I 6 FILM PIÚ ATTESI ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
JOKER: FOLIE À DEUX
È il sequel tanto atteso di Joker. Il protagonista è internato ad Arkham State Hospital in attesa del processo, quando incontra l’amore, una musicoterapeuta interpretata da Lady Gaga.
BABYGIRL
La regia della danese Halina Reijn che affronta insieme i temi potere-sesso. Nicole Kidman nei panni di una Amministratrice Delegata (al potere) che si innamora dello stagista (Harris Dickinson) dolce al lavoro, autoritario a letto. Il marito tradito? Antonio Banderas
MARIA
Presentato in concorso il film Maria di Pablo Larraín sta facendo il giro del web per i 10 minuti di applausi ad Angelina Jolie nel ruolo della grande interprete Maria Callas. Si narra l’ultima settimana di vita della cantante, quella della disperata ricerca di una voce perduta. Ultimi momenti di vita nel ricordo della storia d’amore con Onassis che l’abbandona per sposare Jacqueline Kennedy e della dipendenza dai barbiturici che le offuscano i pensieri.
Pierfrancesco Favino, il maggiordomo-autista Ferruccio; la domestica Bruna è Alba Rohrwacher; Valeria Golino è la sorella della Callas; Haul Bilginer, Onassis, e Alessandro Bressanello il marito-pigmalione.
BEETLEJUICE BEETLEJUICE
L’ironia di Tim Burton mette sempre un po’ di allegria al Festival del Cinema di Venezia, e dopo 35 anni ci fa una grande sorpresa: il ritorno di Beetlejuice – Spiritello porcello, con il cast originale, Michael Keaton, Winona Ryder Catherine O’Hara, e le new entry Jenna Ortega, Justin Theroux, Monica Bellucci, sua attuale compagna e musa. In uscita nelle sale cinematografiche il 5 settembre
WOLFS – LUPI SOLITARI
Action-movie intriso di humor, forse iI film tra i più attesi per l’accoppiata vincente Brad Pitt – George Clooney, amici inseparabili, fantastici sullo stesso set ed esilaranti sui red carpet. In “Wolfs Lupi solitari”, interpretano dei killer professionisti chiamati entrambi a coprire un crimine, far sparire corpi, cancellare prove. Un film che non si prende troppo sul serio, con la regia di Jon Watts.
THE BRUTALIST
E’ la rappresentazione del sogno americano, la storia di un architetto ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, arriva in America e viene notato da un magnate che gli commissiona un lavoro. La vita precedente fatta di povertà e umiliazioni verrà stravolta. Adrien Brody interpreta il protagonista al centro di una fotografia architettonica con la regia di Brady Corbet.
Chanel FW 2024-25: omaggio a Claude Lelouch e alla storia iconica della maison
Già dalla colonna sonora, che riprende la musica di Pierre Barouh, si evince che l’advertising della Fall-Winter 2024-25di Chanel è ispirato esplicitamente al film Un uomo e una donna del regista francese Claude Lelouch. In particolare è ripresa una delle scene finali (quella della cena), il viaggio in macchina, e le riprese di una serena spiaggia a Deauville.
L’atmosfera in cui i due protagonisti sono immersi è infatti proprio quella della cittadina costiera normanna, cara alla maison poiché proprio lì nel 1913 Gabrielle Chanel inaugurò la sua prima boutique di moda, affascinata dal clima bucolico di quel luogo.
Possiamo notare come, attraverso un gioco di richiami, la scena dell’appuntamento dei due amanti, interpretati da Brad Pitt e Penelope Cruz, ben si presta all’esposizione della celebre Flap bag, dal momento che anche nel film, in primo piano, sul tavolo è esposta una borsa nera di forma analoga.
Le inquadrature del paesaggio balneare che intervallano il dialogo tra i due protagonisti, inoltre, richiamano il legame di Chanel con il mare. È proprio negli anni di Deauville infatti che nasce la marinière, l’iconica maglia a righe orizzontali bianche e blu ispirata a quella dei marinai ed emblema dell’inconfondibile stile chic balneare ideato dalla stilista francese.
In un clima di erotismo raffinato, che ben si addice all’immaginario di Chanel, il cortometraggio aggiunge all’eleganza quel tocco di seduzione emblematico della maison.È in questa danza di allusioni ed eleganza che ad uno Chateaubriand mediamente cotto si sovrappone la calda passione dei corpi a cui si allude nel finale.
Genius non è solo un film sul grande scrittore Thomas Wolfe o sul grande editore Maxwell Perkins, Genius è un film che parla di una grande amicizia, quella di una penna eccellente che ha ispirato scrittori della Beat Generation come Kerouac e del primo grande editor degli autori, lo scopritore di Hemingway, Fitzgerald, Wolfe e Caldwell.
Cos’è l’amicizia se non la scoperta di avere al mondo qualcuno con cui poter parlare la stessa lingua, un’anima simile che può comprendere i tuoi umori, assecondare i tuoi gusti ed esaltarli, scoprire in te le qualità più nascoste ed elogiarle, uno spirito neutro a cui poter confidare i tuoi più intimi segreti e gli stessi occhi con cui guardare le luci di un palazzo che si accendono la notte, commuovendosi per l’immensità e la potenza della vita?
E’ questo il tipo di amicizia che ha legato due grandi uomini del ‘900, in un’America fatta di sogni e speranze, di grandi autori distrutti, di vite spentesi troppo presto.
Se il genio sregolato di Thomas Wolfe non aveva mai avuto alcun amico al di fuori del suo editore, Perkins era invece noto per la sua cordialità e l’affabilità con cui trattava i suoi protetti; un legame nato sull’onda della voracità della parola. Wolfe sempre con la penna in mano a scrivere fiumi di righe, Perkins totalmente dedito al mestiere e dentro le storie che andava via via leggendo, tanto da dimenticarsi di togliere il cappello a tavola.
Chi ha aiutato l’altro? Wolfe ha dato a Perkins un grande libro da vendere, Perkins ha dato a Wolfe una carriera, la realizzazione di un sogno, la visione d’insieme che sono i libri sul mercato, fatti non solo di un unico pugno, ma della maestria di una figura che sta nel backstage, per l’appunto l’editore. Un editore che taglia, che lima, che strappa parole che hanno fatto male nel venir fuori, che “arrivano dalle budella” come dice lo scrittore nel film di Michael Grandage, ma che grazie al rimodernamento di un professionista, diventano dei bestseller.
Genius è un bel film, non solo per l’eccellenza attoriale di Colin Firth (Max Perkins), che ha anche il dono di avere un viso amabile, ma perchè ci ricorda che esistevano (ne esistono oggi? Forse un paio) ancora degli editori interessati all’arte, alla letteratura, alla forza della parola, alla speranza che un libro potesse cambiare i pensieri, e modellare le anime oggi domani e nei secoli a venire. Oggi le grandi case editrici si sono date al gossip e all’influencer marketing. Cosa insegnamo, cosa impariamo, cosa ci rimane di tutta questa carta straccia? Dove sono i nuovi Roth, le piccole Plath?
Genius è un film del 2016 diretto da Michael Grandage con Colin Firth, Jude Law e Nicole Kidman
Il film è la sintesi dell’ossessione sulla verità. “Vera”, vita vera, come il nome della protagonista Vera Gemma, che interpreta nessun altro al di fuori di se stessa.
Vera Gemma, figlia del grande attore e stuntman Giuliano Gemma, quello bello che faceva roteare pistole come fossero carte da gioco tra le mani, quel padre famoso che ogni figlio non vorrebbe, perchè il peso della notorietà grava sempre su chi lo segue. Solo i non famosi lo sognano, appesi all’illusione che il cinema e la celebrità regalano, nascondendo la polvere sotto il tappeto. In questo film tutto lo sporco salta fuori; con una secchezza e un minimalismo quasi da Nouvelle Vague, i registi Tizza Covi e Rainer Frimmel fanno sfilare le presenze venali e superficiali che circondano il mondo di Vera, dall’agente al fidanzato che chiede, dietro la finzione dell’amore, denaro. Sarà sempre Vera a pagare, per il compagno, per una famiglia a cui si lega, vittima di un imbroglio.
Vera viene rappresentata così com’è, eccentrica nel vestire, indossa sempre un cappello da cowboy, tacchi vertiginosi, gilet di pelliccia, e un trucco da trans. “Mi ispiro alle trans. Più somiglio a una trans e più mi sento bella. Da piccola ero innamorata pazza di Eva Robin’s.“
Lo sguardo è sempre imbronciato, un po’ triste, amareggiato dalla vita, a volte rassegnato quando si parla di lavoro e di persone. Vera è la figlia d’arte che potrebbe avere le porte spalancate, e invece le si chiudono in faccia, con una ferocia e una noncuranza che la porta a dire “basta”. Basta casting, basta film, buttandosi senza paracaduta nella vita vera.
È qui che si scontra con il padre di Manuel, disperato vedovo che vive nella borgata di Roma che tira a campare aggiustando motorini, vivendo nella casa dell’anziana madre (costretta a riempire secchi d’acqua alla fontana pubblica) e fingendo incidenti con il figlio per racimolare qualche spiccio dalle assicurazioni. È così che si guadagna da vivere, così che irretisce Vera, arrivando a drogarla e derubarla di tutti i gioielli regalatole dal padre, nella sua piccola casa a Trastevere. Vera, combattuta se denunciarlo o no, preoccupata di quel figlio senza madre che potrebbe ritrovarsi a vivere pure senza un padre, rinuncia per compassione, come quando capisci che nella vita tutto ha un inizio ed una fine, e non puoi farci nulla se le regole sono queste, puoi solo accettarle, puoi solo accogliere la sofferenza o crogiolartici.
È nella scena con l’amica di sempre Asia Argento, che si legge un momento di complicità e leggerezza, quando Asia la porta al cimitero acattolico di Roma, a vedere la tomba del figlio di Goethe. Una tomba senza nome, solo il “figlio di”, come si sentono le due donne, le figlie di Dario Argento e di Giuliano Gemma. Si chiedono se qualcuno ha pensato mai ai dolori di quel ragazzo, se hanno mai parlato dei suoi sogni e delle ambizioni, se lo hanno mai chiamato per nome. Qui Vera accenna un sorriso, quei sorrisi amari che si svelano solo nella complicità, come quando due animali braccati si annusano e si riconoscono; e così anche il dolore ha lo stesso odore.
Quanti avranno pensato che Vera Gemma sarebbe stata così talentuosa? Il film è stato premiato al Festival di Venezia 2022 Sezione Orizzonti con due premi:migliore attrice femminile e migliore regia.
È il pregiudizio ad averci fregato, come confessa lei con grande onestà, “non ho mai la faccia giusta, non sono mai abbastanza bella come mio padre, sono sempre sbagliata“, un viso segnato dalla chirurgia, pratica iniziata alla tenera età dalla madre. “Perchè ha voluto rifarci il naso?” – chiede Vera alla sorella mentre riguardano delle diapositive “erano così belli“.
Una ricerca ossessiva della bellezza, quella bellezza esteriore che ci mette tutti sotto torchio, sotto esame, dalla Barbie che ci regalano da bambine, alle mode che cambiano repentinamente. Eppure, la bellezza che vediamo in questo crudo e trasparente documentario, come attraverso un cristallo, è quella più pura, l’empatia più sacra, la genuinità più integra, la generosità più calorosa. Vera è l’amica che vorrei.
Lirismo del divismo, “Grand Hotel” illumina nonostante l’età. è il ’32 quando il regista Edmund Goulding raccoglie i più grandi divi del cinema Hollywoodiano e li piazza davanti ad una camera per girare quello che sarà premiato agli Oscar nello stesso anno, come miglior film a MGM, e pellicola scelta per essere conservata nel Nation Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Teatro di scena è il Grand Hotel di Berlino, non cercatelo perché non esiste, il set è stato interamente ricreato negli Studios purtroppo, peccato per gli appassionati di cinema che si sarebbero fiondati nelle sontuose stanze dei protagonisti.
Gente che va gente che viene, un tram tram di clienti che fa da sottofondo alle storie che si intrecciano tra i personaggi di diverso ceto sociale. Abbiamo il barone Felix von Geigern ( John Barrymore) che si rivelerà essere un ladro gentiluomo, molto amato per i suoi modi e il suo buon cuore, la ballerina russa, madame Grusinskaya (Greta Garbo), una diva viziata caduta in depressione al calar della carriera, il contabile Kringelein, un uomo dai giorni contati perchè malato di cuore, che decide di vivere i suoi ultimi momenti nello sfarzo totale, l’industriale Preysing, un arrogante panzone e la sua dattilografa, Flaemmchen, la grande Joan Crawford che ruba la scena alla bella Garbo forse a tratti troppo drammatica e teatrale per uno spettatore del 2023.
La missione del ladro barone sembra andare in fumo, entrato nella stanza della ballerina per rubarle i collier di perle, assiste di nascosto alle angosce della povera donna in procinto di suicidarsi. Colto da compassione sbuca fuori dalle tende e la implora di fermarsi, confessandole di essere entrato furtivamente nella stanza perchè innamorato perdutamente di lei. E nella trappola dell’amore ci finirà sul serio, rischiando così di essere ammazzato dalla malavita che pretende quelle perle promesse. Ma il barone è troppo debole nei confronti del gentil sesso, e cercherà di ottenere quel denaro altrove. Si imbatterà nel povero Kringelein a cui ha regalato la sua amicizia, quell’uomo così solo e così desideroso di vivere; ruberà il cuore alla dattilografa che non ricambia, ormai pronto a scappare segretamente in Russia con la bella ballerina, che miracolosamente ha ripreso a brillare come i vecchi tempi e che vede il Sole in ogni angolo della stanza in bianco e nero.
Grand Hotel è un film romantico che ci ricorda quanto l’amore sia il vero salvatore, un film che denuncia i comportamenti degli anni ’30 nei confronti dei differenti ceti sociali, un film che apre gli occhi sulle vere identità delle persone (la timida dattilografa si scoprirà essere una calcolatrice pronta a vendersi al suo datore di lavoro per soldi, ma presa da compassione accompagnerà il signor Kringelein a Parigi, per gli ultimi suoi giorni di vita e di gloria.
Edmund Goulding ci fa amare il buon ladro, così galante, di rara eleganza e calma, e così prodigo a salvare la vita di una star a fine carriera, ci conduce nelle stanze 170, 164, 168 sbirciando dalle fessure le storie segrete dei clienti d’albergo, ci appassiona con le telefonate d’amore e ci attanaglia trasformando il dramma in un thriller, perchè alla fine, qualcuno muore. Chi?
Il Festival del Cinema di Venezia è finalmente iniziato, lo omaggiamo con questo cortometraggio prodotto da Snob Srl, interpretato dal grande Sergio Rubini, e scritto e diretto da Peppe Tortora.
Un maestro di scuola elementare, dopo essere stato preso in giro dal direttore, davanti alla classe, decide di raccontare ai suoi bambini il significato della parola “Similitudine“. Lo fa con la storia di un uomo di nome Pernillo, un ignorante ma furbo che decide di aprire una scuola per maiali. Sergio Rubini è l’attore protagonista che interpreta il maestro, Roberto Ciufoli interpreta il direttore. L’ambiente è essenziale per dare importanza solo alla narrativa; la musica è composta da Alberto Bof come accento alla narrazione.
Tratto da un racconto di Angelo Tortora Scritto e diretto da Peppe Tortora Il maestro: Sergio Rubini Direttore della scuola: Roberto Ciufoli Bambino: Romeo Ciufoli Aiuto Regia: Jacopo Rosso Ciufoli Direttore della fotografia: Valerio Di Lorenzo Musica originale di Alberto Bof Press Agent Rubini: Saverio Ferragina Supervisione Costumi: Tommaso Basilio Aiuto Costumista: Paola Ragosta Acconciature: Concetta Argondizzo @simonebelliagency Operatore: Andrea D’Andrea Aiuto Operatore: Vittorio Penna Correzione Colore: Claudia Pasanisi Grazie al centro Anziani San Felice di Roma
Una produzione di SNOB Srl Direttore Responsabile: Miriam De Nicolò
Della sua vita privata si sa poco, noi lo conosciamo perchè recita accanto a Sara Jessica Parker, in una delle serie tv più seguite di sempre, “And just like that”, il sequel di “Sex and the city“, ma nella vita reale Sebastiano Pigazzi è un timido, così si racconta, un bambino che scriveva poesie un poco drammatiche, e che oggi ha il cassetto pieno di sogni…nel mondo del cinema.
Buon sangue non mente, perchè Sebastiano Pigazzi è il nipote di Bud Spencer, il nonno forzuto e buono che tutti avremmo voluto, una vita vissuta in America, e il cuore che lo riporta spesso a Roma, la città che ogni tanto fa sentire nostalgia dell’Italia.
Photographer Claudia Pasanisi
EIC/Interview Miriam De Nicolò
Stylist Diletta Pecchia
Grooming Barbara Bonazza
Press Office Agent Matteo Cassanelli – Mpunto
Stylist Assistant Giada Turconi
Press Office Assistant Laura Marazzi
Location Studiocane – Milan
Nel sequel di “Sex and the city, “And just like that”, interpreti il fidanzato di Anthony Marentino.Puoi svelarci qualcosa della storia? Sarà una relazione omosessuale, che nasce come un gioco e diventa un amore romantico.
Com’è stato lavorave in un cast così affiattato, di una serie di così tanto successo? Molto divertente, loro sono davvero accoglienti e gentili, mi hanno fatto sentire a casa, pensavo ci sarebbe stata tanta tensione e invece non avuto problemi ad integrarmi.
Hai portato nel tuo ruolo qualche carratteristica della tua italianità? Beh si, il personaggio è italiano, non ho avuto scelta. Lui vorrebbe fare il poeta, scrive testi d’amore in un negozio di New York per un dollaro.
Anche tu ho letto che scrivi poesie… Beh scrivevo di più quando ero piccolo, ma non d’amore, ero un pessimista. Poi ho smesso altrimenti si sarebbe potuto pensare che fossi un Leopardi 2.0 un po’ troppo drammatico con tendenze suicide.
Da piccoli abbiamo un po’ tutti un lato drammatico. Ma io avevo la tendenza ad andare sempre più verso il fondo. Ricordo che mia nonna a un certo punto mi disse: “Guarda che qualche volta puoi scrivere anche una poesia felice!“.
Perchè sei una persona sensibile. Si forse sono un sensibilone.
Tendenzialmente si cerca di coprire questo lato forse perchè qualcuno potrebbe leggerlo come debolezza, quando in realtà è un grande pregio e una grande forza. Sicuramente rende la vita più difficile. Anche se nell’arte può essere un’arma a tuo favore.
Attore con il sogno nel cassetto di regia e sceneggiatura. Il mio mondo ideale, ma sai certe cose uno vorrebbe tanto farle, ma richiedono tempo.
Hai qualche progettoavviato? La volontà non manca.
Quali sono i temi che vorresti sviluppare? Sicuramente mi piacerebbe trattare il tema della moralità, mette sempre in discussione il giusto e lo sbagliato, vorrei spingere il pubblico a pensare, metterli in difficoltà, credo sia la cosa più interessante che possa regalare il cinema.
Moralità che si è un po persa in questo periodo storico. Si forse si è un po persa. Non sarò io a dire cosa è giusto o sbagliato, ma vorrei mettere in scena personaggi ambigui e lasciare al pubblico l’ultima parola. Un modo per giocare con il cinema, riflettendo.
E tu da che parte stai? Ti senti più buono o cattivo? Come tutti gli altri, qualche momento buono e qualcuno cattivo, direi umano. Troppo spesso nel cinema vediamo separate le due metà, quando nella realtà siamo tutti entrambi i lati della medaglia.
Cè chi ammette di avere una parte piu preponderante rispetto l’altra. Tutti hanno qualche motivazione, nessuno nasce cattivo.
Ti senti un ragazzo fortunato? Molto fortunato, ovviamente tutti hanno vissuto qualche trauma, fa parte della vita, rende tutto più vivo.
E i tuoi traumi li puoi raccontare? I traumi sono intimi, forse sono sempre stato un pò rabbioso, insoddisfatto.
Potrebbe essere il paragone con qualcuno del tuo grado di parentela? No nessuno, non posso paragonarmi a mio nonno.
Hai un anneddoto carino da raccontare legato a tuo nonno Bud Spencer? Ero piccolissimo, e mi ero attaccato ad una bottiglia d’acqua, ingollando senza sosta. Mamma e nonna hanno provato a fermarmi, ma solo il vocione del nonno è riuscito nell’intento, facendomi piangere. Era così imponente.
Perchè a tuo parere “Sex and The City” ha un seguito così grande? Perchè parla di quattro donne che vivono la vita in modo un pò provocatorio e ha la capacità di raccogliere ogni tipo di personalità femminile, per cui è facile immedesimarsi. La scelta di girare in una città meravigliosa come New York, che ti sembra di vivere lì con loro, e soprattutto in chiave ironica.
La tua più grande passione oltre al cinema? Stare con amici e persone a cui voglio bene.
Dove ti senti più a casa? A Santa Monica, dove sono cresciuto.
Un luogo dell’italia che un pochino ti manca? Dopo qualche tempo si sente sempre la mancanza di Roma.
Roma o i romani? I romani no, ah ah.
Dovessi scegliere un periodo in cui vivere? Per un giorno? Forse andrei a vedere l’antica Roma.
A fare il gladiatore? No a vederli.
Avessi scelto un mestiere diverso? Il politico.
Sei legato a qualche partito? No, ma trovo sia un’altra forma d’arte che può cambiare la vita a molte persone. Utopico, ma se ben gestita potrebbe aiutare realmente.
Actor Tommaso Ragno Interview by Miriam De Nicolò Photography Martina Mammola Styling Allegra Palloni
Più andiamo avanti nella conversazione, più si comprende che la vita, per Tommaso Ragno, sia uno studio continuo sul mestiere dell’attore, e che queste ricerche siano diventate di natura così ossessiva, da averle incarnate con la sua carne stessa. Cita Sacha Guitry senza saperlo, quando dice che l’attore è pagato per provare sentimenti che non prova: l’intensità arriva già dalla voce. chiudendo gli occhi diviene più profonda e poi attenta, cauta, sibilante, triste quando parla dell’amore, decisa quando si riflette allo specchio.
La differenza tra la realtà del teatro e la realtà del cinema. James Stewart, un grande attore statunitense, diceva: “Nei film si tratta di creare momenti. Nessuno sa come questo accada. Ma il compito è di prepararsi al meglio affinché questi momenti accadano, perché nei film non è la performance a contare come la si intende in teatro. Non è esattamente così. Nei film si va per momenti. La cosa grande del cinema è il potenziale che i film hanno di comunicare le cose visivamente: il cinema ti viene più vicino di qualunque altra cosa, la gente ti guarda negli occhi.” Nel teatro invece, proprio perché la scena, lo schermo è un continuo campo totale si fa un lavoro che comporta l’uso di tutto il corpo, l’elemento tecnico (cavi, telecamere, ciak, etc.) che nel cinema e nella tv è primario in teatro diventa secondario, in teatro è l’elemento umano a esser centrale, è un flusso ininterrotto, in cui sei connesso direttamente al pubblico, che dovresti percepire come tuoi partners, come fossero attori a loro volta che partecipano a creare lo spettacolo.
Come si entra dentro il personaggio da interpretare? Direi in parte alla stregua di un atleta, laddove ciò che muove tutto è il muscolo dell’immaginazione, facendo spazio in sè stessi per lasciare che si manifesti questo fantasma, chiamato per convenzione “personaggio”. Si va a cercare qualcosa che speri venga a sua volta a cercare te. Una sorta di reazione chimica. Di chimica alchemica, alla maniera degli antichi alchimisti.
Hai dichiarato in una intervista “Ciò che mi differenzia è l’immaginazione” E’ questa la miglior qualità di un attore? La qualità più importante sta nel modo di rielaborare le cose che hai imparato. Porto un esempio: tu mi consigli vivamente un libro che hai letto e amato, e che a me invece non piace. Non è il libro a essere buono o cattivo, un libro è buono o meno a seconda di quanto lo è il suo lettore, e questa è in qualche modo una benedizione per i pessimi scrittori e una maledizione per quelli buoni. Mettiamo tu abbia letto “La ricerca del tempo perduto”…
Stai parlando del mio libro preferito, Proust è l’amore della mia vita. Nella vita ci si “incontra” per somiglianze, ecco La Recherche è un libro che ha significato moltissimo per me, l’ho letto la prima volta durante una tournée teatrale in Francia molti anni fa, e mi è sembrata, attraverso l’immenso sforzo linguistico dell’autore una sorta di Divina Commedia contemporanea. E mi torna in mente la descrizione del protagonista che va a teatro a vedere la leggendaria attrice Berma, con aspettative altissime, e ne rimane deluso. Tornerà anni dopo a vederla recitare, e prenderà parte allo spettacolo con una consapevolezza che somiglia a un risveglio, a un satori, semplicemente guardandola senza alcuna aspettativa. Un capitolo incredibile che spiega cos’è la recitazione. È un libro sapienziale, che continua a esser fondamentale nella mia vita di ogni giorno.
La Recherche è vita. Vero. Un dispositivo perfetto per accendere luci in una centrale elettrica.
Hai mai interpretato un ruolo così impegnativo? In Nostalgia di Mario Martone.
Una parte che ti è valsa il premio Nastro d’argento per l’interpretazione di Malomm. Un uomo di malaffare appunto, che incontra il protagonista, Pierfrancesco Favino, in una scena di 9 minuti ricchi di difficoltà perché dovevamo portare sul set le sfumature di due vecchi amici che si incontrano dopo 40 anni, segreti nascosti, colori legati al passare del tempo e ai sentimenti contrastanti tra i due, per di più in dialetto napoletano. Sono felice di averlo fatto con un grande regista come Martone e con un attore di così grande generosità oltre che di immenso talento.
Riconosci di essere un grande attore? Non so esattamente cosa questo voglia dire, e non lo dico per modestia, perché la modestia è sempre falsa. Credo al fare con sincerità quello che mi viene proposto, credo nel lavoro, il lavoro su se stessi soprattutto e credo che si possa fare quasi tutto a patto di impegnarsi e di volerlo. Poi io come tutti dovevo pagare le bollette e potevo farlo con il mestiere che mi ero scelto. Ma anche se si è pagati per sentire sentimenti che non provi, si è anche il tramite fra un mondo di fantasmi e un mondo di vivi. Alla mia età, è davvero molto più appagante fare il mestiere che faccio, rispetto alla gioventù.
Quindi per te lo scorrere del tempo è un regalo? “Il fiore vero di un attore è quando lui invecchia“, è una frase del libro “Il segreto del Teatro No” di Zeami. La gioventù ci abbraccia con i suoi fiori freschi, la bellezza, le cellule che si irradiano, ma nessun fiore, per quanto bello, è eterno, la bellezza vera del fiore sta nel fatto che cade e poi rifiorisce, e quando quella luce comincia a cambiare, quando si va verso l’apogeo della vita, emergono altri fiori, i fiori autentici. Ed è in questo continuo cambiamento che sta il mistero, e ogni età, per chi fa questo mestiere, nasconde un fiore diverso.
Ma Luce non è solo bellezza e gioventù Vero, ma questo non lo sai quando sei giovane, non lo puoi sapere perché l’abbaglio delle cose è fortissimo ed è comprensibile che sia così. Solo oggi, i 55 anni mi hanno regalato la consapevolezza che ciò che mi accade ora, assume decisamente più sapore rispetto a solo 10 anni fa.
Come si spiega l’amore? Non si spiega, secondo me, in fondo accettiamo che esistano anche cose inspiegabili. Forse, ma non ne sono del tutto sicuro, saprei spiegare cos’è un comportamento d’amore, più che un sentimento. Il sentimento d’amore mi pare sia un’entità intermittente, il comportamento d’amore un atto volontario.
Chi o cosa ami? Amo me stesso. Voglio dire che ho cominciato a cercare di amare me stesso come fossi un’altra persona, ad amare di me ciò che nessun altro è obbligato ad amare.
Total look GAëLLE Paris
Quali aspetti di te? Gli aspetti oscuri, quelli meno condivisibili, irriducibili. Ciò che è condivisibile porta con sé qualcosa di superficiale, anche se non privo di valore. Iosif Brodskij in “Dolore e ragione” dice questa cosa: “Se l’arte insegna qualcosa in primo luogo all’artista stesso, è proprio la dimensione privata della condizione umana, essendo la forma più antica, anche la più letterale, di iniziativa privata. L’arte stimola nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza, trasformandolo da animale sociale in un Io autonomo.” Sono molte, moltissime le cose che si possono condividere, un letto, un pezzo di pane, ma non, per esempio, una poesia di Rainer Maria Rilke, non un’opera d’arte o letteraria, che toccano la parte più profonda di noi stessi. Ed è giusto anche che sia così.
Hai mai disprezzato qualcuno al punto di odiarlo? Certo. Me stesso.
Carlo Cecchi, regista teatrale italiano con cui hai lavorato dice che qualche anno fa avevi paura di sedurre e oggi invece questo timore è passato. Il palcoscenico regala una profonda carica seduttiva, che non ha nulla a che fare con l’esibizionismo. Ma si tratta di una seduzione che è somma del contesto, di una certa regia, di un’opera, di un personaggio. Di qualcosa che non sei tu. Ma qualcosa d’altro.
Quale dote vorresti avere di natura? La capacità di amare. Ci si immagina coraggiosi finché non avvengono cose che mostrano magari quanto, in realtà, la viltà, la pigrizia abbiano la meglio sull’idea che si ha di sè. E allora può succedere si diventi coraggiosi per reazione, per dimostrare che non si è codardi. E magari si continua a essere codardi pur avendo mostrato di fatto un coraggio da leoni. Lo stesso, credo, per l’amore. Da giovani si tende ad amare se stessi, uno tende ad amare l’amore di se stesso e il suo amore dell’amore, dell’idea di amore. Ma quella capacità di amare cui ti parlo è qualcosa di attivo, credo, e trova la sua realtà solo nella relazione con l’altro. Che ti mostra la tua piccolezza, o la tua grandezza, a seconda.
Da chi credi d’essere amato? “La cinepresa, ti amerà sempre, qualunque cosa tu faccia”, Michael Caine.
Domanda di rito, quanto sei Snob? Conosci un lettore appassionato di Proust che non sia anche snob?
“Non avrei mai dovuto passare dallo Scotch al Martini“ (Humphrey Bogart, 14 gennaio 1957, ultime parole prima di morire)
La lista delle presenze sulle scene del distillato di malto piú amato dagli attori e dagli spettatori di tutti i tempi potrebbe tenerci incollati allo schermo per lungo tempo. Per questo motivo abbiamo scelto alcuni titoli non per la loro importanza cinematografica ma per portare all’orecchio di tutti gli appassionati qualche nome noto e qualcun altro meno conosciuto.
Daniel Craig interpreta James Bond in Skyfall
Skyfall (2012)
La particolaritá, oltre al prestigio di questa bottiglia, è che il Macallan 1962, fu distillato proprio lo stesso anno dell’uscita del primo film sull’agente 007. Quella stessa bottiglia fu firmata da Daniel Craig, nelle vesti di James Bond, e subastata per beneficenza.
Il sapore di questo whisky è incredibilmente complesso, con una profonda sfumatura color mogano e un’elegante armonia di aromi e sapori concentrati diversi, con un sentore speziato proveniente dal legno della botte e un lieve aroma di vaniglia, ma anche nocciola, cannella, e molto altro ancora.
Jack Torrance a “colloquio” col barban
Shining (1980)
Jack Torrance, interpretato dal grande Jack Nicolson diretto da Kubrick, beve una spettrale coppa di Jack Daniels nella scena del bar dove in realtà ha chiesto un Burbon. Il figlio di Jack nel film si chiama… si, proprio Daniel.
Dal colore ed aroma molto intensi, un sapore di cereali tostati ben marcato ed un fondo di vaniglia e caramello, come ci si aspetterebbe da un Tennesse che riposa per 2 o 4 anni in botti di rovere bianco tostata al suo interno avrà un livello di “bruciato” differente che attribuirà sapori ed aromi distinti ad ogni whisky.
Breaking Bad (2008-2013)
Nella serie acclamata dalla critica soprattutto per la sceneggiatura, la regia e le interpretazioni degli attoriprincipali, il protagonista Walter White (Bryan Cranston) predilige un whisky Scozzese poco conosciuto al di fuori degli USA, il Dimpel Pinch.
Nato nel 1890 come apice della ricerca di un blend della marca esiste solo nella versione 15 anni affinato in botti americane di quercia bianca. Pepato al naso, morbido ed elastico ma con una struttura decisamente solida.
Lord Charlie Mortdecai, un “mercante d’arte” e truffatore
Mortdecai (2015)
Sicuramente non ricordiamo scena nella quale l’eccentrico protagonista, interpretato da Johnny Depp, appaia senza un drink. Ma indubbiamente la piú interessante del film è quella del risveglio nell’Hotel The Standard dove sul comodino troviamo una bottiglia di Lagavulin 16.
Un single malt scozzese invecchiato in botti di quercia e dall’inconfondibile sapore di fumo di torba del sud dell’isola, iodato e salino, con una dolcezza ricca e profonda. Ricordi di frutta secca e passa con un fondo quasi piccante.
Il Whisky, uno degli attori principali della serie.
Peaky Blinders (2013-2022)
Nella serie televisiva britannica ambientata nella Birmingahmil del dopoguerra, il protagonista Thomas Shelby (Cillian Murphy) afferma che: “Il whisky è un metodo di prova: ti dice chi è autentico e chi no.” offrendo e bevendo un Old Bushmills, attuale Bushmills 10years old.
Immaginiamolo come la porta di accesso ai più grandi single malt del mondo. Dalle botti di sherry e bourbon prende gli aromi di miele e vaniglia oltre al sentore di cioccolato bianco. Tanto complesso quanto accessibile.
Il saluto a questo viaggio nel mondo del cinema attraverso bottiglie e bicchieri di pregio lo facciamo dare da Lt. Archie Hicox (Michael Fassbender) che in Bastardi senza Gloria (2009) dice giustamente:
“C’è un posto speciale all’inferno riservato alle persone che sprecano un buon scotch…”
“La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?”
E’ questa la chiave del film di Paolo Sorrentino “E’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.
Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare. “Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?” “Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”
Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.
la scena del film nel dialogo con Capuano
In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.
Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.
E’ stata la mano di Dio
Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.
una scena del film
La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.
Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case. Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele
Napule è mille culure Napule è mille paure Napule è a voce de’ criature Che saglie chianu chianu E tu sai ca’ nun si sulo
Kourtney Roy è una giovane fotografa di origini canadesi, nota soprattutto per gli autoritratti che la ritraggono in travestimenti e situazioni sempre differenti. Interpretando stereotipi, spesso e volentieri dal gusto retro, in realtà non fa altro che distruggerli. Nelle immagini della Roy, tutto diviene magicamente altro, in una compenetrazione di realtà e illusione, quotidianità e alienazione, esistenza e fotografia.
Qual è la sua idea di Fotografia?
Non ho un’idea di Fotografia. Semplicemente esiste e non dipende dalla mia soggettiva visione di essa.
Quando ha iniziato a fotografare?
Ho iniziato a praticare la fotografia mentre frequentavo gli studi d’arte, quando ho cambiato laurea da “general fine arts” a “media studies”. Fino ad allora avevo fatto qualcosa a livello amatoriale, ho iniziato a fotografare seriamente solo dopo un corso extra.
Esiste una relazione tra la sua fotografia personale e il cinema?
Decisamente. Ho scoperto il cinema un po’ tardi. La gente spesso guardava i miei lavori e veniva a dirmi: “Quest’immagine mi ricorda questo film”, oppure “Mi ricorda l’universo cinematografico di questo regista”. Mi hanno incuriosita e ho iniziato, in questo modo, a guardare film.
Quali sono i suoi registi preferiti?
E’ sempre una domanda difficile a cui rispondere. Ce ne sono così tanti e la lista continua a crescere incessantemente, così come si affievolisce e scorre. Werner Herzog, Andrea Arnold, Jane Campion, Jean Pierre Melville, Nicolas Winding Refn, Early Spielberg, Douglas Sirk, Debra Granik. Ci sono anche tantissimi film che sicuramente non rintrano nella categoria dei registi preferiti: Animal Kingdom di David Michôd, Donnie Darko di Richard Kelly , Blade Runner di Ridley Scott , Wisconsin Death Trip di James Marsh, Don’t Look Know di Nicolas Roeg. Insomma, è realmente complicato tracciare una mappa di influenze e ammirazioni.
Come vive la sua relazione con l’Autoritratto?
L’Autoritratto mi permette di vivere nei mondi che io fotografo. Fotografarli non è sufficiente, io voglio assolutamente vivere vite parallele attraverso il mio lavoro.
Cosa può dirci riguardo gli ultimi progetti o lavori?
Ora, per oltre un anno, sto lavorando su un progetto in Canada su un’autostrada che registra un numero eccessivo di donne che sono sparite o uccise su di essa. Trascorro il mio tempo guidando sull’autostrada, dormendo in vecchi hotel e incontrando gente.
La sua fotografia è un’esplosione di colori. C’è un motivo?
Il mondo è a colori, ed è semplicemente stupendo, voglio mostrarlo nei miei lavori.