E’ l’artista senza volto. L’anonimo della Street Art.
Di Bansky le uniche informazioni frammentarie sul suo conto, riguardano il luogo e la data di nascita, Bristol (Inghilterra), 1974.
Le sue opere sono dissacratorie, pure; raccontano di guerra e di libertà e nascondo un messaggio positivo, colmo di speranze.
La strada, è il suo habitat naturale ed è proprio sui muri delle grandi metropoli (i suoi murales sono apparsi anche in città della Cisgiordania) che molte delle sue opere sono state compiute.
A Bansky, Roma dedica un’esposizione dal titolo “War, Capitalism & Liberty“: una raccolta di 150 opere proveniente da privati, in mostra dal 24 maggio al 4 settembre 2016, presso Palazzo Cipolla nella città capitolina.
La mostra, rivela esponenzialmente, le doti artistiche dell’autore, risaltando il messaggio di stampo politico-sociale che l’artista intende diffondere.
Tra le sue opere più celebri, la seriografia di alcune scimmie che dichiarano: “Laugh Now But One Day I’llBe in Charge” (Ridete adesso ma un giorno saremo noi a comandare).
La mostra è curata da Stefano Antonelli, Francesca Mezzano e Acoris Andipa.
Per la prima volta nel suo studio/galleria SENAPE, per la prima volta a Cesena, Marco Onofri presenta la mostra “FOLLOWERS” con le stampe 60×90, la serie di scatti già esposta in anteprima al Mia Photo Fair di Milano.
Un progetto “aperto” ed in continuo sviluppo che ci racconta cosa succede quando tra modelle e seguaci viene eliminato il computer di mezzo, lo scudo per i critici, lo spioncino per i più timidi, il mezzo dei fanatici e la finestra sul mondo per i più giovani…
Il risultato è uno strabiliante quadro dove i veri protagonisti sono proprio i FOLLOWERS che, intorno ai corpi nudi delle modelle, mostrano le loro espressività senza veli: c’è chi ride beffardo, chi si copre gli occhi, chi si masturba, chi giudica, bambini incuriositi, madri che allattano e addirittura un cane al guinzaglio che alza il muso verso la donna nuda. Sono scene di vita quotidiana che noi stessi viviamo nella penombra e che il fotografo rivela attraverso uno stile personale, fatto di luci soffuse di camere d’albergo.
Marco Onofri è un fotografo che ha esposto precedentemente i suoi lavori al Fotofever Art Fair di Parigi, alle Officine delle Zattere a Venezia, alla Romberg Arte Contemporanea di Milano e in altre prestigiose gallerie; il suo approccio alla fotografia è artistico ed ispirato alle opere di Sarah Moon e Paolo Roversi.
Qui alcune foto della serie “Followers”:
Diversi gli aneddoti in merito al backstage: boati maschili, donne svenute per l’emozione, panettieri in tenuta da lavoro che hanno raggiunto il set dopo il turno, lo zabettìo delle ragazze, le domande imbarazzanti dei bambini, questo durante i preparativi, fino a quando l’entrata in azione del fotografo obbligava al silenzio, un silenzio meditativo.
Lo stesso Marco Onofri appare in un cameo, interpretando un se stesso “follower” di fronte ad una ragazza nuda che fuma, in una posa naturale, totalmente a suo agio nei panni che non indossa.
Quando gli chiedo in quale tipo di “follower” si riconosce, risponde:
“Amo la naturalezza, non le pose imposte – sono affascinato dalle donne sicure di sé perché sento, in fondo, che “non c’è presa di coscienza senza dolore” – citando Carl Gustav Jung-.
Qui alcune foto del backstage scattate da Marta Tomassetti:
Le foto dell’evento presso lo studio/galleria Senape, Cesena:
“La moda aiuta il Duomo” è l’iniziativa che vede la partnership di Tiffany & Co., Veneranda Fabbrica delDuomo, la casa d’arte Christie’s e Camera Nazionale della Moda Italiana, al fine di conservare lo splendore del Duomo di Milano.
L’appuntamento è per martedì 19 aprile 2016, alle ore 19.30, presso la Sala delle Colonne del GrandeMuseo del Duomo, a Palazzo Reale di Milano.
Abito Vivienne Westwood per La moda aiuta il Duomo (fonte luukmagazine)
Abito Genny (fonte iodonna.it)
Tra le Maison che aderiscono al progetto: Giorgio Armani, Brunello Cucinelli, Cividini, Corneliani, Costume National, Diesel, Etro, Salvatore Ferragamo, Genny, Gucci, Isaia, Krizia, Loriblu, Martino Midali, Missoni, Moncler, Moreschi, Prada, Emilio Pucci, Roberto Cavalli, Tod’s, Trussardi, Vicini, Vivienne Westwood.
Tiffany & Co. donerà un gioiello in sua rappresentaza.
Il Cavalier Mario Boselli, Presidente Onorario di Camera della Moda Italiana, così ha commentato l’iniziativa: ”I nostri stilisti hanno risposto numerosi all’iniziativa e ora spero che la collaborazione possa proseguire anche fuori dai confini nazionali e raggiungere nuovi sostenitori. A tal fine ho proposto a Diane von Furstenberg di promuovere un’iniziativa simile a New York”.
La moda aiuta l’arte. Un’asta benefica aiuterà a restaurare le guglie del Duomo di Milano (fonte crisalidepress)
Abito Etro in asta il 19 aprile presso la Sala delle Colonne del Grande Museo del Duomo, a Palazzo Reale di Milano (fonteiodonna.it)
I fondi raccolti verranno devoluti a favore del progetto “Adotta una guglia. Scolpisci il tuo nome nella Storia”, lanciato da Veneranda Fabbrica del Duomo nell’ottobre del 2012 per sostenere i restauri del complesso monumentale del Duomo di Milano.
Per chi non potrà essere presente il 19 aprile, gli abiti devoluti dalle maison potranno essere acquistati sulla piattaforma di aste online CharityStars.
Nel mondo del design il suo è uno dei nomi più famosi. Nonostante la giovane età Ambra Medda vanta già una carriera di tutto rispetto. Professionista affermata nel design, curatrice, esperta di stile, icona, la giovane ha respirato arte e design fin da piccolissima. La sua è una vita vissuta all’insegna del cosmopolitismo, perennemente in bilico tra culture diverse.
Nata a Rodi da madre italiana e padre austriaco, cresciuta tra Londra e Milano, Ambra impara il mestiere da sua madre, Giuliana Medda, gallerista che esponeva opere realizzate col prestigioso vetro di Murano e creazioni di architetti italiani degli anni Quaranta e Cinquanta e che contribuì al successo internazionale di Pietro Fornasetti. Non è esagerato dire che il design sia componente fondamentale del DNA di Ambra Medda. Laureata in lingue orientali e specializzata in archeologia cinese ed estetica giapponese medioevale, per lei arte e design sono due facce della stessa medaglia.
La giovane, dopo essersi trasferita a New York per lavoro, ottiene la fama mondiale nel 2004, quando, a soli 23 anni, fonda insieme a Craig Robins la Design Miami, con sedi a Miami e Basilea, cui seguì, nel 2005, l’istituzione del premio Design Miami/Designer of the year. La Design Miami si impose in breve come punto di riferimento a livello mondiale per il design. Dopo aver diretto la fiera per sei anni, la designer torna nella Grande Mela, dove apre il suo studio, AMO-Ambra Medda Design.
Ambra Medda è nata a Rodi da padre austriaco e madre italiana (Foto tratta da Cultured Magazine)
Ambra Medda è laureata in lingue orientali e specializzata in archeologia cinese (Foto tratta da Dwell.com)
Nel 2004, a soli 23 anni, Ambra Medda fonda la Design Miami (Foto tratta da L’Officiel)
Dopo aver diretto per sei anni la Design Miami, fonda L’Arcobaleno (Foto tratta da Living Corriere.it)
Dopo tre anni fonda il sito L’Arcobaleno (www.larcobaleno.com), una community sul design, punto di riferimento per professionisti e appassionati del settore, per un nuovo collezionismo. Il sito è concepito come un magazine online, vetrina per talenti emergenti provenienti da ogni parte del mondo; inoltre sono presenti interviste a nomi affermati del design. Ma la vera novità è la sezione di shop online in cui è possibile acquistare opere d’arte e oggetti di design per collezionisti.
Un amore per le ceste, i cappelli e le sedie, Ambra Medda è grande amante del vintage e cittadina del mondo nel senso più autentico del termine. Attualmente residente a New York, la giovane ha collaborato anche con nomi eccellenti della moda, come Roger Vivier, che la scelse nel 2014 come testimonial per l’iconica bag Miss Viv’. Inoltre l’anno precedente Ambra Medda aveva anche firmato una capsule collection per Sportmax.
Ambra Medda per Sportmax
Ambra Medda per Roger Vivier
La designer in uno scatto per W Magazine
Bella, fotogenica e di un’eleganza innata, la giovane designer è stata immortalata sui magazine patinati più famosi, da Vogue a L’Officiel a W Magazine. Seguitissima sui social network, il suo nome brilla nell’Olimpo del design.
Sarà inaugurata il 17 marzo alla Bildhalle di Zurigo la personale di René Groebli intitolata “René Groebli- Early Work“. L’interessante vernissage che si terrà presso la Galleria Bildhalle della città svizzera verrà dedicato alla prima fase creativa dell’artista, che comprende i lavori datati dal 1945 al 1955.
Il piglio è vintage e non privo di suggestioni nostalgiche, tanto nelle serie dai titoli altamente evocativi “Auge der Liebe” (“Gli occhi dell’amore”) e “Magie der Schiene” (“La magia dei binari”) che nelle immagini che rappresentano Zurigo, Londra e Parigi a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Il fotografo svizzero, classe 1927, si rivela maestro nell’immortalare la donna, con la tua toeletta e il suo riposo, prima di incontrare l’amato. Dolce e morbida la curva della schiena, sensuale e perfetta la linea del collo, mentre, ad occhi chiusi, la sognante creatura immagina il momento in cui finalmente si ritroverà tra le braccia del suo uomo. Inoltre nella mostra, che resterà aperta fino al 28 maggio, saranno esposte opere inedite dell’artista.
Visionario, romantico, l’opera di Groebli spicca nella storia fotografica della Svizzera della seconda metà del Ventesimo secolo, costituendo un unicum in cui suggestioni romantiche e poetiche si sposano mirabilmente all’ottica visionaria, che gli fa adottare tecniche fotografiche innovative che strizzano l’occhio al futuro. Interverrà alla mostra il giornalista Daniele Muscionico, che avrà il compito di esporre vita e opere dell’artista.
Nato a Zurigo il 9 ottobre 1927, René Groebli fu introdotto alla fotografia da Hans Finsler. Una carriera iniziata come fotografo di reportage per la rivista svizzera “Die Woche”, poi un nuovo incarico per l’agenzia londinese Black Star, che lo portò fino in Africa. Tra i suoi primi libri fotografici Magie der Schiene del 1949, un saggio poetico e la serie fotografica Das Auge der Liebe, che fu pubblicata per la prima volta nel 1954 e che ha visto una nuova edizione nel 2014.
Le opere di Groebli sono state inoltre al centro della mostra The Family Of Man di Edward Steichen organizzata dal Museum of Modern Art di New York: qui sono state esposte anche opere dei fotografi svizzeri Werner Bischof, Robert Frank e Gotthard Schuh. Sperimentatore ed innovatore nell’arte fotografica, Groebli nel 1957 è stato nominato maestro del colore dalla rivista americana Color Annual. Nonostante l’aura vintage che caratterizza molti dei suoi scatti, il maestro si è aperto anche al digitale negli ultimi anni, intuendone le immense potenzialità.
René Groebli | Auge der Liebe, Liegender Akt (Nr. 532), 1952 | Baryt-Abzug | 50 x 60 cm | Edition 2 von 7 & 2APImmagine a sinistra: René Groebli | London (Nr. 1208), 1949 | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 7 von 7 & 2AP Immagine a destra: René Groebli | Beryl Chen, London, 1953 (Nr. 1286) | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 2 von 7 & 2APRené Groebli | Kinder (Nr. 1226), London, 1949 | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 7 & 2APImmagine a sinistra: René Groebli | Landdienst, Bub auf Pferdewagen, Kempthal, 1946 | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 1 von 7 & 2AP Immagine a destra: René Groebli | Landdienst, Scheune, Kempthal, 1946 | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 1 von 7 & 2AP
Immagine a sinistra: René Groebli | Corso, Zürich, 1948 | Baryt-Abzug | 40 x 50 cm | Edition 1 von 7 & 2AP Immagine a destra: René Groebli | Zirkus Knie, Zürich, 1948 (Nr. 1286) | Baryt-Abzug | 50 x 60 cm | Edition 1 von 7 & 2AP
Verrà invece inaugurata il prossimo 2 giugno e sarà esposta fino al 16 luglio la mostra Hans Peter Riegel -Night Pieces si inaugura 2 giugno fino al 16 luglio. Un ritorno alla Bidhalle dopo il successo del 2014 con la personale “Some Pieces”. I soggetti rappresentati in Night Pieces sono perlopiù piante. Immortalate nel loro sbocciare e rifiorire, sintesi delle metamorfosi clorofilliane e suggestiva full immersion nel gioco di colori plastici e psichedelici. Altro soggetto prediletto dall’artista è la città, che viene immortalata all’alba, al risveglio, rappresentando lo scenario tipico di una passeggiata mattutina. Tra arditi giochi di contrasti e colori, si abbraccia il digitale, nella creazione di una nuova estetica visiva.
Hans Peter Riegel | Night Pieces, Nr. 471 & 472.1, 2015 | Archival Pigment Print auf Hahnemühle Photo Rag | 60 x 80 cm | Edition 5 & 1APHans Peter Riegel | Night Pieces, Nr. 480.1 & 441, 2015 | Archival Pigment Print auf Hahnemühle Photo Rag | 60 x 80 cm | Edition 5 & 1AP
Hans Peter Riegel | Night Pieces, 2014 | Links: Nr.413, Edition 3 von 7 & 1 AP | Rechts: Nr. 848.1, Edition 3 von 5 & 1 AP | Archival Pigment Print auf Hahnemühle Photo Rag | 60 x 80 cm
Hans Peter Riegel ist nicht allein Fotograf sondern auch Konzept- und Medien-Künstler. Einer breiteren Öffentlichkeit ist er zudem als Autor bekannt. Seine 2013 erschienene Biografie des Künstlers Joseph Beuys erlangte grosse Aufmerksamkeit und ist mittlerweile eines der am häufigsten besprochenen Bücher seiner Art in der jüngeren, deutschsprachigen Literaturgeschichte. Riegel schreibt regelmässig für führende Tages- und Sonntagszeitungen. Er lebt und arbeitet in Zürich.
C’era una volta la Sardegna, è così che il Far West contaminato dalla ruralità italiana arriva nel backstage di Antonio Marras.
L’excursus di D-Art attraverso i migliori backstage di Milano Moda Uomo approda nel pieno del deserto della Sardegna, a pochi km da Oristano, dove Antonio Marras decide di ambientare figurativamente la sua prossima collezione Autunno-Inverno.
Balle di fieno sparse, polvere diffusa dal vento e borghi disabitati, come quello di San Salvatore di Sinis, diventano la palette cromatica per vestire i colori della terra sarda: dal verde militare al fango, dal petrolio al grigio piombo, dal rosso al senape.
Tessuti ruvidi e infeltriti, giacconi coperta e pantaloni tartan accompagnano il lato rock di ogni bandito, della Vecchia Sardegna, che si rispetti. Colui che indossa beffardo giubbini in pelle e pitone, salopette e grambiuloni in denim ,come indumenti da lavoro, e jacquard floreale per le celebrazione domenicali.
La camicia diventa capo di punta: rattoppata, intarsiata, ricamata e decorata è pronta a accompagnare le furiose scorribande e le notti trascorse ballando al suono della fisarmonica con le donne più belle del saloon Abraxas.
Il sarcasmo tinto di rosa e le irriverenti immagini, note per il loro stile provocatorio, sono oramai must have tra gli appassionati di arte che di sicuro non disdegneranno le ultime novità.
Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, l’eclettico duo artistico contemporaneo che si cela dietro al fenomeno visivo, nonché cult-magazine, ToiletPaper, in connubio con Seletti, sbarcano al Pitti in qualità di prima realtà non appartenente al settore moda invitata alla manifestazione.
Forti di tale primato, la fiera è stata scelta per presentare, in anteprima assoluta , la Tote bag, unica connessione del brand con il mondo della moda, le candele e i tappeti, lanciati lo scorso dicembre presso la Miami Art Week.
Le quattro diverse grafiche delle Tote Bag, Teeth, Pony, Lipstick e Deers, personalizzano la semplicità delle linee. Dotate di una comoda tasca interna sono adatte all’utilizzo giornaliero nel segno dell’eccentricità.
Le candele sono contenute in speciali tazze sulle quali sono riprodotte otto illustrazioni firmate Toiletpaper: Cat, Teeth, Lipstick, Pony, Two of Spades, Toad, Roses e Deers. La profumazione non poteva che essere particolare, infatti essa si differenzia in base all’ immagine rappresentata.
Mentre i tappeti, esposti in anteprima europea a Firenze, sono vere e proprie opere d’arte. Eyes, Toad, Parrot, BMW, Fingers, Insects, Sausages, Teeth, Phones, Roses, Two of Spades, Legs sono le varianti stampate sul tessuto trattato termicamente per garantire la massima resistenza e intensità dei colori.
Per festeggiare l’importante traguardo pochi selezionatissimi ospiti sono stati invitati ad un party presso la balera La Perla. Cult anni ’80 e ’90 e esperti ballerini di liscio, oltre agli storici proprietari, Romano e Lina, hanno reso la presenza del design brand, in linea con il suo stile, davvero indimenticabile.
Atmosfere post industriali per il primo fashion show del designer durante l’ultima edizione del Pitti.
Il trentenne bresciano Vittorio Branchizio, a seguito della vittoria allo scorso Who’s on Next, contest curato da Pitti Immagine, Altaroma e Condè Nast, dedito allo scouting per stilisti emergenti, torna al Pitti Uomo con il fashion show della collezione Autunno/Inverno 2016.
Cresciuto in un ambiente eclettico, dove l’attitudine a interagire con il mondo delle arti visive l’ha contagiato sin dalla tenera età, ha espresso da sempre il desiderio di collaborare con talenti del panorama artistico contemporaneo ai fini di fusioni e ispirazioni reciproche.
Nasce così anche la passione per l’arte del filato e del know how italiano annesso. Le tecniche artigianali e le nuove tecnologie hanno guidato Branchizio nella selezione di cachemire, seta, cotone, lino e lana merino proposti dalle eccellenze del territorio nazionale. Romantica e evocativa la nuova collezione raccoglie le cromie e le trame delle pietre del fiume Arno.
In sincronia con la sfilata, una video proiezione ha guidato lo spettatore nella percezione dell’ispirazione creativa.
Il blu notturno, il rosato e il glaciale delle pietre hanno preso vita sui filati e nella manipolazione dei capi finiti che ricordano, nei loro volumi, le lunghezze mediorientali e lo studio delle proporzioni giapponesi.
Questa volta la sinergia artistica è giunta con l’artista Sergio Perrero e con il designer Uros Mihic, contattati per gli elementi pittorici e lo studio dell’origami.
Concettualmente graffiante e contemporanea la maglieria di Branchizio assume, anche per le prossime stagioni, una connotazione colta e contemporanea in grado di tramandare in modo innovativo uno dei patrimoni artistici italiani.
Ieratiche come marmoree sculture, atemporali come le opere d’arte che impreziosiscono un museo, misteriose ed iconiche: le creazioni di Roberto Capucci costituiscono un unicum nel panorama della moda.
Enfant prodige, ad appena 26 anni fu definito da Christian Dior «il miglior creatore della moda italiana»: Roberto Capucci, classe 1930, vanta una carriera a dir poco sfolgorante. Nato a Roma, dopo aver frequentato il liceo artistico e l’Accademia di Belle Arti, dove si forma con i maestri Mazzacurati, Avenali e de Libero, nel 1950, a soli venti anni, inaugura il suo primo atelier, in via Sistina, grazie all’aiuto della giornalista Maria Foschini, che fu per lui Pigmalione ante litteram. L’anno seguente presenta le sue creazioni a Firenze, presso la residenza di Giovanni Battista Giorgini, inventore della moda italiana.
Audace sperimentatore, le sue collezioni riflettono il suo viscerale amore per l’arte. Le geometrie e i volumi arditi e altamente scenografici traggono ispirazione dalla natura, con le sue molteplici espressioni. Il Nove Gonne, creato nel 1956, è forse l’abito più conosciuto del periodo iniziale dell’opera di Capucci: trattasi di un semplice abito in taffetà rosso che si sviluppa in ben nove gonne concentriche con tanto di strascico sulla parte posteriore. Si dice che il couturier sia stato ispirato dal gioco di cerchi concentrici che si sviluppa sulla superficie dell’acqua lanciandovi un sasso.
Roberto Capucci è nato a Roma il 2 dicembre 1930Gli abiti-scultura di Capucci, foto di Fiorenzo Nicolli, 1985
Roberto Capucci su Vogue Italia, 1982. Foto di Barry Lategan
Nel 1958 crea la Linea a scatola, un’autentica rivoluzione, per cui nel settembre dello stesso anno viene insignito a Boston con la massima onorificenza, l’Oscar della Moda quale migliore creatore di moda, insieme a nomi del calibro di Pierre Cardin e James Galanos. Nel 1961 inizia la conquista della Francia, ove il couturier presenta le proprie creazioni; l’anno seguente inaugura il suo atelier al n. 4 di Rue Cambon, a Parigi. Negli anni parigini la sua ricerca e sperimentazione proseguono fino ad abbracciare materiali insoliti, quali la plastica, le fibre hi-tech, il plexiglass e il metallo.
In quel periodo abita al Ritz, come Coco Chanel, ed è acclamato come una vera celebrità. Le sue clienti vengono soprannominate «le capuccine». Pochi anni più tardi, nel 1968, viene costretto a rientrare in Italia da alcuni problemi familiari. Qui apre un nuovo atelier in via Gregoriana e presenta le sue collezioni nel calendario della moda organizzato dalla Camera Nazionale dell’Alta Moda. Nello stesso anno disegna i costumi di Silvana Mangano per il film Teorema di Pier Paolo Pasolini. Intanto continua a sperimentare e utilizza per le sue creazioni anche paglia, rafia e sassi, che mixa alla seta e all’alluminio, per la realizzazione di capi dal potente impatto scenografico. Ricordano le crisalidi certi abiti-scultura di Capucci, tra corazze di seta plissettata e ali lavorate, in un gioco di ardite sovrapposizioni e giochi barocchi, che modellano i tessuti e le sete come arabeschi, petali e ventagli, per capi che ricordano gli origami. Non semplice moda, non mera creazione di capi legati alla caducità delle tendenze stagionali, ma arte allo stato puro: il suo è un design onirico, caratterizzato da tagli astratti, continua sperimentazione e ricerca di tessuti e forme nuove. Tra i materiali usati spiccano il taffetà, il mikado, il Meryl Nexten, una particolare fibra cava.
SFOGLIA LA GALLERY:
Roberto Capucci al Phladelphia Museum of Art
Abito serpentine in organza tripla, Galleria del Costume di Palazzo Pitti
Una sfilata di Roberto Capucci
Abito Capucci, foto di Philippe Pottier,1962
Abito scultura in taffetà nero e bianco con sovrapposizioni multicolori, presentato nel 1992 a Berlino al Teatro Schauspielhaus.
Una creazione del 1966
Un capo del 1964
Philadelphia Museum of Art
Foto di Barry Lategan, 1982
Un capo del 1965
Restless Sleep (Sham Hinchey e Marzia Messina)
Nel luglio del 1970 presenta per la prima volta il suo lavoro in un museo, a Roma: la location scelta è il ninfeo del Museo di Arte Etrusca di Villa Giulia. Anarchico e scevro da ogni logica di mercato, esteta di antica tradizione, Capucci nel 1980 si dimette dalla Camera Nazionale della Moda e decide di intraprendere un percorso che sia in linea con la propria personalità, divorziando dalle istituzioni per dedicarsi completamente alla sua opera estetica. Il couturier si ritira in una creazione solitaria, avente un solo fine: l’arte. Genio ribelle, aborre le logiche di mercato, come anche le scadenze e il caos tipici delle settimane della moda. Alla base della sua attività vi è una autentica ricerca estetica, per abiti-scultura che sono vere e proprie opere d’arte da indossare. A partire dagli anni Ottanta le sue collezioni non vengono più inserite all’interno di alcun calendario ma vengono presentate come delle personali d’artista. La sua stagione espositiva inizia nel 1990 con la mostra Roberto Capucci l’Arte Nella Moda—Volume, Colore e Metodo a Palazzo Strozzi a Firenze: l’esposizione ottiene un successo senza precedenti e le sue opere vengono contese dai musei più importanti al mondo, tra cui il Kunsthistorihsches Museum (Vienna), il Nordiska Museet (Stoccolma), il Museo Puškin delle belle arti (Mosca), il Philadelphia Museum of Art, la Reggia di Venaria Reale (Torino). Nel 1995 le sue creazioni sono protagoniste della Biennale di Venezia, nell’edizione del centenario 1895-1995. Nel 2005 crea la Fondazione Roberto Capucci allo scopo di preservare il suo impotente archivio, che consta di 439 abiti storici, 500 illustrazioni firmate, 22.000 disegni originali, oltre che di una rassegna stampa completa e di una vasta fototeca e mediateca. Nel 2007 apre il Museo della Fondazione Roberto Capucci presso Villa Bardini, a Firenze. Nell’aprile 2012 la creazione di un concorso, con lo scopo di promuovere i giovani talenti.
L’abito Nove Gonne, 1956Modella in Roberto Capucci, Roma, 1957Tubini Capucci, 1961, foto di Norman Parkinson
Simone D’Aillencourt e Nina de Voogt in Capucci, Roma 1960, foto di William Klein
Riservato, refrattario ad ogni forma di pubblicità, schivo, Capucci incarna forse l’ultimo dei couturier, i sarti-architetti che, come Cristóbal Balenciaga, hanno elevato la moda ad una tra le più potenti espressioni artistiche. Ribelle ed anarchico, fedele ai valori estetici della vecchia scuola, per Capucci “la moda non esiste”, è un’invenzione, al pari delle tendenze, ed “essere alla moda è già essere fuori moda”. Una personalità forte, che non teme di affermare con forza che, se potesse, abolirebbe lo stesso termine moda dal vocabolario. Maestro di stile, definisce l’eleganza come fascino, mistero, qualcosa che nulla ha a che fare con l’apparenza. Testimone impotente del decadimento dei costumi, giudice inflessibile rispetto alla volgarità imperante nella sua Roma e, più in generale, nella società attuale, Capucci ha più volte ribadito che oggi a suo dire non vi sarebbe alcuna icona di stile.“L’alta moda è morta” —tuonava così pochi anni fa, commentando le sfilate dell’alta moda romana. E proprio lui, che della moda è stato uno dei nomi più importanti a livello mondiale, esordisce spesso e volentieri dicendo: “Di moda non mi intendo affatto”. Gli occhi sagaci rivelano il suo ricchissimo mondo interiore, la sua eleganza è entrata a buon diritto nelle enciclopedie della moda. “Ho un solo vizio: spendo tanto in abbigliamento. Ho 42 cappotti, in tutti i colori, dal bianco al nero e all’arancione”, ammette il couturier in una delle innumerevoli interviste.
Abito Capucci, 1957Penelope Tree in Capucci
Uno degli abiti-scultura di Roberto Capucci
Universalmente riconosciuto come uno dei nomi più importanti della moda del XX secolo, Capucci ha vestito teste coronate e star del cinema: da Silvana Mangano al soprano Raina Kabaivanska a Rita Levi-Montalcini, che indossava proprio una creazione del Maestro in occasione del conferimento del Premio Nobel per la medicina del 1986. Nel 2007 è stato inaugurato a Villa Bardini (Firenze) un museo a lui dedicato: «A Roma non c’era posto per me; nessuno m’ha offerto un luogo per la mia Fondazione. Qui, invece, mi hanno steso un tappeto rosso». Commentava così il couturier, la cui attività è iniziata proprio a Firenze, nel 1951. Un nome che, da Roma e dall’Italia, ha conquistato il mondo. “Fai della bellezza il tuo costante ideale” è il monito lanciato da Capucci, summa di tutta la sua attività, dagli anni Cinquanta fino ad oggi.
Chi di noi non ha giocato almeno una volta da bambino con i mattoncini LEGO? Quante ore passate a montare e smontare improbabili edifici, ponti, case, spesso poco resistenti. I LEGO sono stati un gioco dell’infanzia imprescindibile, e che ancora oggi spopolano tra i bambini. Grazie all’idea geniale dell’artista americano Nathan Sawaya e alla sua passione e abilità con i mattoncini, è riuscito a trasformare un gioco così semplice in vera e propria arte. La mostra “The art of the brick” visitabile a Roma presso lo Spazio Eventi SET fino al 14 febbraio 2016, è una vera e propria carrellata di 80 fantastiche e colorate opere fatte esclusivamente con i LEGO.
La mostra, adatta a grandi e piccini, è un excursus fra le più importanti opere di Sawaya che con pazienza e grande fantasia è riuscito a stupire e a catturare l’attenzione di tutti i visitatori, forse lasciando soprattutto gli adulti a bocca aperta. In ogni sala, divise per tematiche, è impossibile non rimanere a bocca aperta e allo stesso tempo sorridere della bellezza e del genio che c’è dietro ogni opera. Non basta la sola sapienza nel saper mettere insieme nel modo corretto i LEGO, ma ci vuole anche una grande visione di insieme per creare le opere d’arte che Sawaya pensa e realizza.
Il bacio di Klimt realizzato con i LEGO
Nel percorso espositivo che comincia dalla rappresentazione sempre con i mattoncini dello studio dell’artista, si passa ai famosi quadri e sculture come “L’Urlo” di Munch, “Notte stellata” di Van Gogh, e ancora “Il Bacio” di Klimt e “Il Pensatore” di Rodin, per arrivare alla sezione ritratti dove troviamo splendide riproduzioni di famosi personaggi come ad esempio Andy Warhol.
Ma non basta; Sawaya ci regala anche una ampia sezione dedicata agli stati d’animo dell’uomo e all’amore, sculture molto intime, ma allo stesso tempo allegre e che invitano a riflettere. Un grande dinosauro composto da 80mila mattoncini poi, sarà sicuramente l’attrazione principale per i bambini, i quali alla fine del percorso insieme ai grandi, potranno scatenare la loro fantasia nell’area gioco predisposta e invasa con tantissimi mattoncini LEGO.
Se volete vivere l’esperienza di visitare una mostra che vi sorprenderà e vi farà sorridere opera dopo opera, quella di Sawaya è sicuramente il posto giusto per fare un salto indietro nel tempo, e per far scoprire ai più piccoli la bellezza di un gioco che sembra non passare mai di moda, e che, anzi, è diventata addirittura arte grazie alla fantasia.
SPAZIO EVENTI SET
Via Tirso 14, Roma
Dal 28/10/2015 al 14/2/2016
Lun-giov dalle ore 10 alle 20
Ven-sab dalle ore 10 alle 23
Dom dalle ore 10 alle 21
Tradizione e contemporaneità si sposano e intrecciano nella mostra dal titolo “Bagliori di Hanji – Installazioni luminose e altri capolavori in carta tradizionale coreana Hanji”, ospitata fino al 17 gennaio 2016 presso la Sala Zanardelli del Complesso del Vittoriano, e che vede come protagonista la storia, la tradizione, e i manufatti artigianali realizzati con uno speciale tipo di carta coreana chiamata appunto hanji.
L’esibizione, realizzata grazie al connubio tra l’Ambasciata della Repubblica di Corea a Roma, la Yewon Arts University Jangjibang e la provincia coreana di Gyeonggi, si snoda su un percorso diviso in quattro aree. Nel primo spazio ritroviamo la tradizione e la storia di questa preziosa carta, lavorata da ben quattro generazioni dalla famiglia Jang che, dall’albero di gelso detto “dak” estrae il materiale che lavorato in modo del tutto tradizionale e quindi a mano, viene impiegata per i più diversi utilizzi.
Nella seconda, terza e quarta sezione, troviamo la tematica della convergenza e della coesistenza. In questi spazi infatti troviamo esposte opere realizzate con questa particolare carta che viene impiegata per costruire installazioni luminose simbolo della modernità, ma dai caratteri fortemente tradizionali; opere d’arte, come ad esempio riproduzioni di cavalli usati come simboli di prosperità e fortuna, ma troviamo anche dei tavolini portabili che indicavano nell’antichità il livello sociale delle famiglie che li possedevano. La carta Hanji però, si presta anche come materiale di restauro di preziose testimonianze culturali,e addirittura come ornamento di elementi di arredo, vestiti e accessori.
La mostra di fatto è un excursus che attraversa e racconto la storia, la tradizione, la metodologia di lavorazione della carta hanji, una forma artigianale che nella modernità più estrema, sopravvive ed emerge come forma d’arte privilegiata e umile, che fa della carta un prezioso elemento capace di ornare la quotidianità grazie ai suoi usi multipli.