Che De Luca sia un personaggio sui generis ne eravamo tutti consapevoli, anche coloro che spesso hanno confuso il pessimo gusto di certi commenti, assolutamente inappropriati al ruolo istituzionale ricoperto, con un “sagace sarcasmo” che poteva far sorridere.
Che queste battutine (come sovente sono state definite) possano aver fatto sorridere qualcuno, francamente la dice lunga su chi ha sorriso, e hanno sempre qualificato bene chi quelle “battutine” le faceva: non ironia, sarcasmo, ma chiamandola per nome altro non era, e non è, che arroganza, alterigia, e sostanziale ignoranza. Tutte caratteristiche che mal si conciliano con il ruolo che ricopre, soprattutto in questa regione, e che vorrebbe ricoprire al Sud Italia.
Ma queste sono cose che già sapevano quanti lo hanno votato e quanti si sono battuti contro di lui alle primarie, ben coscienti di qualcosa di più profondo che andava assolutamente corretto nel partito democratico. La domanda infatti andrebbe posta oggi, con senno di poi, a quanti – con l’ormai insostenibile leggerezza della buona fede – lo hanno appoggiato e sostenuto: quante ne dobbiamo ancora tollerare perché se ne abbia finalmente e definitivamente abbastanza? Perché se ci limitassimo ad una occasione, allora il beneficio del dubbio potrebbe anche starci. Ma qui la lista, già lunga, cresce e l’imbarazzo (dovrebbe) anche.
Dopo aver vissuto praticamente solo di politica tutta la vita – e lo sentiamo parlarci di “altri” che sarebbero attaccati alle poltrone – De Luca non è mai stato una sola volta in minoranza, appoggiando a seconda di come cambiava il vento questo o quell’altro segretario indistintamente (da ultimo Bersani contro Renzi per poi passare a giovane renziano rottamatore dopo otto mesi). Deve essere stato illuminato (o folgorato) sulla via delle luci d’artista, Salerno novella Damasco.
Dopo che nella sua provincia (in cui è padre padrone indiscusso e indiscutibile) è finanche entrata la DIA con inchieste pesanti sia di tessere false, sia di primarie truccate (che hanno sempre visto protagonisti sui “vicini collaboratori” lasciandolo miracolosamente immacolato), si è candidato alle primarie per la presidenza della Regione. E nonostante De Luca abbia presentato per quella candidatura 13mila firme che sarebbero dovute essere di iscritti al Pd, in una data in cui gli iscritti al Pd erano 10mila, e nonostante i ricorsi regolarmente presentati, il Pd regionale e nazionale non hanno nemmeno vagliato l’ipotesi teorica che potesse quantomeno essere inopportuno proseguire. A De Luca è stato consentito di non partecipare a dibattiti televisivi con altri candidati. A De Luca è stato concesso che fosse “normale” non rispondere ai giornalisti (in quale democrazia occidentale sarebbe stato plausibile?). Del resto De Luca parla per monologhi dalla sua TV da cui tutti poi attingiamo il verbo, da cui fornisce materiale gratuito a Crozza, che, almeno lui, fa ridere.
De Luca se la prese con la commissione antimafia presieduta dalla Bindi che lo definì impresentabile, annunciò querela e di aver presentato ricorso al collegio dei garanti del partito: nulla di tutto ciò. A De Luca è stato consentito per mesi di mantenere l’interim di ben sei assessorati (visto che lui è tuttologo e la Campania è una Regione facile da amministrare, che vuoi che sia).
Nel suo monologo periodico se l’è presa di recente con alcuni parlamentari cinquestelle, e nessuno si è scomposto quando ha affermato “li dovrebbero ammazzare tutti”. Ancora una volta la classe dirigente di questa regione e di questo partito lo ha definito “un modo di dire”, una battutina…
Poi è stata la volta della “proposta shock” offrendo dal palco “200mila posti di lavoro ai giovani nella pubblica amministrazione”, poi declinata a “vi spiego il turn-over” per poi dire “era una provocazione” (ci mancava anche qualche anima bella che dicesse che De Luca “scherzava” sulla disoccupazione giovanile al sud e il quadro era completo).
Oggi, con cotanto curriculum, ci si stupisce che De Luca – cui mai nessuno ha messo un freno – abbia detto della Bindi che “la dovrebbero ammazzare”? Ancora una volta è un modo di dire, derubricabile semmai a “forse stavolta ha esagerato”? La verità è che le presunte battutine di De Luca sono semplicemente la cifra di se stesso, della sua arroganza, presunzione, ignoranza, ciarlataneria, inadeguatezza al ruolo. Ma De Luca e il ruolo che ricopre sono in sé una cifra ben diversa: sono la misura dell’inadeguatezza della classe dirigente di questa regione, dell’incapacità di questa classe dirigente di porre un freno, di scegliere, di opporsi, di fare selezione autentica sui candidati, prona a logiche di tessere e maggioranze che cambiano a seconda del vento. A ben vedere De Luca è la cifra dell’abisso che separa la Campania dall’avere una vera classe dirigente degna di questo nome.
Tag: Campania
Il lavoro secondo De Luca
De Luca ci aveva abituati a scoop sensazionali. All’indomani della sua elezione affermò “nominerò un vicepresidente che vi farà sognare”. Dal sogno ci siamo risvegliati con la nomina di Fulvio Bonavitacola (suo fedelissimo e di cui la procura di Salerno ha ipotizzato anche che le primarie che lo hanno portato a diventare parlamentare siano state truccate). Stavolta ha promesso “una proposta choch per il lavoro, venite e saprete”. E in effetti è stato scioccante tornare alle soluzioni degli anni settanta: “La mia proposta per il lavoro: è un piano per 200 mila giovani nella pubblica amministrazione per il Sud”. Lo ha detto, testuale, in occasione dell’assemblea nazionale per il Mezzogiorno, organizzata dalla Regione con il Governo e Unioncamere alla mostra d’Oltremare.
Meno male che gli replica Carlo Calenda (non un nobel per l’economia ma almeno Ministro dello Sviluppo Economico) “Non si possono promettere 200 mila posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Sono invece d’accordo sulla necessità di interventi pubblici nel Mezzogiorno. Al Sud serve lavoro vero, non misure sociali di questo tipo”.
Il nodo della questione è sin troppo serio per liquidarlo come “la solita battuta provocazione” di De Luca, che va ricordato alla giovane età di 67 anni si riscopre renziano della prima ora all’ultimo congresso, ha sempre fatto politica senza svolgere alcun altro mestiere, e certamente economia se si è preso la briga di studiarla l’ha fatto poco e certamente male. A meno di non essere rimasto col cuore ai favolosi anni settanta, a quelle scelte economiche suicide da cui ereditiamo lo stratosferico debito pubblico che ci ritroviamo, uno sviluppo delle regioni del sud pari a zero, e la disoccupazione giovanile che De Luca vuole risolvere con le cure di Gava e compagnia bella.
Paul Samuelson durante un viaggio di studio nella Cina di Mao venne invitato a vedere una grande opera, migliaia di persone con le pale a rifare argini di fiumi di irrigazione; chiese come mai non adoperassero bulldozer e scavatrici e gli venne spiegato che non era un’opera pensata per l’agricoltura, ma per creare lavoro. Samuelson non si scompose e replicò “allora on dovevate dargli le pale, ma i cucchiaini”. Ecco che più o meno tutto torna, se non fosse che non siamo nella Cina di Mao, non siamo negli anni cinquanta, e se un presidente come Kennedy ebbe la saggezza di affidarsi – capendone poco di economia – alle lezioni di Samuelson (che vinse il Nobel) altrettanta saggezza non l’ha avuta né il governatore della Campania né i suoi consiglieri.
Andrebbe spiegato a De Luca che – soprattutto al sud – abbiamo un problema di sproporzione nel numero di persone impiegate nella pubblica amministrazione. Che dopo l’abolizione delle province e l’accorpamento delle funzioni da noi questo eccesso è diventato complicato anche da gestire. Che il personale pubblico viene pagato con la fiscalità generale, e che se non crei impresa (e quindi sviluppo e lavoro) quel costo diventa debito pubblico. Che in Italia quelli della generazione di De Luca sono abituati che quel debito “è solo sulla carta” e che non lo pagherà nessuno. Andrebbe spiegato che viviamo in città in cui ormai non si produce niente, e questo genera scarsa capacità di spesa, bassa propensione marginale di spesa e di risparmio, percezione di instabilità e precarietà, tutti elementi che accrescono la fragilità economica di un territorio, e ne diminuiscono la propensione all’investimento, e quindi allo sviluppo.
Andrebbe spiegato a De Luca – che pure ha conosciuto sia l’epoca di Mao sia l’ambiente agricolo – che quei tempi non esistono più. In questo poi bisognerebbe spiegargli che con i nuovi processi di organizzazione aziendale e con l’informatizzazione dei servizi, 200mila impiegati di oggi fanno quello che negli anni settanta facevano 2milioni di impiegati.
Ora, a meno che De Luca non ci spieghi esattamente “assunti a fare che cosa”, questi 200mila posti pubblici appaiono come un mercimonio elettorale, sono una promessa che on verrà mantenuta, sono un’illusione che i nostri giovani non meritano, sono un peso per la nostra economia, non creano alcuno sviluppo né crescita. Sono però la boutade che dimostra che chi l’ha sparata da un palco non ha la più pallida idea di che cosa stesse parlando. Al sud, e ai giovani del sud, serve una crescita vera, che passa anche da investimenti pubblici, ma in un sistema trasparente di gare e di appalti che non vadano sempre ai soliti noti. Servono servizi e infrastrutture per attrarre e creare impresa. Serve “tornare a produrre”. E con il gettito fiscale che se ne genera pagare anche – non a debito – gli stipendi pubblici. Anche quello dei De Luca, ormai da tanti anni. Sarebbe il caso andassero in pensione (con i contributi sempre versati dalle pubbliche casse, e col sistema retributivo di quella generazione, mentre a questi giovani tocca il ben diverso sistema contributivo).
Bassolino e la sua candidatura
Mi candido. Due semplice parole che su Facebook – il luogo da cui l’ex sindaco ed ex governatore sceglie da qualche tempo di parlare al popolo napoletano e del PD – raccolgono mille “mi piace” e quattrocento condivisioni in meno di due ore.
Lo fa dopo aver il giorno prima condiviso l’articolo che annunciava che la stazione di Via Toledo (di una metropolitana simbolo delle sue amministrazioni e di una tenacia estrema nel realizzarla) vinceva l’oscar delle opere pubbliche sotterranee.
Lo fa dopo che una segreteria regionale travolta dalla inefficienza con cui ha gestito le primarie regionali e dal caso De Luca – Mastursi è stata azzerata, ed in cui sono entrati – in cerca di visibilità e di ruoli di rilievo – i vari big della Regione in rappresentanza delle varie componenti di un PD in cui, Bassolino, ricorda che non è più “nemmeno dirigente di una sezione”.
Con un semplice “mi candido” Antonio Bassolino gela le ambizioni di improvvisati e improvvisabili quanto improbabili candidati mediocri in cerca di visibilità. Chi domani vorrà candidarsi – e c’è tempo sino al 7 febbraio – dovrà “sfidare lui”, dovrà avere la capacità che solo lui ha avuto in passato di tenere insieme le varie anime di un partito disunito e disomogeneo, dovrà avere credibilità programmatica ed amministrativa, e dovrà aver chiarito tutte le eventuali posizioni giudiziarie, come ha fatto lui stando lontano da cariche pubbliche.
Per qualcuno ha significato averlo messo all’angolo, ed i primi a tremare sono proprio tutti quelli che lui ha creato politicamente e che gli hanno prontamente voltato le spalle, semplici consiglieri comunali, ex parlamentari, assessori ed esponenti di primo piano, in una fase in cui – è bene ricordarlo – per fare il governo serviva avere dentro lui, Sindaco di Napoli ed ad interim Ministro del Lavoro.
Da quel tweet “state sereni” all’attuale “mi candido” è la sentenza decisiva su una classe dirigente che ha dichiarato rottamazione e rinnovamento, ha in realtà consolidato una “guerra tra bande” tra capibastone, e che oggi deve alzare le mani nella mancanza assoluta di una proposta altrettanto forte e credibile capace di mettere insieme più di lui, e di sfidarlo realmente. Una candidatura virtuale che lancia un segnale forte che va letto come un “Napoli merita di più e di meglio di essere vetrina per qualcuno per assicurarsi una posizione domani”. Napoli merita una proposta forte, dinanzi alla quale sono certo che per primo Antonio Bassolino farà un passo, non indietro ma affianco, per il bene di Napoli.
Perchè – ed anche questa è storia – Napoli da sempre è stata laboratorio politico non solo di alleanze ma anche di creazione politica, di coraggio per il bene comune che ha salvato questa città, se rileggiamo la storia, anche dalle peggiori amministrazioni possibili nei periodi più bui della prima repubblica.
Quel “mi candido” è il coraggio di chi si mette in gioco e pone una sfida politica, programmatica, di presenza fisica, nella latitanza delle scelte della deputata classe dirigente. È il coraggio che ci manca e che ci viene ricordato essere necessario per la nostra comunità.
In questa sfida Antonio Bassolino ha già vinto. E non solo per sé e contro chi lo voleva messo definitivamente all’angolo, ma soprattutto per Napoli. E sia De Magistris che il M5S che il centrodestra – oltre al partito democratico – da oggi sono chiamati ad “alzare l’asticella” del proprio livello di proposta politica. Ecco, da un leader politico dovremmo esattamente esigere questo: essere capace, oltre se stesso, di elevare il livello per il bene comune e di non accontentarsi della mediocrità opportunistica contingente, di stimolare il coraggio e di metterci la faccia. Chi pensa di poter accogliere queste sfide ha tempo fino al 7 febbraio. Il resto resta cronaca gossip che scema in un giorno tra i trafiletti.
Bassolino e le primarie in Campania
Che il PD nelle regioni meridionali abbia vocazioni masochiste è noto. Perseverare dopo lo show poco edificante delle primarie per la regione Campania diventa però patologico. Il leitmotiv è sempre lo stesso: cercare un presunto candidato unitario per evitare le primarie. E ogni volta i discorsi sono sempre inesorabilmente gli stessi. Stavolta la questione traccia un solco che va oltre le questioni di partito. Pisapia (che non si ripresenta) da Milano sentenzia “Le primarie si faranno e tutti i partiti e le liste hanno sottoscritto una carta di intenti”. Nel pragmatismo milanese la data c’è, ed è il 7 gennaio. Chi vuole si candidi in quei termini, partita e discussione chiuse. Da noi le eterne discussioni su date, regole e fantomatiche ricerche di unitarietà (laddove unità non c’è) sono il sintomo di quella eterna lenta melma politicante che serve solo al sottobosco di accordi di potere, di comparsate sui giornali pur di esistere “ancora, un giorno almeno…”.
Lo spessore di questa presunta nuova classe dirigente è tutta in un hastag di un Antonio Bassolino, sindaco venticinque anni fa, e ostracizzato dal partito che ha fondato e diretto e riportato alla vittoria, l’unico che è stato autenticamente capace di unirlo e tenerlo insieme. Basta che twitti #statesereni, o che decida di andare da spettatore alla festa de l’Unità che coloro che sono la nuova classe dirigente fuggano via e si terrorizzino. Eppure quell’Antonio Bassolino è lo stesso che tutta questa classe dirigente l’ha tenuta a battesimo, tra ex consiglieri comunali, ex assessori, ex dirigenti.
La querelle sull’ipotesi della sua candidatura per me è semplicemente qualcosa che non esiste: un uomo dalla lunga storia politica, che dalla politica ha avuto tutto, cui tutti riconosciamo quantomeno intelligenza politica e conoscenza delle cose elettorali, non credo affatto metterebbe a repentaglio il proprio capitale – non solo politico ma anche storico ed umano – rischiando la sconfitta con un partito ridotto a Napoli a meno del 18%. A meno che non creda nel miracolo, che solo lui potrebbe fare.
Ma la generosità di Bassolino, e l’amore per il suo partito, forse ancora non sono stati compresi fino in fondo. Certo, c’è una componente di ego che tutti gli rinosciamo (e quale politico apicale non ne ha una gran dose), ma c’è dell’altro. Bassolino non è stato messo alla porta, si è messo da solo in disparte come solo i grandi sanno fare per concludere le vicende giudiziarie al termine di vent’anni di comando assoluto e indiscusso. E mentre gli amici di un tempo, che a lui devono tutto, gli hanno voltato le spalle, oggi lui a testa alta può dire – ancora – di essere una risorsa enorme, autorevole, pulita, scevra da processi e condanne. E che – alla faccia del presunto cambiamento e rinnovamento – basta un suo cinguettio, una sua “uscita fuori porta” (semmai ad Ercolano per visitare la festa del suo partito senza che nessuno lo avesse anche solo invitato) che tutti tremano.
Bassolino non è il nuovo, ma il solo appparire all’orizzonte della sua candidatura fa tremare in primis i suoi ex fedelissimi che gli hanno voltato le spalle riciclandosi e “cambiando idea”, costruendosi una carriera rinnegando quella stagione, senza alcun mea culpa.
La sua resta una enorme provocazione che andrebbe letta per ciò che è e dovrebbe far riflettere tutti su ciò che sta avvenendo. Il disvelamento di una classe dirigente che pensava di esserlo, dimenticando che la leadership non si inventa, non si cala dall’alto, non te la conferisce un ruolo. Bassolino è un leader, come ricorda lui stesso “senza essere nemmeno dirigente della più piccola sezione del PD”. Altri evidentemente nonostante il ruolo – interno e istituzionale – leader non sono. E serviva il buon vecchio Bassolino a far emergere questa semplice verità, che non ha compreso chi – in segreteria regionale, provinciale, a Roma da parlamentare o altrove – pensava di pesare per grazia ricevuta o ruolo infuso.
Al netto di questo tuttavia, in un’era di politica anche digitale, Antonio Bassolino è e resta l’unico vero influencer politico della politica regionale, riuscendo, attraverso strumenti non esattamente propri della sua generazione, con due status di Facebook e due tweet scritti bene a dettare (letteralmente) l’agenda politica, tanto dei dirigenti del partito quanto di “giovani spauriti guerrieri quarantenni”, costretti a inseguire, replicare, intervenire, rispondere. Chapeau.
Se il PD riflettesse su questa semplice realtà, e cominciasse a dire grazie per la lezione al suo Antonio, forse, sarebbe un partito più umile, e già per questo migliore. E se a Napoli importassimo un pizzico di quel sano pragmatismo milanese, e dicessimo anche noi che le primarie si fanno, chi vuole davvero si candidi e ci metta la faccia e si faccia votare e scegliere dal suo popolo, beh, saremo meno schiavi degli accordi di potere dei capibastone e della malapolitica che mantiene a galla sempiterni signornessuno. E se imparassimo a non confondere “la piazza virtuale” con “il vascio di quartiere”, forse, anche la nostra immagine sarebbe meno provinciale e più consona al ruolo di chi si candida a fare bene per il bene comune.
De Luca – primo mese
Che De Luca fosse “uomo del fare” i suoi più stretti collaboratori e sostenitori lo hanno ripetuto per tutta la campagna elettorale. E c’era da crederci anche senza questo tormentone. E che avesse un consenso molto ampio, anche questo lo si sapeva bene. Del resto ha vinto le primarie anche perchè nello stesso Pd non c’erano alternative né forti né innovative, e ha vinto non solo nella sua Salerno dove nel 2006 era il quarto sindaco più popolare d’Italia e nel 2008 aveva un tasso di approvazione del 75 per cento.
Come ha ben spiegato Davide Maria De Luca su Il Post “Tutto questo consenso, però, ha avuto un prezzo molto alto. Salerno è al quindicesimo posto in Italia per le spese per personale sostenute dal comune: quasi il 40 per cento del totale delle spese correnti (cioè il denaro usato per pagare stipendi e far funzionare i servizi essenziali di un comune). Oggi Salerno ha debiti per più di 200 milioni di euro, il 120 per cento della sua spesa corrente. È il venticinquesimo comune più indebitato d’Italia – anche senza considerare un altro centinaio di milioni di euro in debiti fuori bilancio, cioè debiti contratti dalle società partecipate dal comune.”
Oggi – con corsi e ricorsi tra Tar e tribunale ordinario – da circa un mese si è insediato a Palazzo Santa Lucia nella nuova veste di Presidente della Giunta Regionale. Non solo. Ha tenuto per sè alcune deleghe. Trasporti, Sanità, Cultura e… Agricoltura. Come ricorda Mimmo Panegalli… “In una conferenza stampa a Palazzo Santa Lucia ha detto: ”L’agricoltura è una mia passione personale e mi sono riservato la delega” facendo forse riferimento al periodo in cui era funzionario dell’Alleanza dei Contadini.”
Ed ecco alcuni dei primi atti del neo governatore, su cui comincare a fare un bilancio del primo (abbondante) mese della nuova amministrazione.
Nella veste di Presidente della Giunta e di Assessore ai Trasporti nomina il nuovo cda di EAV – la controllata partecipata regionale che gestisce gran parte dei trasporti pubblici regionali. Alla presidenza, dove dovrebbe andare un tecnico del settore trasporti con una visione “di settore” (coadiuvato da un cda e da un amministratore delegato che “porti avanti la linea e il piano industriale”) viene nominato Umberto De Gregorio.
Ottimo commercialista e persona perbene. Peccato non si sia mai occupato di trasporti. A suo credito essere stato “l’uomo De Luca” a Napoli in campagna elettorale ed aver organizzato “il programma” del neo-governatore.
Con lui due dirigenti regionali: Maria Teresa Di Mattia già incaricata in Autoservizi Irpini e in Acam (l’Agenzia campana per la mobilità sostenibile), e Ruggero Bartocci, dirigente di staff alla direzione generale per la mobilità della Regione.
Una nota sulla situazione dell’EAV: ha un credito verso la Regione di circa 500 milioni euro, pari all’incirca ai 500 milioni di debiti complessivi. Quanto possono essere “pressanti” i nuovi vertici dell’EAV verso l’assessore ai trasporti e verso il presidente della giunta (ops, entrambi la stessa persona) nell’esigere queste somme per pagare i debiti e semmai rilanciare il servizio pubblico locale? Diciamo non proprio una situazione di “vera indipendenza” (anche perchè i due dirigenti regionali del cda sono anche dipendenti diretti dell’assessore presidente).
Nella veste di di Presidente della Giunta e di Assessore alla Sanità De Luca ha azzerato anche il cda di Soresa, la centrale acquisti per i prodotti sanitari della Regione, al posto di Francesco D’Ercole, Gennaro Santamaria e Pietro Alfano, vanno il candidato non eletto al consiglio regionale con la lista di Campania Libera, Gianni Porcelli, già sindaco di Mugnano; la non riconfermata consigliere regionale del Pd sannita, Giulia Abbate; e Luigi Giugliano, avvocato irpino. Nomine che – almeno sulla carta – sarebbero incompatibili con riferimento all’articolo 32 della legge regionale dell’11 agosto 2005 che, nello specifico, indica nei «candidati non eletti alle elezioni regionali, per gli otto mesi successivi all’elezione stessa» l’impossibilità di ricevere designazioni e incarichi) e all’articolo 4 della legge Campania Zero del 27 luglio 2012.
Come a dire: “intanto ti nomino poi si vedrà”. Un poi si vedrà pesante visto che la tanto discussa condanna per abuso d’ufficio da sindaco di Salerno verteva proprio per “una nomina che non poteva fare”.
Nella veste di Presidente della Giunta e di Assessore alla Cultura (forse) De Luca ha poi nominato Patrizia Boldoni consigliere con incarico di Promozione delle Attività Innovative per il rilancio del Turismo attraverso la valorizzazione dei beni culturali.
La “figura di alto profilo” grazie al suo “curriculum vitae e culturale e professionale” a cui è affidato “il compito di studio e consulenza per lo sviluppo del turismo campano… ha almeno tre meriti: essere l’ex moglie dell’ex presidente del Calcio Napoli Corrado Ferlaino, avere una estesa carriera in ambito immobiliare (con qualche ombra professionale e qualche processo, come quello sulle ipotesi di irregolarità nei bilanci della società tenutaria di Palazzo d’Avalos), ma soprattutto essere stata una “intensa” organizzatrice di feste elettorali a sostegno di De Luca tra la Napoli bene.
Ma il colpo forse più eclatante – almeno quanto passato in sordina rispetto al resto – è (nella veste di Presidente della Giunta e di Assessore ai Trasporti) la “cessione” di Caremar a conclusione dell’iter di privatizzazione della compagnia pubblica passata definitivamente nelle mani del gruppo Aponte (attraverso Snav), e del gruppo D’Abundo (ovvero MedMar attraverso la Rifin).
In pratica l’azienda che si occupa di trasporti via mare verso le isole è stata ceduta ai suoi due concorrenti, che la rilevano (e si tolgono quindi l’unico concorrente pubblico capace anche di “calmierare” mercato, tratte, tariffe e di garantire un servizio pubblico essenziale minimo garantito) per sei milioni di euro. Non solo. La Regione si è impegnata a versare ai suoi ex concorrenti privati 10 milioni di euro per nove anni; una cifra apparentemente contenuta se si considera che con la Caremar pubblica sborsava 20 milioni all’anno.
La situazione che avremo è qualcosa del tipo Snav monopolista di fatto del trasporto veloce e MedMar come vettore unico dei traghetti. Caremar significa traghetti e mezzi veloci, significa orari e rotte privilegiate proprio per il ruolo pubblico svolto dalla compagnia. Un patrimonio e una dote finanziaria che valgono benoltre la cifra sborsata o il presunto risparmio, specie se da quei 20 milioni spesi ogni anno togliamo gli incassi di quelle tratte.