Il caffè e la moda: niente rappresenta la cultura italiana come queste due cose, che oggi si uniscono nelle nuove tazzine Illy disegnate da Emilio Pucci per la serie Illy Art Collection. L’azienda triestina leader nel settore del caffè ha lanciato le sue edizioni limitate Illy Art Collection nel 1992, collaborando di volta in volta con grandi firme dell’arte e del design: Marina Abramovich, Robert Rauschenberg, Jeff Koons, Julian Schnabel, Anish Kapoor e Daniel Buren solo per citarne alcuni. Quest’anno per la prima volta le tazzine da caffè Illy sono state disegnate dal team creativo di Emilio Pucci, che ha trasferito sulla ceramica le stampe pop e i colori brillanti rubati ai foulard di seta della serie Cities of the World.
“È la prima volta che collaboriamo con un marchio di moda – dichiara Carlo Bach, Direttore Artistico e Creativo di Illy – ma Emilio Pucci era in realtà un artista, dunque aveva assolutamente senso dare vita in questa collezione alla sua visione duratura e al suo stile inconfondibile“. Era il 1957 e il marchese Emilio Pucci abbozzava per la prima volta la stampa Battistero, dichiarazione d’amore alla sua Firenze in colori vivaci. Giallo limone e arancio tangerine, rosa “Emilio” e azzurro brillante. Le stesse tonalità scelte dallo stilista sono state poi recuperate dalla figlia Laudomia Pucci e dal team creativo del brand per una linea di foulard di seta chiamata Cities of the World: metropoli e località turistiche, rappresentate in nuance vivaci su seta e oggi anche su ceramica. “Mio padre era sempre lì ad abbozzare, disegnare, creare – racconta Laudomia Pucci – in un modo che lo rendeva più un artista che uno stilista, così è meraviglioso vedere la sua opera tra le collaborazioni artistiche di Illy“. L’ultima Illy Art Collection riproduce lo skyline di Parigi, Londra, Milano, Roma, New York e ovviamente Firenze su tazzine da caffè, da cappuccino e mug con tanto di piattini coordinati.
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L’attacco all’industria agroalimentare in Campania
L’ultimo attacco a Napoli riguarda la pizza. Prodotto di eccellenza che racchiude in sé, nella sua semplicità e “povertà”, moltissime eccellenze: la maestria dei costruttori di forni a legna, la manualità dei pizzaioli, le farine, i pomodori, olio e basilico, mozzarelle, fiordilatte e quant’altro la fantasia abbia deciso di “mettere su” nella lunga storia di questo prodotto. Famosissimo in tutto il mondo, e che solo qui si fa così. Il resto – mettetevi tutti l’anima in pace – è un similpizza che si chiama pizza solo per essere venduto. Per carità, buono lo stesso alle volte, ma non egualmente e non la stessa cosa. Ma si sa che nell’era della globalizzazione, anche alimentare, in un settore ricco come questo, ciò che non puoi massificare va abbattuto. Un caso per tutti non campano, il lardo di colonnata, reo di essere fatto nel marmo “che dato che è poroso può contenere batteri nocivi”. O troppo costoso per le multinazionali che devono spendere poco e produrre moltissimo e vendere tutto uguale ovunque? Chi è più forte si difende. E ti difendi se hai classi dirigenti consapevoli, autorevoli, che hanno un legame con tradizioni e territorio. Quando tutto diventa fragile, e comprabile, gli effetti sono evidenti. E Napoli e la Campania è da un po’ che non hanno una classe dirigente abbastanza autorevole e con un sano amor proprio da levare gli scudi contro interessi economici “di altrove”. Il caso della pizza non è il solo. E quella descritta è solo una rapida cronologia, giusto per mettere ordine, certi che purtroppo, non sarà l’ultimo attacco al nostro comparto agroalimentare.
C’è una guerra in corso, per il più grande mercato mondiale e in costante crescita: l’agroalimentare. Se da un lato c’è la “grande guerra non dichiarata” per l’accaparramento di terra nei sud del mondo per le colture intensive, dall’altro c’è il bisogno fisiologico delle industrie di “massificare e appiattire” la produzione, di livellare i prezzi di origine e delle materie prime. Se un prodotto, si chiami caffè, formaggi, pizza, pasta, mozzarella, può essere merce industriale, tutta la produzione che non vi rientra deve essere spacciata per “dannosa, nociva, priva di controlli”.
Tocca alla Campania, che ha la minore forza di competizione economica verso le industrie del nord e la più debole e autorevole classe politica e dirigente negli ultimi anni. Tocca in parte alla Calabria, ai vini e ai grani della Puglia, alle eccellenze della pasticceria (e non solo) siciliana.
Sinché si tratta di colture intensive per l’industria va bene, sinché i vini pugliesi servivano per “tagliare” i doc veneti, andava bene, sinché i cedri di Sicilia e Calabria servivano per le cedrate e gli oli delle industrie del nord andava bene.
Riappropriarci della difesa dei nostri territori e delle tipicità locali non è difesa campanilistica o razzismo all’incontrario, ma è avere amor proprio, e tutelare una enorme risorsa per il rilancio delle nostre regioni, oltre che all’unico grande bacino occupazionale che ci è rimasto. Non comprenderlo non è solo miopia, ma colpevolezza e complicità.
Il primo episodio clamoroso in ordine cronologico fu quello della “mozzarella alla diossina”. Nessuno ha detto che nella “mozzarella campana dop” (quella certificata dal consorzio) non ne è mai stata trovata traccia. Ma tant’è. L’obiettivo all’epoca era “deterritorializzare” il formaggio e proporlo non come espressione della cultura meridionale, ma come semplice prodotto nazionale e quindi “industrializzabile”. La mozzarella di bufala alla diossina è quella campana, si disse, senza alcuna prova. Spuntarono anche video di presunti ambientalisti che gridavano ai maltrattamenti sulle povere bufale. Ma in Campania. Senza citare che i più grossi produttori di latte bufalino in Italia sono localizzati in pianura padana. In questi anni l’industria casearia è riuscita a spuntare la certificazione “mozzarella Stg”, utilizzata subito come testa d’ariete contro i piccoli caseari del Mezzogiorno. Già, troppo piccoli, anche come consorzio, per essere lobby capace di contrastare quelle delle grandi aziende industriali del nord, che lavorano “pasta filante” fatta anche con venti latti differenti, conta solo il mix e il prezzo.
C’è stata poi la volta in cui Oscar Farinetti (piemontese, proprietario di Eataly) con i fondi del POR Campania ha avuto l’incarico di selezionare e promuovere le farine italiane negli Stati Uniti. Casualmente vengono bocciati alcuni molini, tra cui Caputo (si legge nella nota “confermiamo che la sua azienda ha tutti i requisiti… purtroppo il soggetto attuatore non l’ha selezionata…”), da tre generazioni un’eccellenza che rifornisce le maggiori pizzerie campane. Giudizio privato e insindacabile, anche se con fondi pubblici. Sarà un caso ma Eataly è proprietaria di un molino che da anni vuole penetrare il ricco mercato delle pizzerie. Succede. Un caso.
È l’ora della pasta. L’11 ottobre 2013 – improvvisamente – un gruppo di aziende della grande distribuzione, soprattutto al Nord, “preoccupate dall’allarme rifiuti” chiedono che sulla merce venga indicata l’esatta provenienza, con tanto di dettaglio catastale, allo scopo, evidentemente, di poter escludere che frutta e verdura provengano dalle aree più a rischio a nord di Napoli e nel Casertano, ma la cattiva immagine si estende all’intera regione e a tutte le sue produzioni. Il brand Campania viene colpito proprio mentre la Ue aggiunge una nuova Igp – per la pasta di Gragnano – alle numerose (335) già riconosciute. Ordini calati, a beneficio delle enormi aziende della pasta, una tra tutte che risulta anche essere quella del settore che maggiormente investe in sponsorizzazioni nei circuiti della grande distribuzione.
L’allarme sul “quadrilatero della morte” si estende su frutta e verdura in modo specifico sui pomodori. Casualmente l’attacco della grande distribuzione non colpisce “il fresco” ma l’industria conserviera. Pomì ad esempio fa spot a tempo di record rivendicando che “nelle sue confezioni non ci sono pomodori campani” con in grande evidenza un’Emilia rosso-pomodoro. Quando mai si siano coltivati pomodori da sugo in Emilia resta un dubbio. In crisi le industrie conserviere della regione, mentre le altre rimpinguano con i loro prodotti gli scaffali di tutta Italia. Resta il dubbio della provenienza dei loro pomodori. Ma nessuno fa domande.
Gli ultimi due “attacchi” vengono da una trasmissione televisiva rispettabile e generalmente seria. Report. Ideata e realizzata a Milena Gabanelli. Una delle trasmissioni migliori della Rai. E tuttavia partiamo proprio dal format. “Gli autori dei servizi sono freelance e si autoproducono i loro lavori sottoponendosi in seguito alla supervisione dell’autore senza intermediazione alcuna.” Non lo dico io, ma lo stesso Bernardo Iovene. Questa è una formula decisamente comoda, anche per non avere pressioni e mantenere indipendenza, e premiare il merito e “la notizia”. Per citare lo stesso Iovene “una razionalizzazione del lavoro che rende l’intero programma economicamente competitivo e allo stesso tempo libero di proporre servizi informativi di inchiesta”.
E tuttavia nascono alcune perplessità sulla scientificità di alcune inchieste. E il punto va chiarito con precisione. Un servizio, specie una inchiesta, costano, e parecchio, anche se per il pubblico non è immediatamente percettibile quanto lavoro ci sia dietro anche soli venti minuti di montato finale. Se la trasmissione fosse della Rai sarebbe tutto molto più semplice: sai chi paga e chi copre i costi. Non sempre è chiaro il finanziamento iniziale dei servizi dei freelance. Questo non lo dico sui servizi di Iovene, ma è bene che si chiarisca questo punto iniziale, almeno per completezza di informazione verso il pubblico.
La prima inchiesta riguarda il caffé. L’esperto chiamato a valutare le tazzine partenopee è Andrej Godina, sicuramente esperto, che le bolla come “rancide, legnose e terrose”. Poco conta che la sua valutazione è “sensoriale gustativa”, e in questo conta anche che lui sia settentrionale e – e questo è un bene – in ogni regione della nostra lunga penisola le sensibilità e i gusti cambiano e variano (vi immaginate a Palermo bere una grappa la mattina? O a Milano mangiare il peperoncino come in Calabria? Per fare due esempi macroscopici). Va detto per completezza che Godina è di Trieste, che ha studiato sui libri della Illy, anch’essa di Trieste. E che la Illy, vanto del made in Italy, sia competitor di varie marche di caffè di Napoli. Che proprio Godina aveva già pubblicamente attaccato quelle marche napoletane di cui Illy è competitor. E che Godina è stato docente – ben pagato – proprio della Illy, che per altro (con la Cimbali) “sponsorizza” tutti i “luoghi editoriali” dove scrive Godina e i corsi in cui è docente. Per completezza va anche evidenziata la coincidenza cronologica tra il servizio sul caffè e lo spurgo delle macchine, e la battaglia per le macchinette a cialda, che qualcuno ha proposto vengano – per ragioni di igiene – imposte nei luoghi pubblici come direttiva europea. Certo, la lobby con in testa Nespresso e Lavazza è molto più potente di quella dei piccoli torrefattori nostrani. Ed anche alla Illy manca qualche tazzina per rientrare tra i giganti del monopolio europeo. Sarà un caso, ma proprio in quei giorni era in discussione un accordo per la realizzazione “paritetica” tra Kimbo (napoletana) e la Illy (triestina) di una macchinetta a cialde… forse le rispettive quote non sono più tanto paritetiche…
La seconda inchiesta riguarda la pizza. L’esperto chiamato stavolta è Vincenzo Pagano. Che non è un nutrizionista, non è un medico né un biologo, né un gastronomo, ma ha solo un blog (amatoriale) di cucina, dopo una vita spesa in altro, e forse il vantaggio di avere una moglie che lavora a Ballarò. Ma ci sta. Chiunque può dire se una pizza gli piace o meno. E tuttavia. Perché chiamare un esperto veneto per parlare dei danni delle farine 00 (raffinate) e non un docente dell’Istituto Zooprofilattico di Portici in Campania che lavora sul campo? Soprattutto perché non dire che “l’esperto” fa lezioni in una nota azienda che punta come marketing e produzione sulle farine integrali? Soprattutto, nella puntata si attacca la dannosità della farina “raffinata” solo in relazione alla pizza? Sarebbe interessante chiedersi perché non attaccare detta farina “in generale”, e invece ci si guarda bene dal farlo, perché si toccherebbe tutto il comparto dei “prodotti da forno industriali” (merendine, pane, pancarré, panettoni, pasta…) che sono quelli di grandi marchi che sono anche – casualmente – grossi investitori pubblicitari. Se la farina 00 è dannosa, parliamone, ma non a senso unico.
Il secondo punto riguarderebbe la dannosità del “forno a legna”, ovvero uno strumento di cottura usato dall’uomo ininterrottamente da oltre 7mila anni (conosciuti) a vantaggio dei “forni elettrici”. Sul punto non si cita minimamente la regolamentazione locale, che in molte città del nord li vieta per ragioni diverse (camini, dispersione dei fumi, igiene pubblica nello stoccaggio del legname…), oltre all’inezia che un forno elettrico lo accendi e spegni con un tasto, mentre per gestire un forno a legna non puoi che essere esperto. E sorvoliamo sul fatto che i produttori di forni elettrici (che nel ricco mercato della pizza napoletana non mettono piede, e vorrebbero) sono tutti del nord.
Il terzo punto riguarda gli imballaggi della pizza da asporto, con Maria Rosaria Milani che afferma che il cartone della pizza deve essere “100% di fibra vergine ossia di materia di primo impiego”. Peccato venga smentita dall’art. 27 del DM 21/3/1973 e succ. modificazioni e integrazioni. Che dice ben altro.
Su tutto due domande. La prima. Perché avendo scoperto che la pizza previene i tumori, come ha dimostrato l’Istituto Mario Negri di Milano nel 2004 con uno screening di massa non l’hanno detto? Preferendo parlare della presunta cancerogenicità delle presunte farine bianche trasportate dalla pala in un forno a legna in cui presunti ammassi di fumi neri la renderebbero tossica (come i presunti sedimenti di olio nell’oliera mai dimostrati)? La seconda, perché non dire con chiarezza, a beneficio del telespettatore, che gli esperti – sul caffè come per la pizza – benché esperti, erano in palese e noto conflitto di interessi nelle valutazioni che facevano?
Credits: Gianni Pittella, Alessio Postiglione, Arcoiris, Luciano Pignataro. Nel giornalismo anglosassone è uso indicare – per chiarezza con i lettori ed onestà intellettuale – le fonti, anche minime e occasionali, grazie alle quali è stato “reso possibile” un articolo. È una cosa buona.