Con Brexit la Gran Bretagna è il paradiso dello shopping

C’è una nuova meta dello shopping. Inaspettata. Ai piedi del Big Ben.

Londra è il paradiso degli acquisti e questo grazie a Brexit.

Più perde valore la Sterlina e più una borsa di lusso o un cappotto in puro cachemire costa meno. La proporzione non permette margini di errori: la moneta inglese perdendo il suo potere d’acquisto permette a chiunque di guadagnarci in risparmio.

L’uscita dall’UE è stata una manna dal cielo per la Gran Bretagna che oggi può sfruttare questo momento a suo vantaggio.

Ad indagare su quanto stia accadendo nelle ultime settimane in Gran Bretagna è Deloitte che ha elaborato un’analisi della situazione economica attuale del Paese.

La moneta britannica, avendo perduto il suo valore del -17% rispetto al dollaro dallo scorso giugno, attirerebbe turisti stranieri pronti per il grande affare.

La Gran Bretagna è il nuovo paradiso dello shopping?

A quanto pare si.

L’azienda ha indagato sul valore di una Speedy 30: l’iconico bauletto di maison Louis Vuitton.

Parlando in moneta americana: per acquistare la stessa borsa, in Gran Bretagna si spenderemmo 820 dollari, in America 970 e in Cina 1115.

I fatti parlano chiaro: a luglio gli acquisti effettuati da stranieri pare abbiano toccato i 3,8 milioni di sterline, con una crescita del +2% rispetto il 2015.

 

 

Fonte copertina bimag.it

 

 

Brexit e la moda: Asos va in tilt

Non solo conseguenze sulla politica europea ed internazionale: tra gli effetti a breve termine causati da Brexit si è riscontrato un blocco del sito ASOS. Il colosso inglese, leader dello shopping online, è andato in tilt immediatamente dopo l’annuncio del clamoroso risultato del referendum che ha avuto luogo in Gran Bretagna.

Si è subito scatenato il panico nel fashion biz: milioni sono infatti gli utenti che quotidianamente comprano sul sito. Il break è divenuto un caso internazionale che ha fatto discutere i fashion addicted di tutto il mondo, che, sotto l’hashtag #asosdown, si sono riuniti sui principali social network in cerca di risposte: numerosissimi i commenti, tra chi dichiarava che la propria vita fosse finita a chi auspicava la fine del mondo. Tra le probabili cause del momentaneo problema tecnico un’eccessiva mole di acquisti a seguito della caduta in borsa della sterlina.

Asos si è imposto negli ultimi anni come uno dei principali punti di riferimento per lo shopping online: il sito offre infatti un’ampia scelta di capi a cifre modiche in perfetta linea con i fashion trend del momento, insieme ad una sezione dedicata al vintage che permette di fare acquisti in numerose boutique specializzate, sparse per il mondo. Il tutto, unito ai tempi celeri di consegna e alla spedizione gratuita, ha permesso al colosso di superare il miliardo di ricavi nel 2015. La moda inglese trema dopo l’uscita della Gran Bretagna dell’Unione Europea.

Questo il messaggio di errore che veniva visualizzato dagli utenti dopo la notizia della Brexit (Foto: Giornalettismo)
Questo il messaggio di errore che veniva visualizzato dagli utenti dopo la notizia della Brexit (Foto tratta da: Giornalettismo)


(Foto cover tratta da Asos Magazine)


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Lo scacchiere inglese

Mai nella storia la Gran Bretagna è stata così ridicolizzata. Sarà che lo humor inglese gli europei non lo hanno sempre apprezzato molto. Sarà l’effetto web, la viralizzazione dei social network, il fatto che per una volta a stare in una condizione tra incudine e martello sia uno “stato forte” e non un piccolo o povero paese europeo del sud. Saranno tutti questi fattori, ed anche una certa supponenza che gli inglesi hanno quasi sempre avuto, almeno nella percezione collettiva.
Questa condizione di bersaglio della satira dice tuttavia qualcosa in più della condizione con cui gli inglesi si apprestano alla difficile trattativa sulla Brexit. E le “non risposte” che arrivano da Londra sono anch’esse indicative.


Sul fronte interno Londra sta cercando qualsiasi appiglio giuridico per “cancellare” l’esito referendario: il veto degli stati (Scozia e Nord Irlanda), la petizione per ripetere il referendum, per esempio, e non ultima la crisi di governo e l’attesa del nuovo premier.
Per ottenere questo risultato il governo inglese deve “prendere tempo”. 
Cameron non risponde. Nemmeno alle pesanti parole di Juncker e dei ministri europei. Prima volta che Londra non è centrale negli incontri del vecchio continente. Non c’è un solo leader pronto a concedere tempo ai britannici (ad eccezione di una linea morbida della Merkel, che ha in ballo con Londra la fusione della borsa di Francoforte con la City e forti interessi delle sue banche sulla piazza londinese).
È bene riflettere sul fatto che l’uscita dall’Unione è stata dettata sostanzialmente da tre questioni su cui i promotori del referendum hanno fatto leva. 
Intanto l’eccesso di regolamentazione: l’effetto sarà alla fine che non solo ogni prodotto esportato in Europa dovrà comunque rispettare quelle regolamentazioni, ma sarà anche soggetto a dazi e a tutte le procedure di sdoganamento che rallentano la circolazione delle merci.


La perdita di molti posti di lavoro nella “vecchia industria” britannica: l’effetto sarà tuttavia che molte aziende delocalizzeranno in continente parte dei propri settori produttivi e forse di intere aziende, e la situazione si aggraverà notevolmente. Le piccole e medie aziende che non potranno delocalizzare saranno in forte difficoltà, se non costrette a chiudere.
Infine l’immigrazione. Se il fenomeno era comunque limitato in relazione alle quote europee, la condizione complessivamente non cambierà – soprattutto per la lunga storia di colonie e dominions britannici – ma peggiorerà in termini di qualità. Sino a ieri gran parte dell’eccellenza e del PIL inglese era dovuto alla grande capacità di attrarre un’immigrazione d’eccellenza: il 30% dei ricercatori che lavorano in Inghilterra sono “di importazione”. Venendo meno tanti accordi di reciprocità, l’appeal inglese inevitabilmente scenderà. Quindi probabilmente più immigrazione da impiegare come manodopera a basso costo (a discapito dei lavoratori inglesi) e meno ricercatori e laureati.
Sul piano diplomatico è la prima volta che gli inglesi si trovano in condizione di inferiorità rispetto ai partners al tavolo delle trattative. Non hanno nulla da poter chiedere, non hanno leve per rafforzare le proprie richieste, hanno di fronte negoziatori poco inclini alle concessioni.
E la Gran Bretagna non ha una tradizione diplomatica utile in scenari simili, abituata da sempre a trovarsi in posizione di vantaggio (forse gli unici precedenti sono l’indipendenza americana e indiana, e in entrambi i casi gli inglesi non hanno brillato).


Esiste tra l’altro una “via breve” per lo scioglimento del rapporto con l’Unione Europea: la decadenza di ogni accordo e il ripristino dello status quo al 1991, previa accettazione bilaterale di ciascun singolo paese. Uno stato di cose di cui nessuno ha più memoria, e che non tiene conto di un mondo che nel frattempo è cambiato completamente, ed in cui esistono cose prima nemmeno esistevano. E questo “salto nel passato” è quello che la Gran Bretagna non può permettersi nemmeno di immaginare.
Londra non è in una posizione che le consente nemmeno di chiedere il mantenimento “di qualcosa”: eliminazione dei dazi, accordi commerciali di vantaggio con l’Unione, sburocratizzazione dei processi amministrativi, libertà di sorvolo per le sue compagnie aeree: in nessun settore vi sarebbe un interesse europeo ad andarle incontro.


La linea della “non replica” anche alle provocazioni forti, e l’attendismo britannico, si spiegano perfettamente tenendo conto di tutti questi fattori.
Se Cameron passerà alla storia come il premier del referendum, non vuole essere anche quello di negoziati così punitivi e dagli effetti così drammatici per la Gran Bretagna.
Una situazione che rischia – concretamente – anche di frammentare materialmente il paese.
Politicamente anche lo scenario che – domani – farà rivalutare la sua posizione politica per il “restare” in Europa, e l’unica chance per mettere nell’angolo quegli avversari interni che pur di prendere il suo posto hanno appoggiato il “leave”, primo tra tutti Boris Johnson, che in queste ore sta comprendendo il boomerang che gli sta per arrivare al punto da dichiarare cose impossibili “Avremo ancora libero accesso al mercato unico” perchè secondo lui ci sarà ancora un’intensa e crescente cooperazione con l’Europa.
È vero del resto che molti di coloro che hanno votato per lasciare l’Europa erano convinti che alla fine avrebbe prevalso il “restare”, e hanno votato per lanciare un segnale forte, non certo per ottenere quell’esito. Un po’ come fu per l’indipendenza scozzese un anno fa.
Di fatto oggi, tuttavia, l’Europa è più povera, non solo perché perde un paese dall’economia forte, ma perché si ritrova a ponderare qualcosa che tutti non avremmo sino a ieri messo nel conto: che un paese uscisse dall’unione. Ma è anche più forte: mai come oggi può dimostrare quell’unità politica e di interessi propri che sino a ieri avevamo considerato poco e male, e spesso fumosi.
Oggi l’Europa è chiamata – forse per la prima volta – a difendere se stessa politicamente. E questo potrebbe davvero renderci tutti più europei e più solidali, consapevoli del valore di questa casa comune che generazioni più lungimiranti della nostra (e dei nostri politici) ci hanno consegnato.

Democrazia e ragion di Stato

Non è la prima volta che questi due pilastri della real-politik si scontrano.
La prima, soggetta spesso agli umori del momento, agli effetti della propaganda, della retorica, del populismo. Talvolta a maggioranze non sempre consapevoli della scelta che vanno a compiere, e su temi su cui non sono adeguatamente preparate. La seconda non sempre chiara ed efficace, spesso lontana dai desideri e dalle ambizioni dei popoli, tesa a raggiungere “il bene” della nazione in una logica ed una prospettiva che va oltre il momento, il ciclo elettorale, li umori.
Senza escludere le volte in cui la seconda – la cd. realpolitik – ha usato la prima – la democrazia – per raggiungere i suoi obiettivi.


Ed allora succede che sia necessario scavare nei meandri delle pieghe del diritto a che la real-politik trovi qualcosa, per il bene della nazione in una prospettiva più ampia e lungimirante – che limiti gli effetti devastanti che una democrazia, usata male, manipolata, e gestita peggio, può generare.
È il caso della GranBretagna, che certo nessuno – piaccia o meno – può tacciare di “mancanza di democrazia”.
E lo è – a ben vedere – nelle pieghe del day-after tra i tanti commenti giunti dalle “periferie del regno”. Da quella Scozia che ha votato sul filo di lana per separarsi dall’unione inglese ma che compatta ha votato per restare nell’Europa. O da quella Gibilterra che al 93% si è espressa per restare in UE. O da quell’Irlanda del Nord che non ne vuol sapere di lasciare l’UE.
Tutti ad affermare di “stare in Gran Bretagna perché sino a ieri era Europa, ma se cambiano le condizioni…”.


E allora spunta, dal cilindro della real-politik, che non considera “una cosa buona per il paese nel lungo periodo” un crollo verticale di sterlina, conti e commercio, che non considera salutare isolarsi dal mondo, nell’era del mondo globalizzato, una piccola grande legge. Che oggi assurge a monumento democratico.


Una petizione per chiedere un secondo referendum.
La petizione, sul sito parliament.uk, chiede modifiche al processo referendario e potrebbe trasformarsi in un secondo referendum sull’adesione del Regno Unito all’Unione europea.
È stata già superata la soglia delle 100 mila firme necessarie per avviare un dibattito in Parlamento, come è avvenuto in precedenza per la cannabis.
La petizione infatti ha raccolto il consenso di oltre 150mila firmatari in meno di dieci ore e il numero continua a crescere rapidamente.
In Gran Bretagna un secondo referendum può essere richiesto dai cittadini se il risultato del quesito vincente alla prima votazione è inferiore al 60% oppure se l’affluenza non ha superato il 75%. Requisiti soddisfatti in questo caso. Hanno partecipato infatti il 72% degli elettori e il “leave” ha vinto per un soffio: il 51,9% dei voti mentre il “remain” ha ottenuto il 48,1%.


Ogni volta che in questa campagna sono stati dati scenari preoccupanti, il fronte del “leave” ha risposto che era solo terrorismo mediatico e fandonie, e c’era da star certi che invece non ci sarebbero state ripercussioni negative.
In un solo giorno la GranBretagna è stata impoverita del 20% e mai come oggi, nell’ultimo secolo gli inglesi si sono sentiti “odiati” da tutti e lontani dal mondo.
Ecco, l’Europa non ha “scenari da immaginare”, ma grazie alla Brexit ha certezze su cosa può accadere in caso di uscita dall’Unione.
Siamo tutti avvisati sul cosa succede a dar credito ai populismi, e per una volta c’èra sperare che la ragion di Stato trionfi sul lato debole della forza della democrazia.

Emergono nuovi particolari sull’omicidio di Jo Cox, la deputata inglese anti Brexit

Ad uccidere la deputata laburista inglese Jo Cox sarebbe stato un sostenitore di associazioni neonaziste. Thomas Mair l’avrebbe raggiunta a Bristall, alle porte di Leeds, ieri nel primo pomeriggio davanti a una biblioteca in cui la donna avrebbe dovuto incontrare gli elettori. Qui il 52enne avrebbe inferto diverse coltellate sul corpo della deputata, per poi finirla con tre colpi di pistola. Secondo i testimoni, l’agguato è stato preceduto dal grido “Britain First” (cioè “prima la Grand Bretagna”). Joe Cox era una 42enne madre di due figli piccoli, attivista di organizzazioni umanitarie come Oxfam e Save the Children e deputata emergente del partito laburista. Per la sua posizione anti Brexit e l’impegno per i diritti dei migranti, riceveva minacce da circa tre mesi. Nonostante le denunce e l’arresto di un uomo, la polizia inglese stava ancora valutando eventuali misure a protezione della donna. Immediatamente dopo l’arresto, la polizia ha rivisto le misure di sicurezza per i deputati che in questi giorni incontrano gli elettori in vista del referendum del 23 giugno sulla Brexit.

Emergono intanto dettagli inquietanti sul killer Thomas Mair. L’urlo “Britain First” ha fatto subito pensare all’omonimo movimento parafascista, islamofobo e anti-immigrazione, che ha però preso le distanze dall’accaduto. Mair è tra i sostenitori di National Alliance, un movimento statunitense razzista e antisemita che risulta aver cessato le attività nel 2013. Il Southern Poverty Law Centre, un’associazione per i diritti civili, ha ricostruito i legami dell’uomo con diverse associazioni neonaziste. Oltre alla National Alliance, l‘assassino di Jo Cox era iscritto da dieci anni al gruppo razzista inglese dello Springbok Club che difende la storia dell’apartheid in Sudafrica. L’ultimo numero della rivista del club è interamente dedicato alla Brexit, in favore dell’uscita dallEuropa, e sembra che l’omicidio di Jo Cox sia legato proprio alla sua propaganda in senso contrario. L’assassinio potrebbe aver effettivamente scoraggiato il fronte anti Brexit favorendo la vittoria del polo opposto. Intanto tutti i lavori per il referendum sono stati interrotti da entrambi i fronti, e molti colleghi e avversari politici hanno assistito a veglie spontanee per la donna.

Da tutto il mondo arrivano in Gran Bretagna messaggi di cordoglio e di sdegno per l’efferato omicidio. Il Presidente della Repubblica Mattarella ha scritto in un messaggio per Elisabetta II: “Quest’ennesima azione, di inaudita ferocia, ci rafforzerà nella comune lotta contro ogni forma di odio e di violenza affinché il dibattito politico possa rimanere sempre libero e aperto“. Anche il presidente del Senato Piero Grasso ha espresso la sua indignazione, mentre la presidentessa della Camera Laura Boldrini ammonisce tutti sulla necessità di abbassare i toni e non favorire l’esasperazione del dibattito politico.