schermo un film in 70 mm, formato di pellicola deluxe quasi in disuso, costoso ma dalla resa extra luminosa e dalla dinamica del colore imbattibile. Una scelta che porta lo spettatore quasi ad entrare direttamente nel film, proiettandosi in ogni singola scena. Il risultato è a dir poco stupefacente, amplificato da un’altra chiave di volta alla Tarantino, le musiche, sempre intense, profonde, incisive e ovviamente in antitesi con la scena proiettata.

 

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E se poi si conclude dicendo che ogni singolo pezzo è siglato dal grande Ennio Morricone… non serve andare avanti. Ogni nota buca lo schermo e si fonde con esso per rendere vivida e profonda ogni sequenza. E così dallo scenario innevato delle montagne del Nord America si apre The Hateful Eigth, il cui svolgimento, in contrasto con molti altri miti di Tarantino girati in ambienti che cambiano in un batter d’occhio, avrà come sfondo solo queste montagne e l’ Emporio di Mannie, che servirà ai protagonisti per ripararsi da una bufera di neve.

 

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Proprio in questo piccolo spazio il film troverà il suo compimento, in una sequenza di scene che, a differenza delle altre sette bobine del Maestro, non troveranno la velocità dell’azione ma bensì il lento scorrimento della trama. Effetto voluto ovviamente perché quello che Tarantino ha creato è un film da gustare con calma, scena dopo scena, in una prima parte quasi troppo lenta e senza sangue per essere un suo film. Ma nessun problema: il secondo tempo sarà una discesa senza freni verso il macabro, crudo e sanguinolendo stile tarantiniano. Con una nota in più: gli amanti del genere non potranno assolutamente mancare di notare come la stesura perfetta di questo copione richiami inesorabilmente gli enigmi di una delle più amate gialliste della storia, Agatha Christie (non a caso uno dei cow boy protagonisti si spaccerà per inglese e porterà un cappello che quanti hanno amato il celebre detective Hercule Poirot non potranno non avere notato?!).

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Sta di fatto che il richiamo a quei “10 piccoli indiani” che uno a uno moriranno in un gioco misterioso dove non sarà chiaro nè  l’assassino nè l’innocente vi è tutto. Cambia lo scenario, ovviamente, ma la logica che spingerà gli otto cacciatori di taglie protagonisti ad una eliminazione reciproca vi è tutta. Con un “… e alla fine ne resterà solo uno” che non poteva però essere applicato da Tarantino. E qui, solo qui, piano piano, scena dopo scena, con salti temporali propri dello stile pulp, mixati a quel “mexicans standoff” (ovvero il “triello” nel quale tre personaggi armati di pistola si tengono sotto tiro l’un l’altro-tanto amato da Sergio Leone), il film ci svela tutti i suoi perché e la storia fitta di dialogi ben creati e sangue a più non posso consacra ancora una volta il mito di Tatantino. Un grande applauso al grande Maestro pulp quindi, che non ha deluso, anzi, ha riconfermato il suo genio e la sua maestria nel trasformare anche la scena più macabra in una sequenza cult. E se la grande Agatha fosse stata con noi in platea ieri sera, beh, siamo sicuri avrebbe abbozzato un sorriso. O così la vogliamo pensare.

 

 

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Ava Gardner: la donna più bella del mondo

Nasceva oggi Ava Gardner. In un periodo storico in cui il termine bellezza è costantemente abusato e spesso oltraggiato, osservare le foto della celebre attrice ci riporta al significato primigenio di questa parola: sì, perché Ava Gardner è stata donna di una bellezza singolare, rara, quasi un Sacro Graal oggi inseguito invano da fanatici del bisturi e donne che non godono della simpatia di Madre Natura. Ma nel caso dell’attrice non era solo una questione prettamente estetica: aggressiva, sfrontata, la diva nella sua vita privata come in quella pubblica è stata sublime incarnazione della femme fatale per antonomasia.

Eccessiva in tutto, dalla sfacciata fisicità agli amori turbolenti, Ava Lavinia Gardner nacque a Smithfield, in North Carolina, il 24 dicembre 1922, la più giovane dei sette figli di due agricoltori. La futura diva trascorre un’infanzia povera e disagiata, e il padre muore quando lei ha solo 15 anni.

Nel 1941 la bella Ava va a trovare a New York la sorella Beatrice ed attira l’attenzione del marito di quest’ultima, Larry Tarr, fotografo professionista, che le chiede di posare per lui. Il risultato di quella prima sessione fotografica, quasi improvvisata, è talmente sorprendente che Tarr decide di esporre uno scatto nella vetrina del suo studio fotografico, sulla Quinta Strada. Il volto luminoso e perfetto d Ava cattura un giorno l’occhio di Barnard Duhan, talent scout della MGM. Duhan entra nello studio e chiede il numero telefonico della ragazza, dovendo insistere per superare le iniziali perplessità del suo interlocutore. La chiamata per Ava arriva quando lei è ancora una studentessa diciottenne presso l’Atlantic Christian College. Prontamente la giovane si precipita a New York, per sostenere il provino negli uffici di Al Altman, capo del dipartimento talenti della MGM. Alla giovane viene chiesto di fare pochi piccoli gesti, ma non deve aprire bocca, in quanto il suo accento del Sud risulta quasi incomprensibile. Il provino viene tuttavia superato brillantemente ma la prima cosa che le viene ordinato è un corso accelerato di dizione.

Ava Gardner nacque a Smithfield, in North carolina, il 24 dicembre 1922
Ava Gardner nacque a Smithfield, in North Carolina, il 24 dicembre 1922
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L’attrice sul set de “I gangsters” (1946)

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Ava Gardner nell’atelier delle Sorelle Fontana, che firmano il suo guardaroba nel film “La contessa scalza”, Roma, 1954


La carriera cinematografica di Ava Gardner inizia con pellicole di poco conto ma nel 1946 arriva la svolta: è semplicemente impossibile non notare quella giovane bruna dallo sguardo altero, fasciata in un abito nero. Siamo sul set de I gangsters, in cui l’attrice recita accanto a Burt Lancaster. L’anno seguente lavora con Clark Gable nel film I trafficanti. Intanto ha già mandato a monte il primo matrimonio con l’attore Mickey Rooney, che aveva sposato il 10 gennaio 1942, quando lei aveva solo 19 anni. Il secondo matrimonio, col musicista jazz Artie Shaw -ex di Lana Turner– dura meno di un anno.

Nel 1948 Ava Gardner viene scelta come protagonista de Il bacio di Venere: e chi altro avrebbe mai potuto interpretare la dea della bellezza? Il film omaggia la sua fisicità, proponendoci l’attrice drappeggiata in un peplo greco, quasi come una novella Venere di Milo. Contemporaneamente la diva si fidanza con Frank Sinatra, soprannominato “The Voice” per le ineguagliabili doti canore. Per la diva Sinatra lascia la sua prima moglie Nancy e i due convolano a nozze nel 1951. Tuttavia la coppia sembra male assortita: lei appare forse troppo prorompente per il mingherlino Frank, ma i due vanno avanti nonostante il rapporto sia burrascoso, fino al divorzio, nel 1957.


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Nel 1949 recita accanto a Gregory Peck nel film Il grande peccatore mentre nel 1951 inizia ad incarnare anche sullo schermo la più autentica femme fatale: accade con Voglio essere tua, di Robert Mitchum. Nel 1953 prende parte a Mogambo, pellicola ad alto tasso di sensualità che vede un inedito triangolo amoroso, costituto da Ava Gardner, Grace Kelly e Clark Gable, ambientato nelle atmosfere tropicali di un paesaggio esotico. Per questa pellicola la Gardner ottiene una nomination agli Oscar. L’anno successivo è la consacrazione artistica, con La contessa scalza: bella come nessuna, Ava mixa sapientemente la sua bellezza sofisticata ad una sensualità felina. Nel film la diva danza come una principessa ribelle suscitando primordiali istinti. L’attrice, passionale come poche, non sa stare da sola. Il suo nuovo amore parla italiano: è l’attore comico Walter Chiari a farla capitolare, dopo il loro primo incontro sul set del film La capannina. Intanto l’attrice è preda dell’alcolismo, che ne offusca l’incredibile bellezza.

Inserita dall’American Film Institute al venticinquesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, nel 1964 la sua interpretazione nel film La notte dell’iguana le vale una nomination ai Golden Globes, mentre nel 1976 recita -già matura ma sempre splendida- nel film Cassandra Crossing, accanto a Sophia Loren. Fumatrice di lungo corso e alcolista, Ava Gardner sfiorisce presto: non ancora sessantenne, la diva soffre di enfisema polmonare e di una malattia autoimmune non meglio identificata. Due colpi apoplettici la lasciano parzialmente paralizzata e costretta a letto. La diva muore di polmonite all’età di 67 anni, nel suo appartamento londinese, il 25 gennaio 1990.

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L’attrice è stata sublime incarnazione della femme fatale per antonomasia

Ava Gardner in "Pandora" (1951)
Ava Gardner in “Pandora” (1951)


Negli ultimi anni della sua vita, Ava Gardner chiede al giornalista Peter Evans, ex corrispondente del Daily Express, di farle da ghost writer nella stesura della sua autobiografia, basata sulle loro conversazioni notturne. Il volume viene pubblicato poco dopo la morte di Evans, avvenuta nel 2012: esce così negli USA nel luglio 2013 Ava Gardner: The Secret Conversations, edito da Simon & Schuster, un libro destinato a fare scalpore. Qui la diva ci rivela succulenti aneddoti sulla sua burrascosa vita amorosa.

Tantissimi sono gli uomini che le cadono ai piedi, dal torero Luis Miguel Dominguín allo scrittore Ernest Hemingway, da Howard Hughes a Clark Gable; forte e ribelle, indipendente e moderna, indomabile e femmina come poche, riuscire a tenere testa ad Ava Gardner è roba per pochi. La diva non cede alle avances di Aristotele Onassis, che descrive -testuali parole- come “un piccolo stronzo allupato”; etichetta Humphrey Bogart come un bastardo, e descrive persino le perverse abitudini sessuali del primo marito, l’attore Mickey Rooney. Inoltre non mancano giudizi al vetriolo anche su alcune colleghe, come Liz Taylor, di cui la Gardner scriverà «Non è bella, è carina. Io ero bella». Di Grace Kelly la diva racconta quanto adorasse scommettere, ricordando la volta in cui, vinta una scommessa, ricevette dalla principessa Grace 20 dollari, un Magnum di Dom Pérignon ed un pacchetto di aspirine che le sarebbero servite post sbornia. Graffiante ed autoironica -perché il sex appeal passa inevitabilmente da qui- la diva rivive con tutta la sua straripante personalità nei suoi scritti. La vita di una dea molto più alla mano di quanto si potesse mai pensare.


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Buon compleanno, Jane Fonda

Spegne oggi 78 candeline Jane Fonda. Attrice di fama mondiale, icona di bellezza e guru dell’aerobica, una carriera sfolgorante che l’ha resa un vero e proprio mito: vincitrice di ben due Premi Oscar, 6 Golden Globe e innumerevoli altri riconoscimenti, protagonista di pellicole che sono entrate di diritto nella storia del cinema, Jane Fonda è stata attrice simbolo di almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La bellezza e la maliziosa sensualità, il glamour e le atmosfere spaziali di Barbarella, l’indimenticabile film che le diede la fama a livello internazionale, e poi l’impegno politico e il femminismo, di cui la diva è stata pasionaria.

Jane Seymour Fonda è nata a New York il 21 dicembre 1937, da Henry Fonda e Frances Seymour Brokaw. Nelle sue vene scorre sangue inglese, scozzese, francese e italiana; i suoi antenati per linea paterna emigrarono nel Cinquecento da Genova nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Seicento nelle colonie britanniche del Nord America, in una cittadina attualmente chiamata Fonda, nell’attuale stato di New York. La bella Jane vanta origine italiana anche dal ramo materno, in quanto discendente dell’aristocratico vicentino Giovanni Gualdo. Il matrimonio infelice dei suoi porta la madre di Jane a compiere un gesto disperato, togliendosi la vita; il padre, tolti i panni di divo cinematografico, nella vita domestica è un uomo freddo e distaccato, che non fa che ripeterle che è grassa e che dovrebbe dimagrire. Come la stessa Jane Fonda dichiarerà più avanti nel corso delle sue interviste, il sentirsi disprezzata da parte del padre fu la molla che la gettò nel baratro dei disturbi alimentari.

La giovane Jane non sembra inizialmente interessata alla carriera cinematografica. Dopo il diploma, conseguito presso il Vassar College, e dopo un periodo trascorso in Europa, fa ritorno negli States con l’intenzione di lavorare come modella. Il volto dai lineamenti vagamente infantili, i capelli biondi e la grande fotogenia colpiscono fotografi del calibro di Horst P. Horst, che la immortala su Vogue nel corso degli anni Cinquanta. Ma è l’incontro con Lee Strasberg ad aprirle le porte del cinema, convincendola a frequentare le lezioni di recitazione presso il celebre Actor’s Studio. Il debutto cinematografico avviene nel 1960 con In punta di piedi, dove Jane Fonda recita accanto ad Anthony Perkins. Nel corso degli anni Sessanta l’attrice prende parte a numerosi film di successo, alternando con disinvoltura il genere drammatico alla commedia. Ha come partner lavorativi attori celebri, da Marlon Brando a Robert Redford, con cui recita nell’indimenticabile A piedi nudi nel parco.

Jane Fonda fotografata da Horst P. Horst, 1959
Jane Fonda fotografata da Horst P. Horst, 1959

Jane Fonda in "Barbarella", 1968
Jane Fonda in “Barbarella”, 1968


Sbarazzina e insieme sofisticata, nel 1964 Jane viene inserita dal regista Roger Vadim nel cast di Il piacere e l’amore. Tra i due nasce una relazione amorosa che sfocia in un matrimonio, celebrato l’anno successivo. Vadim intuisce fin da subito il potenziale erotico dell’attrice e la dirige in pellicole che la consacrano come sex symbol internazionale. La fama arriva con il celebre film Barbarella, del 1968, interamente incentrato sulla bellezza della protagonista, su uno sfondo fantascientifico. Ma a Jane Fonda l’etichetta sexy sta stretta: la diva è troppo intelligente per non capire quanto la sua strabordante sensualità possa essere un’arma a doppio taglio, che alla lunga rischia di comprometterne le capacità drammatiche. Icona femminista, la diva si ribella all’immagine di bella svampita che i media le attribuiscono e scende in politica, come attivista contro la guerra del Vietnam. La sua visita ad Hanoi assume portata quasi storica, come anche la sua propaganda filo-nord-vietnamita. L’opinione pubblica si schiera apertamente contro di lei e le affibbia il soprannome di “Hanoi Jane”. Solo molti anni più tardi l’attrice rivedrà le sue posizioni politiche, commentandole a posteriori con rinnovato senso critico.

Intanto indirizza la sua carriera verso ruoli di maggiore spessore drammatico: arriva così nel 1969 la prima delle sue sette candidature all’Oscar con il film Non si uccidono così anche i cavalli?, di Sydney Pollack; nel 1971 vince l’Oscar come miglior attrice protagonista con Una squillo per l’ispettore Klute, nel ruolo della prostituta Bree Daniel. La seconda statuetta arriva nel 1978 per Tornando a casa di Hal Ashby. Intanto il matrimonio con Vadim naufraga e Jane sposa in seconde nozze il politico Tom Hayden, che ha un passato da pacifista. Nei primi anni Ottanta prende parte al film Sul lago dorato, dove recita per la prima ed unica volta accanto al padre Henry. Successivamente accantona la carriera cinematografica per abbracciare la nuova passione per la fitness. I suoi video di esercizi di ginnastica aerobica divengono un vero e proprio fenomeno. L’attrice, dopo anni di lotta contro la bulimia, sdogana l’esercizio fisico come nuova moda, e neanche un infarto riesce a fermarla. Nei primi anni Novanta il terzo matrimonio con il magnate della comunicazione Ted Turner, che durerà un decennio.


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Icona femminista, Jane Fonda si è apertamente schierata contro l’emarginazione in cui vengono relegate le donne di una certa età ad Hollywood come anche nella vita comune. Celebre la sua presa di posizione al riguardo, per cui “se un uomo ha molte stagioni, una donna ha diritto solo alla primavera.” Attiva sul piano umanitario, la diva nel 2001 ha donato alla Scuola di Educazione dell’Università di Harvard la somma di 12.5 milioni di dollari, al fine di creare un “Centro per gli Studi educativi”: secondo l’attrice la cultura dominante darebbe messaggi sbagliati e diseducativi alle future generazioni che distorcerebbero i rapporti tra uomini e donne. Nel 2005 è stata pubblicata la sua autobiografia, intitolata La mia vita finora. Vulnerabile e insieme tagliente, la diva ha recentemente ammesso di essere ricorsa al bisturi, e che in virtù di tali interventi estetici avrebbe guadagnato un altro decennio di attività lavorativa, in un ambiente in cui invecchiare è considerato quasi uno scandalo. Il suo volto non ha perso fortunatamente la straordinaria espressività che ce l’ha fatta amare in film indimenticabili. Ancora splendida nonostante il passare del tempo, sagace ed ironica come di consueto, ha ammesso che il sesso costituisce oggi una parte fondamentale della sua vita. Attualmente residente ad Atlanta, in Georgia, la diva ha iniziato un percorso di rinascita per abbracciare la fede cristiana.


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Biancaneve e i sette nani, la follia di Walt Disney

Il 21 dicembre 1937 presso il Carthay Circle Theatre di Los Angeles, al termine della proiezione in anteprima di quella che era stata definita una follia, il pubblico, composto tra gli altri da star del calibro di Charlie Chaplin, Shirley Temple, Clark Gable, Judy Garland e Marlene Dietrich, concesse una standing ovation al primo lungometraggio animato della storia. L’artefice di quella follia era Walt Disney e quel film era Biancaneve e i sette nani. All’epoca Walt Disney era un cineasta talentuoso che si era fatto conoscere prima per le Alice Comedies, nei primi anni ’20, e poi, soprattutto, per la serie di Mickey Mouse (dopo aver perso i diritti per Oswald the Lucky Rabbit) e delle Silly Symphonies, cortometraggi animati molto distanti dalle produzioni seriali di Tex Avery o dei fratelli Fleischer (creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro).


Mickey Mouse era il simbolo del New Deal, il coraggioso americano che combatteva la paura della Grande Depressione con la positività che era tipica anche del suo creatore, Walt Disney (anche se, secondo alcuni, a disegnarlo sarebbe stato Ub Iwerks). Dall’altro lato c’erano le Silly Symphonies, anch’esse portatrici dei valori del New Deal e già capaci di per sé di rivoluzionare, dal punto di vista tecnico, il cinema d’animazione, ad esempio per l’introduzione della multiplane camera, capace di dare profondità all’immagine (in The Old Mill, 1937) o per aver regalato per la prima volta il colore (in Flowers and Threes, 1932) a delle produzioni fino a quel momento piuttosto spartane e dipendenti dai più importanti lungometraggi live action.


In realtà già qualcuno aveva provato a nobilitare un tipo di cinema che sembrava soltanto il surrogato di quello con attori in carne e ossa. Un primo tentativo l’aveva fatto l’argentino Quirino Cristiani, i cui film furono però distrutti in un incendio; in seguito c’era stata anche Lotte Reiniger con Le avventure del Principe Achmed (1923), realizzato con la tecnica delle silhouette. Ma nessuno di loro era stato in grado di dare ai cartoni animati un’impronta hollywoodiana, così come accadde per Biancaneve e i sette nani. D’altronde anche Max Fleischer – forte concorrente di Disney – avrebbe tentato la stessa operazione due anni dopo, con I viaggi di Gulliver (1939), ottenendo risultati tutt’altro che gratificanti. Gli ingredienti del successo di Disney erano piuttosto semplici, prelevati da una nota fiaba dei fratelli Grimm e riadattati secondo la visione del mondo di Walt Disney: da un lato una fanciulla dal volto e dal cuore candido, orfana prima della madre e poi del padre; dall’altro una matrigna – una regina – gelosa della crescente bellezza della sua figliastra nonché della sua giovinezza e della sua squisita bontà.


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Un primo tentativo di affronto: l’ordine a un cacciatore, uccidere la fanciulla e portare il suo cuore in uno scrigno. Ma il cacciatore, impietosito da Biancaneve, la lascia andare e così la fanciulla trova rifugio presso una casetta, al di là del bosco. Qui vivono i sette nani, che all’inizio lei scambia per dei bambini. I nani, i cui nomi rispecchiano le peculiarità caratteriali (Dotto, Gongolo, Eolo, Mammolo, Cucciolo, Brontolo e Pisolo), tornano a lavorare nelle miniere, mentre Biancaneve, calatasi più nel ruolo di ragazza-madre che di principessa, si occupa delle faccende domestiche, con l’aiuto degli animali della foresta, lavando e cucinando. Intanto la regina scopre che il cacciatore non le ha portato il cuore di Biancaneve ma quello di un cinghiale, così decide di muoversi in prima persona per annientare una volta per tutte la sua nemica e per essere lei «la più bella del reame». Ora rivela la sua vera natura: è una strega, una profonda conoscitrice di formule alchemiche mostruose, capaci di tramutarla in una vecchia megera; e capaci anche di trasformare il frutto del peccato originale, la mela – una bellissima mela rossa – in un’arma letale. L’ingenuità di Biancaneve non può nulla contro la furbizia della strega. Giunta alla casetta dei nani, è sufficiente offrirle la mela per assicurarsi che Biancaneve non si tirerà indietro: basta un solo morso per ucciderla.


Nel frattempo, gli animali della foresta corrono alla miniera per richiamare i nani e per avvertirli che Biancaneve è in pericolo. A sconfiggere la strega sarà il Fato, che la farà precipitare sghignazzando da un burrone, mentre tenterà di schiacciare i nani «come formiche». Quanto a Biancaneve, c’è un solo modo per risvegliarla da un sonno tutt’altro che mortuario: il bacio del vero amore, che potrà esserle dato da un giovane, un principe che già aveva dimostrato di amarla, quando aveva ascoltato la sua candida voce mentre raccoglieva l’acqua dal pozzo. Una fiaba con una trama semplice, lineare, con pochi ma essenziali personaggi, ognuno dei quali con una funzione ben precisa: la strega come antagonista, i nani come aiutanti, il principe come risolutore/salvatore; e Biancaneve che, passiva, attende il compiersi della propria sorte. Essere odiata perché lo Specchio Magico rivela alla regina che non è lei «la più bella del reame». C’è invidia, c’è odio, c’è soprattutto la profonda consapevolezza che la fanciulla potrebbe oscurarla. Questo è il moto dell’azione, che si sviluppa attraverso le celeberrime canzoni della Disney, che fanno diventare il film una vera e propria operetta.


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Una follia, già. Una follia che nel 1937 trasformò Disney e la sua azienda in colossi cinematografici, con incassi da capogiro, considerata l’epoca. Soltanto Via col Vento, due anni dopo, sarebbe riuscito a fare meglio. Ma Walt Disney non era uno capace di accontentarsi; e così, da vero self-made man, desiderò moltiplicare il proprio successo con qualcosa di ancora più ambizioso. I profitti di Biancaneve lo portarono a realizzare un nuovo studio, a Burbank, dove ora risiedono i Walt Disney Studios. Ma l’inizio della guerra e lo sciopero del ’41, a causa dei numerosi licenziamenti, non gli facilitarono le cose, per cui il film successivo, Fantasia (1940), troppo all’avanguardia per quei tempi, non fu abbastanza apprezzato, pur essendo la geniale unione tra cultura alta e cultura popolare: la musica e il cartoon, o meglio la musica classica e Topolino, simbolo aziendale decaduto, rilanciato nell’episodio L’apprendista stregone dopo che, nei cortometraggi tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40, il successo di Paperino lo aveva quasi oscurato. Paperino era infatti diventato lo strumento di propaganda anti-nazista di Walt Disney, incarnando lo spirito dell’americano per eccellenza, esemplato in un cortometraggio – talvolta male interpretato – come Der Fuherer’s Face, laddove sognava di essere un nazista, per poi risvegliarsi da quel tremendo incubo e baciare la Statua della Libertà.


Film di propaganda, dunque. L’impegno politico di Walt Disney, che sarebbe diventato collaboratore di J. Edgar Hoover nella caccia ai comunisti, è indiscutibile sin dai primi cortometraggi di Topolino, ma anche in Biancaneve non mancano messaggi coraggiosi: l’iperattivismo dei nani è un inno al lavoro. Sono americani che non si perdono d’animo, che anche nei momenti più difficili continuano a lavorare con positività, instancabili. La stessa cosa la fa Topolino, che anzi, come già detto, incarnava l’essenza stessa del New Deal di Roosevelt. Dall’altro lato, come elemento negativo, troviamo il Lupo Ezechiele, che nei Tre porcellini (1933), secondo Ejzenštein, rappresentava la disoccupazione. E non a caso la canzone canticchiata da due dei tre porcellini (quelli più scansafatiche) era “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”, un testo scritto da Frank Churchill e inno del New Deal durante la Grande Depressione, citato anche da Frank Capra in Accadde una notte (1934). Capra, non a caso, era amico di Walt Disney.


Oltre a un forte richiamo alla realtà politica dell’epoca, però, Biancaneve è anche ricco di simboli. Per esempio Biancaneve che invoca l’amore quando raccoglie l’acqua del pozzo, ovvero le emozioni raccolte dal subconscio. E anche le personalità dei nani non sono casuali: si va dall’ingenuità infantile di Cucciolo alla saggezza di Dotto, con Brontolo a simboleggiare l’intolleranza e la vecchiaia e Gongolo e Mammolo negli stadi intermedi dell’innamoramento. Tutte le fasi della vita, scandite in sette personalità diverse. Ma i film di Walt Disney, non soltanto Biancaneve e i sette nani, sono stati interpretati anche in maniera tutt’altro che positiva. La metamorfosi della regina in vecchia, ad esempio, secondo un utente spagnolo di YouTube, alluderebbe a un’invocazione a Satana: «Polvere di mummia, per invecchiare; per tingere le vesti, il nero della notte; per arrochire la voce, risata di strega; per imbiancare i capelli, un urlo di terrore; turbine di vento, per agitare il mio odio». Sono ingredienti che hanno l’obiettivo di terrorizzare lo spettatore e di inquietarlo per il potere oscuro della regina e per le sorti di Biancaneve. Ma se così non fosse stato, se la regina non avesse avuto questi poteri oscuri, il film avrebbe perso interesse e non avrebbe avuto successo.


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Pur essendo tratto da una fiaba dei Grimm, il film ha alcune fondamentali differenze che addolciscono il contenuto e che riadattano la storia per il pubblico a cui Disney voleva rivolgersi: le famiglie americane che amano l’entertainment e il dolce sapore del lieto fine. Perché nel mondo di Walt Disney tutto deve finire bene e anche storie profondamente drammatiche come potevano essere il Peter Pan di Barrie (il triste isolamento del bambino in un mondo che gli impedisce di crescere e che lo porterà ad allontanarsi dalla famiglia), o simboliche come il Pinocchio di Collodi – devono avere i tratti tipici della “disneynità”. Per cui, se nella fiaba dei Grimm la strega tenta più volte di uccidere Biancaneve, prima soffocandola con una cintura e poi con un pettine avvelenato, nella Biancaneve di Walt Disney è sufficiente la mela avvelenata; in secondo luogo, il bacio del principe non esiste per i Grimm: Biancaneve si risveglia in maniera del tutto casuale, quando un principe (che non l’ha mai vista se non dopo essere stata avvelenata con la mela) la conduce nel suo castello e nel corso di una caduta Biancaneve riesce a espellere il boccone avvelenato. Niente di romantico, quindi. E anche la punizione del Fato è un’invenzione di Walt Disney: la matrigna, invitata alle nozze di Biancaneve con il principe, è costretta a indossare delle calzature incandescenti e a ballare, finché non muore. Varianti essenziali, come si è già detto, per identificare alcuni elementi con la Biancaneve di Disney, non con quella dei Grimm.


Le trasposizioni più recenti della celeberrima fiaba non fanno altro che restituire alla storia di Biancaneve il tema essenziale che Disney aveva cercato di celare: la sessualità. Perché in fondo la regina vuole uccidere Biancaneve perché è gelosa di lei, della sua bellezza, ma soprattutto della sua femminilità; una femminilità pericolosa perché le può sottrarre il suo sposo. Un elemento che nel film della Disney non è per niente accentuato, cosa che accade invece in Biancaneve (2012) con Lily Collins e Julia Roberts, laddove le due donne arrivano addirittura a contendersi il principe. È chiaro che, anche per il pubblico a cui è destinato Biancaneve e i sette nani (le famiglie, ma soprattutto i bambini, la cui sessualità è ancora latente), due donne che, per conquistare un uomo, esprimono al massimo la propria femminilità non sono affatto concepibili, anche se, nella Sirenetta (1989), questo elemento verrà fuori. Ma si tratta di un periodo differente, e soprattutto con un’azienda del tutto rinnovata e orfana di Walt Disney. Purtroppo le esigenze di marketing portano però anche a una rilettura di fiabe classiche secondo una visione moderna e di genere totalmente diverso che va a snaturare la morale stessa della storia, trasformandola in un futile intrattenimento fine a se stesso. È ciò che accade in Biancaneve e il cacciatore, sempre del 2012, che segue il filone di altre fiabe ritornate al cinema in live action come il deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton o come lo pseudo-horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011); oppure, infine, l’altrettanto deludente e inutile remake La Bella e la Bestia (2014).


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Tornando a quella notte del 21 dicembre 1937, la follia di Disney si era rivelata una scommessa più che vincente: il successo al botteghino per il primo lungometraggio animato della storia, escludendo i tentativi – di cui si è già accennato – di Quirino Cristiani e di Lotte Reiniger, fu straordinario. Walt Disney, due anni dopo, si aggiudicò l’Oscar alla carriera e fu lodato da Chaplin e da Ejzenštein, che definì Biancaneve il più grande film mai realizzato. Tramandato per intere generazioni, amato da ogni famiglia, senza distinzione di sesso o di età, Biancaneve e i sette nani è il più grande classico fra tutti i classici Disney, una pietra miliare della settima arte, innovativo tanto quanto lo sarebbe stato Quarto Potere soltanto tre anni dopo ma molto più popolare. Un’esplosione incontenibile di emozioni, dettate da situazioni anche piuttosto naïf, ma assolutamente originale, se si considera l’epoca in cui è nato. Un film di quasi ottant’anni fa – settantotto, per essere precisi – ma immortale tanto quanto il suo creatore, un uomo che voleva farsi ibernare per ottenere l’immortalità e che è riuscito a salvaguardare il proprio nome, la propria fama, attraverso personaggi innocenti e genuini come dei bambini, divenuti tra i maggiori simboli della cultura popolare, non soltanto di quella occidentale.


Sergio Leone e la Trilogia del Dollaro

Un cavaliere solitario arriva a San Miguel, un paesino del confine tra Messico e Stati Uniti. Non ha un dollaro in tasca, ma ha l’aria sorniona di chi è svelto a sparare, e nel vecchio West questo basta e avanza. Dopo aver assistito al sopruso ai danni di un bambino, lo straniero arriva dal proprietario del saloon del paese, Silvanito, che gli spiega la situazione: è in atto una guerra tra le due famiglie più potenti, i Baxter, che vendono armi, e i fratelli Rojo (Don Benito, Esteban e Ramon), che vendono alcol. «I Baxter da un lato, i Rojo dall’altro. E io nel mezzo. Aveva ragione il campanaro: c’è da arricchirsi in questo paese». È questo l’inizio di Per un pugno di dollari (1964) – remake de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa – primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro, completata da Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), tutti e tre diretti da Sergio Leone, che oltre a lanciare Clint Eastwood (all’epoca un giovane attore con qualche parte minore all’attivo) definirà un genere, i cosiddetti “spaghetti western” (produzioni di film western italiani con budget ridotto), diventandone uno dei registi più importanti.


La Trilogia del Dollaro si discosta notevolmente dai classici western americani, per esempio i film di John Ford. Nell’epopea di Leone non ci sono buoni e cattivi (nonostante il titolo del terzo film faccia pensare il contrario). Ci sono piuttosto uomini che agiscono soltanto per se stessi, per arricchirsi. Lo straniero senza nome, che qui sarà chiamato Joe, mentre nei due film successivi sarà rispettivamente il Monco e il Biondo, è il massimo esempio dell’opportunismo: è uno che fa di tutto per raggiungere i propri obiettivi. È disposto a bluffare, a uccidere e anche a rischiare la vita. Lo fa in Per un pugno di dollari, quando si trova tra i due fuochi, i Baxter e i Rojo, riuscendo ad attuare un doppiogioco piuttosto rischioso per un uomo qualunque, ma non per uno così furbo. Quando però Ramon Rojo (un mefistofelico Gian Maria Volonté) scopre di essere stato ingannato, lo cattura e lo fa torturare dai suoi uomini, riducendolo in fin di vita. In seguito alla fuga di Joe, Ramon scarica tutta la propria rabbia sui Baxter, incendiando la loro casa e uccidendoli a sangue freddo. Aiutato dal becchino, intanto, Joe riesce a fuggire e a preparare, poco alla volta, la sua implacabile vendetta.


Lo scontro finale – supportato dalle epiche musiche di Ennio Morricone, fondamentali per connotare i film di Leone e per diversificarli dagli ordinari film western americani – è diventato ormai leggendario. Mentre Ramon e i suoi uomini torturano Silvanito per sapere dove si è nascosto lo straniero, si sente un’esplosione: dinamite. Il fumo avanza davanti ad alcune case ormai disabitate. E poi, poco alla volta, compare un uomo. Appare come un fantasma ma è piuttosto un abile illusionista. E con l’illusione affronta Ramon, che gli scarica tutti i proiettili dritto al cuore. L’uomo intanto grida: «Al cuore, Ramon! Per uccidere un uomo lo devi colpire al cuore! Sono parole tue, no?». Non solo. Ramon aveva anche detto: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.»


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Non si tratta soltanto di un duello in cui si decide chi vive e chi muore ma anche chi ha ragione. Joe sfida Ramon in tal senso, smentendo le sue forti convinzioni, sparare al cuore ed essere più forte solo perché usa un fucile al posto di una pistola. Di fronte all’invulnerabilità di Joe, Ramon, resosi conto di aver finito i proiettili, prova un attimo di panico. Intanto Joe gli mostra il suo segreto: una lastra d’acciaio a fungere da giubbotto antiproiettile. Una scena enfatizzata dai lunghi momenti di silenzio, dai primi piani sugli sguardi e da altre, interminabili, pause. Dopo aver sparato agli uomini di Ramon, la sfida diventa un faccia a faccia: un uomo con la pistola e un uomo col fucile. Joe spara prima alla corda che lega il povero Silvanito. Poi getta per terra la pistola e invita Ramon a raccogliere il fucile, a caricare e a sparare. Sarà una sfida soprattutto di velocità. Il finale è scontato, con la vittoria di Joe, che riporta la pace a San Miguel ma che fugge poco prima che arrivino le forze governative. Al galoppo verso nuove avventure. Verso un altro mucchio di dollari.


Nel film successivo, Per qualche dollaro in più, Joe è conosciuto come il Monco. La mano fuori uso è quella martoriata dalle torture di Ramon. Ma ora non è più un cavaliere solitario doppiogiochista: ora è diventato un cacciatore di taglie a tutto tondo e il suo obiettivo è catturare lo spietato Indio (ancora Gian Maria Volonté, sempre più mefistofelico), un bandito messicano senza scrupoli che vuole rapinare la banca di El Paso. Stavolta, però, ci sarà qualcuno a contendersi il bottino con lui: si tratta del Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), che con Indio ha un conto in sospeso, poiché il bandito, in passato, aveva ucciso la sorella e il cognato del colonnello. La donna, dopo essere stata violentata dall’Indio, si era sparata un colpo proprio con la sua pistola. Quindi è la vendetta, oltre che i soldi, a muovere il colonnello.


Unitosi al Monco – mosso invece soltanto dai soldi – il colonnello lo convince a far evadere da una prigione un ex scagnozzo dell’Indio, per poi introdursi nella sua banda e spiare dall’interno le sue mosse. Obiettivo del colonnello è lo scontro frontale con l’Indio, ossessionato dalla musica di un carillon, al termine della quale è solito sparare. Questo secondo film riprende alcuni elementi del primo: c’è un cavaliere solitario (Joe in Per un pugno di dollari, qui il Monco, ma il personaggio è lo stesso) che vuole arricchirsi; c’è una sconfitta (l’Indio che scopre il Monco e il Colonnello e li fa pestare dai suoi uomini) e c’è, infine, un duello letale, anche questa volta mosso dalla vendetta, ma per un’azione narrata soltanto in un flashback anziché nella linea temporale del film. L’elemento aggiuntivo è il Colonnello, spalla ideale del Monco, rispetto al quale si dimostra molto più saggio e metodico. Discorso simile vale per il terzo e ultimo film della trilogia, Il buono, il brutto e il cattivo, in cui l’azione però non è mossa dalla vendetta ma soltanto dai soldi, ancora una volta. L’intreccio, però, è più complesso; e se Per un pugno di dollari rispettava le unità aristoteliche di luogo (tutto il film è ambientato a San Miguel), in questo caso lo scenario cambia spesso e porta le strade dei tre protagonisti a intersecarsi in maniera del tutto casuale.


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Il Biondo (Clint Eastwood) e Tuco (Eli Wallach) si arricchiscono grazie alla taglia sulla testa di Tuco, truffatore, ladro, omicida e rapinatore: il Biondo prima lo consegna e poi lo libera, facendo aumentare ogni volta il bottino. I due si imbattono in una carovana, in cui un moribondo, un certo Bill Carson, rivela a Tuco l’esistenza di un bottino di duecentomila dollari sotterrati in una tomba. Prima di morire, Carson fa in tempo a dire a Tuco soltanto il nome del cimitero, mentre al Biondo, in fin di vita proprio per colpa di Tuco – che si era vendicato perché il Biondo, a sua volta, lo aveva abbandonato nel deserto dopo aver intascato la taglia –, rivela il nome della tomba in cui cercare il tesoro. Sulle tracce di Carson c’è anche uno spietato killer che si fa chiamare Sentenza (Lee Van Cleef). Tutto ciò sullo sfondo di una guerra civile che non conosce pietà per nessuno. I tre film sono legati dal motivo comune che scatena il plot narrativo (i soldi) e dallo stesso protagonista (il cavaliere senza nome) nonché da una struttura narrativa con qualche variante e con l’aggiunta di attori importanti al fianco della star Clint Eastwood, che per la Trilogia del Dollaro riuscì, tra un film e l’altro, sull’onda del successo, a far aumentare progressivamente il proprio ingaggio.


Tre film entrati nell’immaginario collettivo e diventati fonte di ispirazione per registi come Quentin Tarantino (che dedica Kill Bill proprio a Sergio Leone), Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Stanley Kubrick, John Woo, Brian De Palma, Robert Zemeckis (che lo cita nel secondo e nel terzo film di Ritorno al futuro) e Robert Rodriguez (C’era una volta in Messico, ultimo film della cosiddetta trilogia Mariachi, richiama C’era una volta il West o C’era una volta in America, altri due film di Leone). Stephen King, per il personaggio di Roland Deschain della Torre Nera, si è rifatto al cavaliere senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro.Quanto allo stesso Clint Eastwood, l’esperienza con Leone lo ha fatto crescere molto come attore ma lo ha fatto diventare anche e soprattutto un regista di primissimo livello, portandolo a vincere l’Oscar con Gli spietati e con Million Dollar Baby. A questi si sono aggiunte altre perle immortali come Gran Torino, Un mondo perfetto, Mystic River e l’ultimo, American Sniper, capace di incassare circa 547 milioni di dollari totali partendo da un budget di 60.


Al di là del contributo circa la carriera di Clint Eastwood, Leone ha profondamente rinnovato il linguaggio del cinema; e lo ha fatto, in particolare, con quello che è considerato il suo capolavoro, C’era una volta in America (1984), un disincantato racconto sui ricordi, la vita, l’amicizia, l’amore, l’infanzia, il sogno, l’illusione. Una vastità di temi enorme, unita a un cast eccezionale (Robert De Niro, James Woods, Joe Pesci). Dotato di un’incredibile sensibilità per la caratterizzazione dei suoi personaggi e per la capacità di farne emergere la profonda umanità, Sergio Leone, con la Trilogia del Dollaro, ha rivoluzionato tecniche, linguaggi e generi, introducendo nel cinema personaggi, situazioni e stereotipi in netta contrapposizione con i classici western. Su tutti, spicca la figura dell’uomo senza nome, un cavaliere solitario che non può legarsi a nessuno, in cerca soltanto di soldi.


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Eppure anche la sua ricerca infinita potrebbe essere stata generata da qualcosa di grave che gli è accaduto in passato (di cui non si dice mai nulla). Lo si lascia intendere in Per un pugno di dollari, quando libera Marisol e la sua famiglia dalla prepotenza di Ramon, innamorato della donna. «Perché fate tutto questo per noi» gli chiede il marito di Marisol; «È una storia troppo lunga da raccontare ora», risponde lui. Un motivo molto forte. Qualcosa che tormenta Joe/il Monco/il Biondo ma che mai sarà svelato. Sempre ammesso che qualcuno non decida di farlo rivivere, rimettendogli il poncho, il sigaro e quello sguardo profondo che sono il marchio di fabbrica del più affascinante personaggio tra gli affascinanti film di Sergio Leone.

Diane Pernet: la vestale dello stile

Un velo in pizzo nero nasconde in un alone di mistero la sua figura, maestosa, leggiadra, affascinante: un senso innato per lo stile l’ha resa arbiter elegantiae dall’indiscutibile autorità nel fashion biz, giudice inflessibile nel decretare le sue sentenze sull’estetica contemporanea. Definire Diane Pernet non è impresa semplice: fashion designer, brillante giornalista e critica di moda, icona di stile, talent scout, blogger tra le più seguite al mondo e, ancora, fotografa e cineasta: il nome di Diane Pernet è oggi sinonimo di stile.

Pelle di porcellana, labbra rosso lacca e un volto dalla bellezza austera, che ricorda Anjelica Huston. Comunica quasi una forza ancestrale, la sua figura di nero vestita, presenza fissa nel front-row delle sfilate più interessanti: sacerdotessa della moda, vestale di quel buon gusto che oggi appare quasi un miraggio, il suo senso innato per la bellezza l’ha resa talent scout dal fiuto eccezionale nello scovare e valorizzare designer emergenti. Attenta alle tendenze, trendsetter ella stessa, dopo avere dato prova di eccellere in discipline eterogenee, Diane Pernet ha messo il suo blog, visitato quotidianamente da milioni di utenti, al servizio dei giovani, facendosi pigmalione, talvolta quasi deus ex machina, nella promozione del talento e della tanto cara meritocrazia, oggi in via di estinzione.

Acclamata come una diva della moda, la sua vita privata è avvolta nel mistero: nessuno conosce esattamente la sua età. Nata a Washington sotto il segno della Bilancia, la lunga e sfolgorante carriera di Diane Pernet inizia negli anni Ottanta, a New York: è qui che la futura icona muove i primi passi come stilista e costumista. Cresciuta a Philadelphia, dopo aver studiato Filmmaking presso la Temple University si trasferisce nella Grande Mela, dove lavora inizialmente come fotografa di reportage. Ma la sua strada è un’altra. A un suo boyfriend dell’epoca basta un’occhiata per capire che il design Diane lo ha scritto nel DNA.

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Diane Pernet è critica di moda, giornalista, talent scout e blogger tra le più autorevoli al mondo


Il suo stile trae ispirazione da un background prettamente cinematografico: ad influenzarla sono nomi come Anna Magnani, Sophia Loren, Lucia Bosé, e l’atmosfera dei film di Pasolini, Visconti, Fellini, Truffaut, Buñuel, Cassavetes, Michelangelo Antonioni, Joseph Losey.

Dopo essersi iscritta alla Parsons School of Design e al prestigioso Fashion Institute of Technology, abbandona gli studi dopo appena nove mesi per aprire la propria linea di abbigliamento. Per ben 13 anni Diane Pernet lavorerà con successo al marchio che porta il suo nome. Uno stile austero e minimale caratterizza il suo brand, in netto contrasto con le tendenze degli anni Ottanta. Ma la Grande Mela dei primi anni Novanta, tra lo spettro dell’AIDS e la criminalità diffusa, non riesce più a darle gli stimoli estetici che le sono da sempre necessari, come parte integrante della sua stessa essenza: il futuro è a Parigi, la capitale per antonomasia dello stile. Qui Diane Pernet scopre il suo talento anche come giornalista: in breve diviene fashion editor per Joyce Magazine, Elle.com, Vogue.fr, oltre che costume designer per il film di Amos Gitai Golem l’Esprit d’Exile, del 1991. Inoltre approda anche al cinema, apparendo in due capolavori quali Prêt-à-porter di Robert Altman e La nona porta di Roman Polanski.

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Uno scatto che immortala la bellezza di Diane Pernet, che ha iniziato la sua carriera a New York come fashion designer


All’età di 28 anni Diane Pernet incontra il suo primo grande amore, Norman, che sposa in una cerimonia in cui indossano entrambi dei jeans. Ma lui perde la vita in un drammatico incidente stradale. Diane ha appena 31 anni ed è già vedova. Da quel momento decide che il nero sarebbe stato suo compagno di vita. La mantilla di tradizione spagnola diventa must have del suo look: dal pizzo allo chiffon, le sue mantille sono disegnate per lei da Filep Motwary. Iconica e unica nel suo stile, a metà tra suggestioni orientali e note del Barocco siciliano, quasi una Madonna, nella sua inconfondibile acconciatura stile Pompadour, il suo velo nero è divenuta la sua firma nonché la sua cifra stilistica.

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Nel febbraio 2005 Diane Pernet ha fondato il suo blog “ASVOF”, “A Shaded View On Fashion”


Pioniera di internet, di cui ha saputo intuire fin dal principio l’immenso potenziale comunicativo, nel febbraio del 2005 fonda il suo blog di moda ASVOF (A Shaded View on Fashion), che tratta di stilisti emergenti, ma anche di cinema, design e architettura. Spontanea e quasi naïf nel suo viscerale bisogno di bellezza, alla costante ricerca di nuove forme di espressione, alla base del suo blog vi è un bisogno primordiale: comunicare. ASVOF nasce come un diario personale le cui foto venivano dapprima scattate dalla stessa Pernet con la videocamera del suo telefonino. Divenuto in breve tempo punto di riferimento a livello internazionale per chiunque avesse voglia di dire la sua in fatto di stile, il suo blog si è imposto come mezzo per una moderna rivoluzione culturale, avente come fine ultimo quello di restituire l’arte alle masse.

Diane Pernet è ideatrice anche del festival ASVOFF (A Shaded View on Fashion Film), il primo festival annuale al mondo ad occuparsi di cortometraggi di moda, avente sede presso il Centre d’Art Georges Poumpidou di Parigi. Dopo aver ottenuto un impressionante successo, altre edizioni del festival sono state organizzate a Barcellona, Milano e Tokyo. Curatrice nel 2010 di CineOpera, una rassegna di film del regista Michael Nyman, organizzata presso Corso Como, a Milano, e di una mostra di arte e moda presso il New York Art Fair, Diane Pernet ha collaborato come co-curatrice al festival di Moda e Fotografia di Santiago de Compostela nel 2007. Pluripremiata per l’impegno da lei profuso a favore dello stile, nel 2008 è stata invitata presso il Metropolitan Museum di New York, dove il suo blog è stato riconosciuto come uno dei 3 blog di moda più influenti al mondo. Dal 2007 al 2012 è stata co-direttrice di ZOO Magazine.

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Musa iconica, la sua inconfondibile mantella in chiffon nero è divenuta la sua cifra stilistica


Diane Pernet si definisce integra ed idealista: in un mondo in cui apparire sembra essere il mantra universale, lei si dichiara fortemente convinta che il talento e la passione contino ancora nell’industria del fashion; contraria a ogni gerarchia, quasi un’anarchica dello stile, ha più volte dichiarato che le sarebbe piaciuto incontrare Madame Grès, mentre considera Catherine Baba la persona più elegante al mondo. Dopo aver sviluppato quasi un’idiosincrasia per i pantaloni, nel suo guardaroba troviamo solo abiti e maxi gonne, meglio se di Boudicca o Isabel Toledo.

Contraria ad ogni regola in fatto di eleganza, amante delle scarpe, delle borse e dei cappotti, i suoi stilisti preferiti sono Rick Owens, Dries Van Noten, Gareth Pugh e Ann Demeulemeester. Cinefila e cineasta, tra le sue amicizie più intime spicca Rossy de Palma, musa di Pedro Almodovar. “Dress to please yourself” è il suo monito: perché lo stile è qualcosa che alberga nell’animo.


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Amici miei, la tragicommedia all’italiana

Pietro Germi aveva iniziato a lavorare ad Amici miei dopo il 1972. Ma a causa dell’aggravarsi di una malattia di cui soffriva da tempo, la regia fu affidata a Mario Monicelli, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana insieme a Dino Risi e a Luigi Comencini. Monicelli aveva già diretto pietre miliari del cinema italiano come I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959) e L’armata Brancaleone (1966). Il film uscì nel 1975, poco dopo la morte di Germi, a cui i titoli di testa sono dedicati: «Un film di Pietro Germi».


Il cuore della vicenda è quella toscana popolare e goliardica che sarà rivisitata negli anni Novanta da Pieraccioni, mentre l’emblema stesso della fiorentinità sarà quel Benigni capace di trattare argomenti seri (l’olocausto, la mafia, la guerra ecc.) in maniera leggera. In questo caso, l’unico grande argomento è l’amicizia, o meglio il valore dell’amicizia, intesa come strumento per evadere da una quotidianità grigia, squallida e insoddisfacente, per tuffarsi in avventure (o “zingarate”) che hanno la freschezza e il sapore della gioventù. Eppure i cinque protagonisti sono tutt’altro che giovani. Sono ormai cinquantenni ma si conoscono da una vita: compagni di scuola, di militare e di vagabondaggi, sono pronti a farsi beffe l’uno dell’altro e a tornare amici subito dopo. Per loro l’amicizia è l’unica vera cosa che conta.


Lo sa bene Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), un ricco – grazie a sua moglie – capace di sperperare tutto quello che possedeva, per ritrovarsi a vivere in uno scantinato (pagato dai suoi amici), e a dover badare a un’amante molto più giovane di lui, Titti, di cui è gelosissimo e che ha tendenze bisessuali. Non è molto diversa la situazione degli altri componenti della banda, a incominciare dall’architetto Melandri (Gastone Moschin), sbandato proprio come Mascetti. Melandri vuole però una donna e la trova in Donatella, moglie di Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), primario della clinica presso cui Mascetti, Melandri e gli altri due amici, Perozzi (Philippe Noiret) e Necchi (Duilio Del Prete), erano stati ricoverati dopo una delle loro tante zingarate. Melandri riesce a conquistare Donatella grazie all’aiuto dei suoi amici (che parlano con lei al telefono facendole credere che a parlare fosse lo stesso Melandri) ma c’è una trappola: Sassaroli accetta che Donatella si trasferisca da Melandri, ma pretende che con lei vadano anche il cane Birillo, le due figlie e la governante tedesca. I due si accordano per visite bisettimanali di Sassaroli a moglie e figlie, ma il dottore non risparmia critiche, anche pesanti, sulla mediocrità di Melandri, il che è appoggiato dagli altri tre amici, che vogliono vendicarsi per la fuga repentina di Melandri dalla clinica e per aver nascosto l’esito positivo dell’incontro con Donatella.


Allo stesso Melandri si deve una frase che riassume l’intero senso del film: «Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?». Le donne fungono solo da cornice, così sono gli uomini a innescare, con le loro “supercàzzole”, gli unici legami profondi. Personaggi che si sentono soli al di fuori della loro cerchia, di una banda che li unisce come fratelli e che li fa sentire davvero a casa. Perché essere accettati da una famiglia è il loro reale problema. Lo è per esempio per il giornalista Giorgio Perozzi, che ha un rapporto ostile sia con sua moglie, da cui è separato, sia con suo figlio Luciano, stufo di doverlo rimproverare per i suoi comportamenti immaturi. Anche Perozzi, come Mascetti e Melandri, trova nel sesso una parziale compensazione del vuoto che lo circonda (ogni tanto accetta di incontrare delle prostitute). È proprio da Perozzi che ha inizio il racconto del film: un nuovo giorno – l’alba – e lui che non ha nessuna voglia di tornare a casa. Vuole ritrovare i suoi amici, per ridere, scherzare e godersi la vita nonostante sia cosciente di non poterlo fare, ma ha voglia di sorridere e di dimenticare.


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Nel secondo capitolo, Amici Miei – Atto II (1982), si scopre qualcosa di più sulla vita di Perozzi, che gli amici sono andati a trovare al cimitero. Così si era chiuso il primo film: con la morte di Perozzi, che nessuno riteneva vera, segno che a furia di scherzare si rischia di fare sul serio. In questo flashback, quindi, si svela il motivo del rancore di Luciano verso suo padre: perché Perozzi era stato lasciato da sua moglie e come si era comportato con il bambino in seguito; i tentativi di sbolognarlo a Mascetti, che glielo restituisce dopo nemmeno un giorno; la geniale trovata per convincere sua moglie Laura a riprendersi il bambino: Laura aveva lanciato invettive contro l’amante di Perozzi, Anita, la moglie del fornaio. In seguito a un incidente in cui muoiono sette persone, Perozzi fa credere a sua moglie che anche Anita fosse morta, al fine di far germogliare dentro di lei i sensi di colpa e di dimostrarle con Anita è tutto finito. Tattica perfetta per poterle restituire quel bacchettone di suo figlio.


Il secondo episodio, tuttavia, rispetto al primo è molto più cinico: dal lucido e disincantato ritratto di Luciano sul proprio diario nelle poche ore in cui si era ritrovato a vivere nello scantinato di Mascetti, presentato come un monolocale di lusso; momenti drammatici che si ricollegano a eventi storici locali, come l’alluvione che colpì Firenze nel 1966; o la stessa situazione familiare di Mascetti, con sua moglie Alice che di nuovo (come nel primo film) tenta il suicidio e impazzisce, mentre sua figlia è incinta di uno sconosciuto e per questo Mascetti vorrebbe farla abortire; o lo scherzo del rigatino (l’abbigliamento tipico dei facchini degli alberghi, utile per una fuga invisibile), seduzione e abbandono dell’aspirante attrice di turno, in questo caso una contorsionista, che finirà, dovendo esibire le proprie abilità a Sassaroli, per essere rinchiusa in una valigia. Tutto questo fino al drammatico finale, in cui Mascetti, in seguito a una trombosi, si ritrova su una sedia a rotelle. È agli amici che esprime il proprio rammarico per non poter più fuggire dalla trappola della famiglia «Guardatela come è contenta» dice riferendosi a sua moglie. «Finalmente sono tutto suo. Mi possiede, non posso più scappare. Mi lava, mi pettina, mi mette il borotalco. Vogliono per forza che mi senta utile. Ma a me non m’importa di essere utile. Sono sempre stato inutile. […] Per favore, non mi venite a trovare più. Quando vi vedo, penso, ricordo, vi invidio. Facciamo come si faceva per il povero Perozzi: fuori uno. Così fate lo stesso col povero Mascetti: fuori due. Tanto non c’è più scopo, non mi diverto più.»


Amici miei – Atto II si era chiuso con una gara di velocità tra paraplegici a cui aveva partecipato il povero Mascetti dopo l’attacco di trombosi. Il terzo episodio, Amici miei – Atto III (1985), conferma il cast dei primi due film ma vede un cambio alla regia, affidata a Nanni Loy. L’azione si sposta dalla campagna a una casa di riposo, dove Mascetti è stato ricoverato. Dopo la morte di Alice, il suo umore è migliorato, così da tornare il “bischero” di una volta. Necchi, Melandri e Sassaroli lo vanno a trovare di frequente e non mancano, come al solito, gli scherzi sciocchi che caratterizzano la banda. Per esempio far credere agli altri anziani di essere sintonizzati su un canale rivolto alla terza età, mentre sono loro stessi che, attraverso il cavo di una videocamera, trasmettono contenuti altamente volgari e irriverenti.


Melandri, dopo aver raggiunto Mascetti presso la casa di riposo, riesce a fidanzarsi ma non a sposarsi. La nipote della futura sposa avverte Mascetti che quella che sembra una gentildonna è in realtà una poco di buono. Per salvare Melandri da un matrimonio che potrebbe rivelarsi pieno di tradimenti, Mascetti seduce la futura sposa e filma il momento del loro incontro, dimostrando così a Melandri le tendenze adulterine di colei che vuole portare all’altare. Melandri tronca senza pensarci due volte e ringrazia Mascetti: segno, per l’ennesima volta, che il matrimonio, per la banda di Amici miei, non è qualcosa di felice ma qualcosa di assolutamente infelice (non a caso Mascetti migliora dopo la morte di sua moglie) e da cui bisogna fuggire a tutti i costi. Lo farà anche Necchi, che convince sua moglie Carmen ad abbandonare il bar che gestiscono per trasferirsi nella casa di riposo con Mascetti e Melandri, nonostante Carmen sia del tutto contrariata per questa decisione, visto che si sente ancora in grado di lavorare.


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Non mancano, nel frattempo, le solite burle, per esempio far credere a un uomo ricoverato nella casa, un certo Lenzi, che Mascetti e Melandri partecipano a delle messe nere e che si vendono al diavolo per avere in cambio l’elisir della giovinezza. Da buoni toscani, non possono che citare Dante («Pape Satàn, aleppe!») durante il falso rito; e il risultato è far credere a Lenzi di essere davvero tornato giovane (in realtà lo truccano a pennello). Sassaroli dirà agli altri, responsabili indiretti per la morte di Lenzi, che in realtà gli hanno fatto solo un favore, alleviandogli le pene della morte (ma soprattutto della vecchiaia).


Ormai, però, tutti questi scherzi, più che far ridere, fanno pena. Nei primi due film si rideva piangendo e il desiderio dei tre protagonisti di sentirsi ancora giovani, di fare ancora quegli stessi sciocchi scherzi che facevano da giovani, di non avere relazioni serie tranne che tra loro stessi (nemmeno quindi con le mogli, che erano anzi di intralcio) – tutto questo aveva un che di drammatico, di estremamente malinconico: l’età avanza ma loro cercano di fare qualunque cosa per sentirsi ancora vivi. Seppur anziani, ostentano energie che non posseggono più. In tal senso il finale di Amici miei – Atto III è particolarmente significativo, nel momento in cui Necchi e Sassaroli ritentano il celeberrimo scherzo del treno del primo film: schiaffeggiare i passeggeri in partenza, affacciati ai finestrini. In quel caso era stato emblematico Perozzi che, tra le vittime del treno, trovava suo figlio Luciano.


Ma ora Perozzi non c’è più e Necchi, dal canto suo, non ce la fa più a saltare; e infine i treni sono diventati più alti. Ora accade il contrario e sono quindi i passeggeri a schiaffeggiare l’allegra banda di “bischeri”, anche se Mascetti, sempre sulla sedia a rotelle, spruzza dell’inchiostro con una peretta ai passeggeri, segno che, pur essendo invalido, non è cambiato per niente. Intanto Sassaroli – molto prevedibilmente unitosi agli altri tre – è diventato direttore della casa di riposo, dopo aver venduto la clinica di cui era primario. Finalmente riuniti, i quattro “bischeri” possono far baldoria fino alla fine dei loro giorni, celebrando la loro infinita vitalità.


La morale, in sostanza, è non avere legami: tutti e cinque i protagonisti non vogliono legarsi a nessuno se non tra loro stessi. Le mogli non servono: sono meglio le amanti, perché le donne, secondo una visione del tutto misogina, sono utili soltanto per soddisfare degli impulsi sessuali perenni, al di là dell’età. Il matrimonio, insomma, è qualcosa di troppo serio, con delle regole a cui non si può e non si vuole sottostare. Era proprio per questo che Mascetti, nel finale del secondo film, sottolineava di avere un solo scopo, vale a dire sentirsi libero. E l’amicizia diventa, per tutti loro, sinonimo di libertà. Che è la libertà di burlarsi l’uno dell’altro, di perdonarsi nonostante le “supercàzzole”, di fare ciò che si vuole. Una complicità che non ha eguali, di cui le donne non possono – non devono – essere rese partecipi.


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Eccezione è Melandri, l’unico che cerca di nutrire dei sentimenti sinceri ma ogni volta c’è qualcosa che ostacola il compimento del suo amore: nel primo film si innamora di Donatella, la moglie di Sassaroli; poi, nel secondo, riesce a sposarsi (dopo essersi perfino battezzato) ma proprio quando la sua sposa sta per concedersi, a causa dello straripamento dell’Arno tutto va in fumo (preferisce salvare i suoi quadri e i suoi incunaboli!); e infine si innamora, nel terzo film, di una donna che, a un minimo tentativo di seduzione, cede al primo che capita (in quel caso Mascetti). Da qui deriva la dipendenza totale di Melandri al gruppo di amici e l’impossibilità di chiudere il cerchio e di arrivare, dopo fasi costanti che prevedono l’innamoramento, il desiderio e la seduzione, anche al possesso della donna. L’amore non può quindi coesistere non tanto con l’amicizia ma con quegli amici, che avranno sempre la priorità. Accade la stesa cosa a Necchi quando sua moglie Carmen lascia la casa di riposo in seguito all’invito, da parte del direttore – visti i continui comportamenti poco consoni alle regole da parte di Mascetti, Melandri e Necchi – ad andarsene. Anche Necchi preferisce gli amici: è quindi come Melandri, pur avendo in parte compiuto il ciclo amoroso (perlomeno si è sposato).


L’unico profondo legame è insomma tra gli amici: un legame che li unirà fino alla morte. Non c’è donna che tenga, ma loro sono inseparabili. Per l’amicizia rinunciano a ogni cosa. In cambio ottengono una fedeltà molto più sicura di quella coniugale, capace di soddisfarli fino in fondo, fino a farli sentire incredibilmente vivi.

Chanel Métiers d’Art a Roma

Sfilerà il primo dicembre nella cornice di Cinecittà la collezione Métiers d’Art di Chanel 2015/16 intitolata Paris-Rome. Le due capitali saranno unite dallo charme della storica maison francese: Roma è la location scelta da Karl Lagerfeld per presentare la sfilata, negli storici studios di Cinecittà.

Inoltre, sempre nella medesima sede, sarà presentato l’ultimo cortometraggio girato da Lagerfeld e dedicato alla vita di mademoiselle Coco: protagonista è Kristen Stewart, nei panni di Gabrielle Chanel. Nel corto spicca Géraldine Chaplin: l’attrice, alla sua quarta interpretazione della couturiere che ha rivoluzionato i canoni della moda, sarà con la Stewart protagonista di “Once and forever” -questo il titolo del corto.

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Nel cast del film anche Jérémie Elkaïm, François Marthouret, Amanda Harlech, Jamie Bochert, Jake Davies, Baptiste Giabiconi e Laura Brown. Kristen Stewart è un nome molto caro a Lagerfeld, che l’ha scelta come volto della collezione occhiali Primavera/Estate 2015 e ora come testimonial della campagna pubblicitaria Métiers d’Art.

L’attrice statunitense, classe 1990, divenuta celebre per il suo ruolo di Bella nella celebre saga Twilight, si trova molto a suo agio nei panni di Coco Chanel, almeno a giudicare dalle prime foto del backstage, appena diffuse: tatuata quanto basta, in un inedito ma quantomai riuscito mix di elementi contemporanei e tocchi vintage, lo stile ribelle sfoggiato dalla Stewart ben si sposa con la personalità esplosiva di Gabrielle Coco Chanel, la cui vita ricca di ostacoli, disfatte e vittorie, ha incantato generazioni di fashion victims. Il corto prevede scene di backstage che si alternano alla narrazione, in un gioco di epifanie. Imperdibile l’appuntamento del primo dicembre a Roma.


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Grace Kelly: ghiaccio bollente

Nasceva oggi l’indimenticabile Grace Kelly: diva di Hollywood e attrice Premio Oscar, poi divenuta Principessa consorte di Monaco, sposando Ranieri III.

Un volto dai lineamenti perfetti e una classe unica, l’attrice è stata un’icona indiscussa degli anni Cinquanta.

Definita da Alfred Hitchcock “ghiaccio bollente”, sotto una patina apparentemente glaciale ribolliva in lei una sensualità torbida, che incantò il maestro del brivido, per il quale fu una musa.

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Grace Kelly nel 1955
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Foto di Clarence Sinclair Bull, 1956
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Grace Kelly nacque a Philadelfia il 12 novembre 1929

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Grace Kelly ritratta da Howell Conant a Montego Bay, Giamaica, 1955


Grace Patricia Kelly nacque a Philadelphia il 12 novembre 1929, in una ricchissima famiglia di origine irlandese e di fede cattolica. Il padre di Grace, John Brendan Kelly, era un uomo bello e carismatico, oltre ad essere un milionario: perfetta incarnazione del self-made man, aveva costruito un impero e agli occhi della figlia era un modello quasi insuperabile. La madre di Grace, Margaret Majer, era di origine tedesca: avvenente ed atletica, fu la prima donna a insegnare educazione fisica all’Università della Pennsylvania.

Vincitrice del Premio Oscar come migliore attrice per il film La ragazza di campagna, del 1955, inserita dall’American Film Institute al tredicesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, la carriera di Grace Kelly fu inizialmente osteggiata dalla sua famiglia. Dopo qualche esperienza come indossatrice, la bionda Grace ottenne il suo primo ruolo all’età di 22 anni, nel film 14ª ora (1951), e l’anno seguente fu co-protagonista con Gary Cooper nel film western Mezzogiorno di fuoco.

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Grace Kelly a Philadelphia poco prima delle sue nozze col Principe Ranieri di Monaco, celebrate nel 1956
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Grace Kelly in un abito disegnato per lei da Edith Head, foto di Philippe Halsman, 1955
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Come una dea greca, Grace Kelly in Edith Head
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Il volto perfetto della diva
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Icona dello stile anni Cinquanta, Grace Kelly è stata un’attrice premio Oscar

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La Principessa Grace al Principato di Monaco


Ma è nel 1953 che la splendida attrice ottiene la fama internazionale, grazie alla sua interpretazione in Mogambo. Un film drammatico ambientato nella giungla del Kenya che vede un inedito triangolo amoroso tra la Kelly, un’altra bellissima del cinema come Ava Gardner e il bel tenebroso Clark Gable. La pellicola valse a Grace Kelly una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. La sua algida bellezza incantò il maestro del brivido Alfred Hitchcock, che la volle come protagonista di tre film storici: Il delitto perfetto, del 1954, La finestra sul cortile, in cui fecero storia anche i magnifici costumi disegnati per Grace Kelly dal genio di Edith Head, e Caccia al ladro (1955). Sul set di quest’ultimo film, girato nel Principato di Monaco, la bella attrice conobbe il Principe Ranieri, suo futuro marito.

Nel 1956 l’attrice interpretò il ruolo di una principessa nel film Il cigno, quasi un presagio di quella che sarebbe stata di lì a poco la sua vita. Con la commedia musicale Alta società, sempre del 1956, la diva diede l’addio alle scene, prima di convolare a nozze con il Principe Ranieri III di Monaco. Prima di lui rumours indicano relazioni con numerosi colleghi, tra cui Clark Gable, Gary Cooper, Bing Crosby, Ray Milland, Burt Lancaster, William Holden e Jean-Pierre Aumont, e con lo stilista Oleg Cassini.

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La diva in uno scatto di Gene Lester, 1954
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In un abito azzurro disegnato da Edith Head per il film “Caccia al ladro”, del 1955
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Grace Kelly sul set di “Alta società”, 1956
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Ancora sul set di “Alta società”, diretto da Charles Walters
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Uno scatto del 1956

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Grace Kelly nacque in una famiglia cattolica di origine irlandese


Il matrimonio con il Principe Ranieri non fu solo il felice epilogo di una storia da favola. Reduce da una relazione con l’attrice francese Gisèle Pascal, che secondo una visita medica non avrebbe potuto dargli un erede, il principe Ranieri valutò la scelta della splendida Grace come sua consorte anche per ragioni di natura politica. In assenza di un erede, infatti, il Principato di Monaco sarebbe passato alla Francia. La presenza di Grace Kelly al fianco di Ranieri si rivelò quindi strategica sia per la possibilità dell’attrice di avere figli che per lo charme che ella seppe conferire a Monte Carlo, trasformandolo in un luogo d’élite ambito dalle celebrities.

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Una foto promozionale per il film “Caccia al ladro”, 1955
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La principessa ritratta nella sua Monte Carlo
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Grace Kelly sul set de “La finestra sul cortile” (Paramount, 1954), foto di Bud Fraker
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La celebre gonna a ruota disegnata da Edith Head per il film “La finestra sul cortile”
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Grace Kelly e sua madre in uno scatto degli anni Cinquanta
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Un bellissimo primo piano della diva, definita da Alfred Hitchcock “ghiaccio bollente”

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Con i costumi creati da Edith Head sul set di “Caccia al ladro” di Hitchcock, 1955


Dal matrimonio tra Grace e Ranieri, celebrato nel 1956, nacquero tre figli: la Principessa Carolina Luisa Margherita, nata nel 1957, il principe Alberto Alessandro Luigi Pietro, Marchese di Baux, nato nel 1958, e la principessa Stefania Maria Elisabetta, nata nel 1965. Un animo nobile e modi gentili, grandi opere di beneficenza e una generosità senza precedenti resero Grace Kelly la principessa ideale. La sua prematura scomparsa, avvenuta il 14 settembre 1982, a seguito di un incidente stradale, lasciò un vuoto enorme tra gli abitanti del Principato. Un breve tragitto in macchina con la figlia Stefania, la principessa Grace che perde il controllo della vettura: in pochi istanti si consumò una tragedia. Se la figlia Stefania se la cavò con qualche escoriazione e qualche frattura, la principessa non riprese mai più conoscenza. Moriva così, ad appena 52 anni, una delle più grandi attrici della storia del cinema ed una delle donne più belle di tutti i tempi, il cui charme e la cui bellezza rimarranno sempre indimenticabili.


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Hedy Lamarr: genio e bellezza

Chi tende ancora a sostenere il vecchio e quantomai datato pregiudizio per cui le donne belle non possano brillare anche per intelligenza sarà costretto a ricredersi: la storia ci ha fornito illustri esempi di donne di grande bellezza che, grazie anche al loro carisma e alla loro intelligenza, sono riuscite ad imporsi e spesso a cambiare le sorti della storia.

Un volto splendido e una classe fuori dal comune caratterizzavano Hedy Lamarr, attrice degli anni Quaranta a cui oggi Google dedica il suo Doodle, nel 101/mo anniversario della nascita della diva.

Una bellezza e un’intelligenza fuori dal comune resero Hedy Lamarr una delle attrici più affascinanti del cinema e una delle prime donne al mondo ad imporsi nel settore scientifico. Nata a Vienna il 9 novembre 1914, all’anagrafe Eva Maria Kiesle, nelle sue vene scorreva sangue ungherese ed ucraino.

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La conturbante bellezza della giovane impressionò alla fine degli anni Venti il produttore cinematografico Max Reinhardt che la iniziò agli studi cinematografici. Il primo film è Ekstase di Gustav Machaty, girato quando la ragazza ha solo 18 anni. Un film scandalo, a causa di alcune scene a seno nudo, fortemente sensuali per l’epoca.

Nel 1933 la bella attrice sposa il mercante d’armi Friedrich Mandl, che compra quante più copie possibile di quella pellicola. La loro abitazione diviene in breve teatro di numerose feste a cui presero parte, tra gli altri, Adolf Hitler e Benito Mussolini, oltre che diversi esponenti del mondo scientifico, che iniziarono la diva alla passione per le tecnologie. Mandl tuttavia è geloso della sua bellissima moglie e, come lei stessa dichiarò in seguito, tentò di farla vivere segregata. Fu così che, nel 1937, la bella attrice scappò a Parigi. Qui conobbe il produttore cinematografico statunitense Louis B. Mayer, tra i fondatori della casa di produzione cinematografica Metro-Goldwyn-Mayer. Il nome di Hedy Lamarr fu scelto proprio da Mayer, in omaggio a Barbara La Marr, diva del cinema muto.

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Nel 1938 Hedy si trasferisce ad Hollywood e qui inizia la sua sfolgorante carriera nel cinema. Prende parte a più di 30 film, tra cui spiccano La febbre del petrolio, dove Hedy recita al fianco di Clark Gable e Spencer Tracy, nel 1940, e Corrispondente X, sempre con Clark Gable, due anni dopo.

Il ruolo forse più celebre fu quello di Dalila nella produzione di Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille.

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Oltre alla sua straordinaria bellezza e fotogenia, pochi sanno che Hedy Lamarr fu anche una delle prime donne scienziato della storia. Durante la Seconda Guerra mondiale ideò insieme a George Antheil un sofisticato sistema per realizzare messaggi criptati via radio, affinché non potessero essere intercettati. Il prototipo, basato sul meccanismo del pianoforte, fu brevettato nel 1942 e fu utilizzato per la prima volta circa venti anni più tardi dalla marina militare degli Stati Uniti. La diva fu inserita nella Inventors Hall of Fame degli Stati Uniti nel 2014 per questa sua invenzione, che è ancora oggi alla base di molti sistemi tecnologici nonché della telefonia mobile.

Inoltre Hedy Lamarr brevettò anche altre invenzioni, tra cui una compressa per ideare bibite gasate ante litteram e un ingegnoso prototipo di semaforo per regolare il traffico cittadino. La sua lunga carriera cinematografica negli anni Settanta era ormai agli sgoccioli: dopo il ritiro dalla vita pubblica, nel 1981, la diva appariva ossessionata dalla chirurgia estetica. Hedy Lamarr morì il 19 gennaio del 2000, all’età di 85 anni, e le sue ceneri furono disperse nella Selva Viennese.


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