Postare commenti dal contenuto diffamatorio sulla bacheca di un social network come Facebook configura la fattispecie (aggravata) prevista dall’art. 595 c.3 c.p.?
La Corte di Cassazione si è pronunciata in questa direzione sulla questione già nel gennaio 2014 e anche recentemente nell’aprile 2015: nello specifico la Suprema Corte con sentenza n. 16712 del 22/01/2014 sancisce che sussiste l’aggravante del mezzo di pubblicità qualora il fatto sia commesso sfruttando la pubblicizzazione su un profilo di Facebook, in quanto l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti, che può essere più o meno ampia a seconda che il contenuto sia pubblico o riservato ad una determinata cerchia di soggetti.
Lo stesso orientamento è stato ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 24431 del 28/04/2015 dove si evidenzia nuovamente come la funzione principale di un social network sia proprio quella di permettere a gruppi di soggetti di socializzare condividendo le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale che, per le caratteristiche del mezzo, è allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti.
Per questi motivi la condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, e se offensivo configura la fattispecie aggravata del delitto di diffamazione ex art. 595 c.3 c.p.
Il punto è chiaro, ed anche la ratio della sentenza.
E tuttavia vi sono alcune questioni che sarebbe – almeno per buon senso – chiarire.
Abbiamo scoperto i social network circa dieci anni fa. Nessuno sapeva cosa fossero, come funzionassero, ma molti ne hanno intuito essenzialmente l’aspetto ludico e quello legato alle potenzialità di marketing. Pochi lo hanno usato in maniera consapevole.
Anche peggio se consideriamo che si può aprire un profilo Facebook a quattordici anni – età in sé in cui si è difficilmente perseguibili per moltissimi reati – e tuttavia i social network sono un luogo privilegiatissimo per compierli e subirli (dalla violazione della privacy, allo stalking, all’adescamento, alle vendite illegali, e così via).
Se certamente il principio de “l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti” equipara Facebook a livello di pubblico ad un giornale, possiamo considerare lo stesso reato se compiuto da un giornalista professionista adulto – e quindi sciente e cosciente e consapevole sino in fondo – rispetto ad un ragazzino che scrive su un social (anche se lo leggono forse più lettori di un quotidiano)?
E basta affidarsi nella comminazione di pena e sentenza al “buon senso” del magistrato giudicante finale che dovrebbe poi tracciare questa differenza?
Sono quesiti aperti ma su cui – credo – sarebbe corretto e saggio riflettere a che la giurisprudenza non debba prevenire il legislatore. E una sana educazione digitale prima di tutto a casa e a scuola.
Tag: campagna social
Una brutta campagna
Come valutare una campagna se “bella” o “brutta”? Come misurarla e come valutarla?
È un interrogativo non solo per tecnici, ma anche per consumatori e per aziende.
In generale si tende a considerare una “buona campagna” quella efficace, in termini di numeri e di risultati. Una cattiva campagna è quella che non li raggiunge, o peggio danneggia il brand o la sua mission. Sin qui sarebbe facile e potrebbe apparire banale, ma non è così.
L’efficacia non è solo far parlare di sé a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. E nemmeno (forse) generare tantissimi accessi e like. Piuttosto dovrebbe essere qualcosa che porta a raggiungere il target desiderato, a generare azioni e interazioni permanenti, restare impresso nella memoria… e tutto questo possibilmente in una accezione positiva.
Se adottiamo questi parametri, beh, sono molte le campagna improvvisate, non pensate, non strutturate, e molto poche quelle davvero efficaci e “fatte bene”. E quasi mai è questione di budget, anzi.
Di esempi – positivi e negativi – da questo blog ne ho fatti molti.
La nuova frontiera della comunicazione spazzatura
VeryBello – tutto purché sia virale
Da Barilla a Enel come cambia la comunicazione virale
Oggi ne faccio due. Uno positivo ed uno negativo.
In senso positivo abbiamo già parlato di quella che considero una delle più belle campagne a difesa della libertà di informazione che sono state realizzate negli ultimi anni, ed i cui manifesti trovate qui allegati.
Un esempio invece di “brutta” campagna è quella proposta da “Nozze in Fiera” che la auto-definisce “campagna orientata al sociale”.
La banalità andrà di moda è qualcosa di superato per chi ha immaginato questa campagna letteralmente immaginata per cavalcare l’onda (è il caso di dirlo) dello sdegno e della cronaca (tragica) di questi mesi. Secondo loro vuole essere un modo per “attirare l’attenzione sul tema”, in realtà è una forma di opportunismo per stare sul trend e far parlare di sé secondo l’adagio che “tutto va bene purché se ne parli”.
E invece no, sarebbe decisamente il caso di darsi una bella regolata.
Perché non tutto è merce, e non tutto si può mettere assieme pur di prendere una campagna grigia e scontata e farla balzare agli onori (nella fattispecie disonori) della cronaca.
Se il messaggio voleva essere di speranza, qui l’unica speranza è che la si smetta (una volta e per tutte) di usare la tragedia umana come spot per vendere.
Infondo uno degli slogan è “in Italia per essere una sposa e non una prostituta”. E appunto vorremmo un po’ tutti che certi temi vengano forzatamente prostituiti al marketing.
(allego la gallery)