“Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone

Diamo a Cesare quel che è di Cesare – Con “Tale of tales” Garrone va sicuramente premiato per il coraggio. Mettere in trasposizione una favola è compito assai arduo e molto ambizioso, e forse Garrone qualche punto lo ha segnato.

Dall’opera secentesca di Giambattista BasileLo cunto de li cunti”- una raccolta di 50 fiabe popolari in lingua napoletana rielaborate dall’autore,- Garrone ne estrapola 3: castelli, labirinti, draghi marini, incantesimi e maledizioni, foreste incantate, re e regine sono lo scenario di un fantasy-noir.

Una regina bellissima e sterile (interpretata da Salma Hayek) è posseduta dal desiderio di avere un figlio a tutti i costi, tanto da non accorgersi di quale sacrificio compie il suo amato, morendo per lei. Il re sarà costretto a lottare con un enorme drago marino, per portare il cuore alla regina che, mangiandolo, rimarrà incinta all’istante. Il cuore verrà cucinato da una vergine, in attesa, per incantesimo, di un figlio sosia dell’erede al trono; un povero contadino che frequenterà di nascosto il futuro re, il figlio tanto voluto ed ora soffocato dall’amore di una madre ossessiva e autoritaria.

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Garrone in questo episodio riporta l’egoismo femminile di chi desidera la maternità costi quel che costi, con una freddezza e una cupidigia rivelata nella scena in cui il corpo del re morto per amore della moglie, viene totalmente ignorato e sorpassato.

Sono ambientazioni fiabesche di luoghi reali, quelle scelte da Garrone per “Tale of Tales” – come le Gole dell’Alcantara che si trovano in Sicilia o il Labirinto del Castello di Donna Fugata a Ragusa. Scenografie e fotografia vincenti, pennellate di colori che a volte si trasformano in quadri rinascimentali, con citazioni a Vermeer o Cristofaro Allori e la sua “Giuditta con il capo di Oloferne“.

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L’apice dell’immaginario fiabesco e della poesia fatta a immagine si raggiunge con l’episodio di un re erotomane innamorato della voce di una fanciulla, che si scoprirà essere una vecchina dalla pelle rugosa e segnata dal tempo, una vecchina che lo ingannerà incollandosi letteralmente la pelle da farla risultare liscia e giovane. Il re si accorgerà dell’inganno, dopo una notte passata con l’intrusa – e la farà gettare dalla finestra, rifiutando la vecchiaia, la bruttezza, l’orrore di un corpo vizzo e molle. E’ a quel punto che l’anziana donna si accorge di non voler accettare i suoi anni, la giovinezza passata. Dopo aver succhiato il seno di una misteriosa donna in un bosco incantato, la vecchia si trasformerà in una bellissima donna dalla pelle bianca come il latte e dai capelli rossi come il fuoco.
La ricerca dell’eterna giovinezza cambia colori, secoli e costumi, ma rimane sempre una terribile malattia.

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Nella terza fiaba reinterpretata da Garrone incontriamo un re – Toby Jones quale attore – ottima interpretazione, d’altronde con un viso così non poteva essere più adatto a rappresentare la manìa, le stranezze, il possesso umano – il re nutre una zecca con bistecche e carne a volontà, tanto da farla crescere e assumere dimensioni umane – quando perderà il suo animaletto custodito da occhi indiscreti, non si accorgerà di aver abbandonato la figlia nelle mani di un orco, la cui testa tornerà tra le sue mani, insanguinate, come una Giuditta che si salva da un terribile Oloferne.

Paesaggi suggestivi, la voglia di girare l’Italia tra i luoghi magnifici e paesaggi naturalistici, un Garrone beethoviano nell’intento, ma forse uno scheletro fatto di sontuosi drappeggi, rossi velluti, barocche ambientazioni.

Qui il trailer in italiano:

Cinema, politica, nazione, ma che grande confusione!

Dopo la sbornia degli infausti pronostici adesso, senza nessuno dei tre tenori premiato a Cannes, giornali e tv recriminano scioccamente sullo chauvinismo francese e sulla nostra debolezza politica a Cannes. Ma il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.




Nei giorni che hanno preceduto e accompagnato il Festival del cinema di Cannes, quando su troppi giornali e in troppi programmi televisivi italiani è partita la grancassa a sostegno dei nostri tre registi in gara – tre come i celeberrimi e un po’ sfatti (musicalmente) tenori di qualche anno fa, tre come gli iterati annunci delle locandine d’avanspettacolo – e la grancassa pubblicitaria ha dato vita a conferenze stampa congiunte dei tre candidati tra di loro abbracciati per il piacere dei fotografi e delle corti giornalistiche acclamanti, osannanti i loro prodotti e loro medesimi come li meglio fichi del nostro cinematografico bigoncio, ed era tutta una corsa a sprecare panegirici conditi con le più rosee, incoscienti e roboanti previsioni circa l’imminente trionfo della nostra nazionale registica – “Sono ben tre, almeno uno vincerà” -, ho avvertito prima un prurito fastidioso poi un’incontrollabile allergia e un riflesso refrattario all’unisono richiamo della patria infine un sincero disgusto di questa riciclata mescolanza tra arte e nazione. Così, presagendo il peggio – che tra l’altro, onestamente, non è detto che il peggio sia quel che è poi capitato – mi sono pudicamente e scaramanticamente toccato ripensando alla vigilia dell’ultimo mondiale di calcio e alle sesquipedali scemenze sulla presunta eccellenza e la superiorità tattica della squadretta di Cesare Prandelli. A chiacchiere vinciamo sempre.

Quando il cinema italiano è stato grande – e lo è stato davvero per almeno tre decenni – non ha mai confuso l’arte dei suoi autori con il prestigio della nazione e le manovre politiche. Semmai la politica nostrana la metteva alla berlina non la invocava per vincere un premio come – spero abusivamente – oggi il Corriere della sera fa dire a Paolo Sorrentino, il quale, peraltro, rivendica di aver di premi fatto indigestione, Oscar compreso e della patria assente si consola con il mercato, anzi, il botteghino. E quando Moretti ha vinto a Cannes, e ha vinto spesso, non credo proprio sia stato grazie a Silvio Berlusconi allora all’apogeo del suo potere e perciò schifato come Il caimano.


Semmai il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.


Il nostro grande cinema, si faceva scrupolo e vanto di rappresentare anche la nostra mediocrità, i nostri buffi o tragici vizi e difetti e la pochezza autentica più della bellezza evasiva e posticcia, il sobrio eroismo dei poveri con i propri poveri mezzi, non la magniloquenza al servizio di un pallido intimismo o della fuga in bizzarre fantasmagorie.


Perciò, dopo tanto fracasso, non mi hanno sorpreso né il risultato né i commenti amari dei giornali che, in coerenza con gli infausti pronostici di vittoria, hanno poi straparlato, nientemeno!, di “disfatta italiana” e di iniquo tributo di premi elargiti da giurati di molte nazionalità – “ma non c’era tra loro neanche un italiano !” – alla ospitante nazione francese e alla sua mai sazia brama di grandeur.


I più facinorosi tra i gazzettieri e gli improvvisati conduttori di “speciali” servizi tv accreditati a Cannes hanno pure insinuato il sospetto che responsabile della nuova Caporetto italiana sia stata l’insipienza delle nostre case di produzione inette a imbastire, pro patria italica, una sana azione di lobbying – e perché non anche di “mobbing” già che c’erano? – evidentemente ignari che almeno alcune delle fabbriche cinematografare dei nostri film erano straniere, stranierissime, o persuasi che una statuetta a Cannes si estorca come il pizzo a Palermo.


Non paghi di aver frainteso un festival del cinema trattandolo come un torneo tra nazioni e i suoi artisti protagonisti come atleti di un qualche sport agonistico, giornali e televisioni nostrani, al brusco risveglio del giorno dopo, non sapendo come uscire dal pasticcio in cui si erano cacciati da se soli, come prima già brindavano alla vittoria agognata così poi hanno recriminato sulla sconfitta impartita. E per coerenza han dato la colpa all’arroganza degli odiati cugini francesi, quelli stessi che alla vigilia blandivano, memori dei premi tante volte assegnati aux italiens – “l’avete già fatto dunque lo potete rifare” – e immemori che a presiedere la giuria, questa volta, sedessero due illustri fratelli – i Cohen – maestri del cinema americano e non oltranzisti cinefili di qualche école d’oltralpe.


Dio che pena, che confusione, che provinciale ostinazione nell’equivocare la propria personale stupidità con la malvagia cospirazione straniera. Sembra di sentirle le nostre comari: “Ma come, tre italiani in lizza e nessuno premiato e invece ‘sti francesi a chi l’hanno dati i premi? A uno di loro e poi a un ungherese e persino a un, come si dice ? a un taiwanita, roba da non crederci …”