Intervista a Tiziano Russo: racconto una realtà inventata

Tiziano Russo è ben conosciuto nel panorama musicale per aver diretto i video di artisti italiani come: Mina, Dardust, Nino Frassica, Chiara. Recentemente, è stato ospite con Boosta e Violante Placido presso Milano Film Festival, dove ha reso omaggio al grande Antonioni con lo spettacolo “Attraverso il Deserto, il Deserto Rosso“. Tra gli ultimi lavori, spiccano quello per i Negramaro in “Fino All’Imbrunire” e Francesco Gabbani in “La mia versione dei ricordi”.


Da dove nasce la passione per la sua attività? C’è, in particolare, un aneddoto?


Esiste in realtà un momento particolare della mia vita che coincide con l’inizio del mio sguardo su questo mestiere: una collana di 120 VHS del Corriere della Sera, grandi opere cinematografiche da collezionare; le acquistai tutte. Credevo di avere tra le mani un tesoro da difendere, senza conoscere bene i registi e i film. Ma giorno dopo giorno iniziai a divorarli e a studiarli, specialmente Polanski e Kubrick.


Ci sono dei registi che sente più affini al suo modo di vedere il mondo?


Seguivo molto Polanski. Crescendo, ho cambiato i modelli da seguire: da Sorrentino a Refn, da Iñárritu a Roy Andersson, non Wes. Cambiano i registi, ma restano i film. Non seguo un regista da seguire, anche se aspetto l’uscita di un autore in particolare, ma preferisco seguire le opere, i temi e le idee.


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L’ultimo videoclip dei Negramaro s’ispira ad un film di di François Ozon, in cui il bambino dotato di ali diviene metafora dell’amore che fin dai primissimi momenti di vita è aspirazione alla libertà. Com’è, invece, il suo rapporto con la libertà creativa?


Il video è esattamente la mia personale espressione di libertà: libero dai canoni audiovisivi, di ispirarsi a un film in particolare, di cambiare stile. Con l’ultimo video dei Negramaro ho voluto proprio questo, mettermi in gioco e azzardare un nuovo stile registico da allegare a un brano musicale. Credo di aver indirizzato il mio percorso su una strada artistica e creativa nuova. E mi piace.


In che modo riesce a conciliare la libertà creativa con la commissione dei lavori?


Una domanda delicatissima. Dipende molto dagli artisti e da chi commissiona il lavoro. Sicuramente ti scelgono per lo stile, e averne uno è già un gran passo avanti e facilita il rapporto regista/artista. Cerco di ascoltare molto la volontà del discografico, ma so ben di dover difendere le mie idee e i miei gusti. Il punto d’incontro è sempre il risultato migliore, quasi come quello tra artista e volontà del pubblico.


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Qual è o quali sono gli aspetti a cui presta maggiormente attenzione nella produzione di un videoclip musicale?


Durante la produzione pretendo che i reparti si conoscano e comunichino tra di loro. La migliore riuscita passa attraverso la comunicazione e lo scambio. I reparti devono ascoltarsi e scegliere insieme al regista le direzione: non si arriva sul set con idee diverse, ma con una grande in comune. Presto molta attenzione affinché tutti lavorino in questi modi; non si è registi solo sul set. La mia attenzione particolare, e spero si noti, è sulla fotografia e la narrazione. Una è più legata alla creatività visiva, la seconda all’idea e all’emotività. Inevitabili.


C’è un suo videocip musicale al quale si sente emotivamente più legato?


No. O meglio, sono molto autocritico e credo che il meglio debba sempre arrivare. ma sicuramente, l’ultimo dei Negramaro è un video che ha un contorno importante e molto personale. Lo rivedo spesso, e questo la dice lunga.


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Realtà e finzione. Come s’incontrano nei suoi lavorI?


La realtà è finzione. Nella realtà tutti fingiamo, e per quanto mi riguardo, nei miei lavori è inevitabile questo connubio. Racconto una realtà finta, inventata: è un paradosso che difendo. Se la puoi sognare, puoi anche raccontarla. E il sogno vive nella nostra realtà.


Se dovesse associare una sola parola al suo linguaggio, quale sceglierebbe? Perchè?


Il mio è un linguaggio lunatico, esprime molto quello che sono. Essere lunatici nell’arte è una gran fortuna: il dono di essere liberi e giustificati.


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L’ultimo suo lavoro l’ha visto confrontarsi con Deserto Rosso del grande Antonioni. Che sensazioni le ha regalato quest’esperienza?


E’ stata una bolla spazio-temporale, di quelle che scoppiano e ti chiedi se l’hai vissuta e vista per davvero. Antonioni è un punto lontano e mi sembra di averlo conosciuto bene, come un grande amico, per pochi giorni. E l’ho conosciuto grazie a un suo film; è questo il nostro senso della vita: essere conosciuti per quello che facciamo. Io ho conosciuto Deserto Rosso e Antonioni. In questo lavoro, Boosta e Violante sono stati due importanti compagni di viaggio. Abbiamo realizzato qualcosa di unico: una nuova forma d’arte, con molti limiti ancora, ma potenziali margini di miglioramento. Ci stiamo lavorando.


Quali sono i prossimi progetti che la vedranno protagonista? Può anticiparci qualcosa?


Non si finisce mai di scrivere, ma bisogna essere bravi a chiudere una storia. Attualmente sto facendo proprio questo. Sono in scrittura e impegnato nella lavorazione di nuovi videoclip per artisti italiani.


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I video di Tiziano Russo si contraddistinguono per la delicatezza delle storie raccontate e l’eleganza delle immagini che si susseguono, dove la malinconia s’intreccia inesorabilmente con la gioia. Ne deriva, quindi, il ritratto della vita in tutta la sua complessità, fatta di volti, dettagli, luoghi, idee ed elementi simbolici. La creatività è l’elemento costante con cui il regista condisce la realtà e la quotidianità, contribuendo all’elaborazione di un linguaggio del tutto personale, che intriga ed incuriosisce.


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Intervista a Michele Palazzo: dove comincia il suo mondo

Michele Palazzo è il fotografo originario di Ravenna che sarà protagonista a Milano, presso la galleria Still, a partire dal 29 novembre per la sua prima mostra personale. La mostra, intitolata “Dove comincia il mondo“, è curata da Denis Curti e Maria Vittoria Baravelli.

“Dove comincia il mondo” è il titolo della sua mostra personale. Dove comincia, invece, la sua passione per la fotografia?

Comincia molto presto, negli anni della mia adolescenza alle scuole medie. Ho frequentato una scuola media sperimentale annessa all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna, ed a differenza delle altre scuole medie tradizionali, avevamo molte più ore di materie artistiche tra le quali fotografia. Erano ovviamente gli anni della fotografia analogica e la magia di sviluppare le foto autonomamente in camera oscura mi ha completamente rapito. Da quel momento in poi, con periodi più o meno intensi, la fotografia non mi ha più abbandonato.

Come approccia con i passanti mentre fotografa? Chiede se può fotografare o, semplicemente, cattura l’immagine?

Mai. Se chiedo il permesso, interrompo la magia del momento. I miei sono tutti ritratti fatti candidamente.

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Dalle sue immagini vien fuori un mosaico di etnie e culture differenti, che si riflette anche nei colori. Qual è l’aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?

Ci sono molte cose che catturano la mia attenzione: i volti, i vestiti, il background o la luce. E’ una cosa che faccio quotidianamente, è un esercizio di osservazione e di curiosità continua che non mi abbandona mai, nemmeno quando non ho una macchina fotografica con me.

Che posizione occupa la tecnica nella sua fotografia?

Credo che sia una cosa acquisita per il tipo di fotografia che faccio, anche se ovviamente ci sono sempre cose da apprendere. Non sono un fotografo da studio e, quindi, quella tecnica la conosco poco e posso essere sicuramente considerato un principiante; tuttavia, se mi dovesse servire o ancora meglio incuriosire, allora mi ci dedicherei in maniera ossessiva come faccio con tutte le cose che mi intrigano.

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Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente la sua visione della fotografia?

Probabilmente moltissimi, ma anche pittori, designers e architetti. Ho sempre avuto una grande curiosità visiva e una pessima memoria per i nomi, per cui le mie influenze sono le più svariate. Ho un background in architettura, un lavoro da designer nel mondo digitale, questa passione sfrenata per la fotografia e amo viaggiare: sarebbe riduttivo citare solo qualche fotografo. Poi ne scopro nuovi e vecchi ogni giorno, preferisco mantenere vivo questo senso di continua sorpresa e scoperta.

La sua visione del mondo si riflette nella sua fotografia, o la sua fotografia ha inciso nella sua visione del mondo?

Sicuramente la prima, anche se a volte riguardando le mie fotografie e a mente fresca, scopro un punto di vista inaspettato anche a me stesso. La mia macchina fotografica è un passe-partout per nuovi mondi e avventure: probabilmente senza questa mia passione quotidiana non avrei mai avuto accesso o scoperto metà delle cose che ora fanno parte di me.

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C’è una parte del mondo che desidera fotografare attualmente?

In senso geografico, l’Asia che non ho mai visitato e che conosco solo attraverso l’occhio di altri fotografi. Sono curioso di vedere cosa, invece, il mio occhio sia capace di catturare. Se invece non parliamo di luoghi geografici, allora vorrei fotografare i momenti persi e le persone mai viste.

C’è qualcosa, invece, che preferirebbe non fotografare?

Ci sono probabilmente dei generi a cui non mi avvicinerò mai per mia indole, ma non mi precludo nulla.

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Le capita spesso di emozionarsi rivedendo una sua fotografia?

Poche volte, credo di essere molto esigente con me stesso. Mi innamoro di alcune idee di fotografia che provo ad esplorare e molte volte, deluso dai risultati, preferisco continuare a inseguire quelle idee e ogni tanto raccogliere i frutti di quell’esplorazione.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perché?

Forse direi Pancia, perché la mia fotografia è un po’ viscerale, di pancia appunto.

La mostra di Michele Palazzo presenta New York in 20 scatti, città in cui il fotografo vive per esigenze lavorative a partire dal 2010. La New York ritratta da Palazzo è spesso evanescente: il fotografo imprime nelle sue immagini l’unicità e la magia di momenti irripetibili; ne deriva, pertanto, una visione del tutto personale della Grande Mela, dove culture ed esperienze di vita differenti si mescolano tra di loro e con l’esperienza del fotografo, sino a realizzare un mosaico piacevole da osservare ed estremamente affascinante.

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Giuseppe Palmisano: la fotografia ha a che fare con l’inconscio

Giuseppe Palmisano è un giovane fotografo italiano. La sua è una fotografia che procede per sottrazione e in cui le donne ritratte risultano semplici, sensuali ed estremamente delicate.


Quando e come nasce la tua passione per la fotografia?


Ho iniziato a fotografare da ragazzino in maniera giocosa, ritraendomi da solo; facevo già teatro, l’artista di strada e mi dedicavo pertanto a video e foto. Acquistando poi una reflex nel 2009, ho iniziato a sperimentare in maniera più seria: il mezzo mi ha spinto verso la fotografia e poi, nello stesso tempo, la fotografia mi ha spinto lontano dal mezzo. Infatti, non mi è mai interessata particolarmente la tecnica.


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Come ti poni con i soggetti ritratti? Come interagisci?


Avviene tutto in maniera naturale, altrimenti si tratterebbe di una fotografia di moda. Io mi pongo come se fossi un regista: nel momento in cui fotografo, la modella è un’attrice e io il regista della situazione, come se si svolgesse uno spettacolo.


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Bellezza e fotografia. Come si incontrano nelle tue immagini?


Per me la fotografia non esiste. La bellezza è, invece, ciò che esiste: penso alla bellezza della donna nel contesto e non in quanto tale.


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Nelle tue immagini, la donna appare incessantemente incorniciata dal contesto circostante. Qual è l’aspetto a cui presti maggiore attenzione mentre fotografi?


Mi interessa che ogni cosa sia al suo posto: c’è sicuramente ordine nelle mie immagini. Per quanto riguarda le simmetrie, si può soltanto tentare di riprodurle poiché ci sarà sempre qualcosa di imperfetto.


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Le donne che ritrai sono sempre donne semplici, prive di tutto ciò che è superfluo. Qual è la funzione che attribuisci alla presenza femminile all’interno dell’immagine?


Non parlerei di funzione, altrimenti sarebbero soltanto degli oggetti. Semplicemente, mi piace la donna come soggetto da ritrarre, in quanto diverso da me: credo che sia più adeguata a trasmettere ciò che io vorrei.


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La tua è una fotografia “di ricerca”. Dove si dirige attualmente?


Non si può definire dove una ricerca si dirige: il senso della ricerca risiede esclusivamente in se stessa. So da dove vengo e non so assolutamente dove mi sto dirigendo.


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A quali fotografi ti sei ispirato per la tua ricerca?


Direi che mi sono ispirato a tutto ciò che ho visto e fatto, principalmente al teatro. Non conoscevo affatto la fotografia prima che iniziassi a fotografare. Ci sono alcuni fotografi che sicuramente mi hanno segnato, anche a livello inconscio, ma non sono stati affatto il mio punto d’inizio. Credo fermamente che la fotografia sia qualcosa di inconscio, contrariamente a chi ha l’esigenza di copiare altri fotografi pur di creare. Sicuramente mi hanno molto segnato le immagini di Guy Bourdin.


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Hai detto che l’arte è un modo di entrare in empatia col mondo. Puoi spiegarci meglio questa tua visione?


Per me, l’arte è un modo per conoscere gli altri e per entrarci in empatia. Non è il mezzo per farmi conoscere, bensì facendomi conoscere mi consente di avvicinarmi agli altri.


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Erotismo, Immaginazione e Fotografia. Qual è il loro punto d’incontro nelle tue immagini?


Sono tre momenti differenti. L’erotismo è un modo di vedere le cose. L’immaginazione è quella che ho quando voglio fotografare o quando guardo delle cose e le associo: può essere preventiva o estemporanea. L’immagine è invece il risultato del click.


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Ultima domanda. Se dovessi utilizzare una parola da associare alla tua fotografia, quale sceglieresti?


Utilizzerei “perchè” come parola. Tutto si basa sulla domanda, viviamo e facciamo senza farci delle domande.


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La fotografia di Giuseppe Palmisano si contraddistingue per un linguaggio del tutto personale: le sue modelle appaiono quasi sempre agiatamente sdraiate, accovacciate, con le gambe ben in vista, o in piedi contro un muro. Esse sembrano cercare un posto nell’ambiente circostante, così come l’autore potrebbe ricercarlo nel mondo attraverso il mezzo fotografico. E’ evidente la contaminazione con il teatro: l’immagine è il frutto di una specie di improvvisazione in cui la scenografia che ne deriva è di primaria importanza. Tutto ciò ha contribuito a fare di lui un vero e proprio fenomeno virale sui social, dove le sue immagini vengono recepite visivamente dai follower come intime e sincere.

Vivian Maier: l’incanto di una scoperta

Vivian Maier è nota soltanto da una decina di anni ed è attualmente una delle figure più affascinanti nell’ambito della fotografia, tanto da ispirare libri e documentari sulla sua vita. Oggigiorno, il fascino di quest’artista risiede sicuramente non soltanto nella sua opera, ma soprattutto nella sua vita non priva di difficoltà e nel ritrovamento quasi casuale della sua fotografia. Per tutto il corso della sua vita, accompagnò la passione per la fotografia derivata da un’amica della madre, all’attività da bambinaia per pagarsi da vivere.


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Ciò che affascina maggiormente della sua storia è la decisione di non rendere pubbliche le sue fotografie: molti dei suoi negativi restavano non sviluppati in vita. Sembra quasi che a lei bastasse il semplice atto del fotografare, senza la necessità di condividere il risultato dei suoi scatti. Allo stesso tempo, è evidente che non fosse interessata alle finalità commerciali dell’epoca.


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La scoperta della sua opera ha dell’assurdo: i suoi negativi sono stati scoperti nel 2007 dall’americano John Maloof. In occasione di una ricerca sulla città di Chicago, il ragazzo acquistò uno scatolone contenente gli oggetti più disparati, messo all’asta per 380 dollari e sottratto alla proprietaria in seguito alle sue gravi problematiche finanziarie. Tra i vari oggetti, ritrovò anche una cassa contenente dei negativi e dei rullini ancora non sviluppati.


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Le immagini di Vivian Maier sono il dipinto dell’America dei primi decenni del ‘900, il racconto di un popolo tramite sguardi, espressioni, luoghi e gestualità. Ciò che maggiormente colpisce osservando le sue fotografie è la spontaneità con cui cattura un’immagine o il suo ritratto allo specchio. E’ una fotografia non troppo ricercata, quasi casuale: è proprio questa spontaneità dell’atto fotografico ad impreziosire di fascino e mistero i soggetti ritratti. Negli occhi dei suoi autoritratti, è possibile scorgere una personalità ricca di luci ed ombre proprio come la sua fotografia.


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Nel 2009, Vivian Maier morì in seguito ad una caduta sul ghiaccio e al suo ricovero in ospedale. John Maloof, che pur voleva incontrare la donna del box che aveva acquistato per valorizzarne l’opera, non ebbe mai modo di conoscerla. Senza le sue ricerche, Vivian sarebbe rimasta impressa soltanto nella memoria dei bambini americani degli anni ’50 e ’60 che la conobbero nelle vesti da bambinaia.


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1954, New York, NY

Todd Hido: il fascino di strade, case e donne

Todd Hido è attualmente uno dei fotografi più noti ed apprezzati nel panorama artistico internazionale. Noto prevalentemente per fotografare case avvolte in contesti periferici foschi e oscuri, stupisce per lo stile personale che lo rende ben riconoscibile.


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Le sue immagini sono contraddistinte da atmosfere buie, dalla presenza di strade e case e dall’assenza della componente umana. Contrariamente a ciò che si può immaginare, è un tipo di fotografia che non ha nulla a che vedere con l’architettura; dalle finestre delle dimore nei quartieri americani spuntano spesso luci che segnalano un’implicita presenza umana.


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Il suo stile fotografico è pittorico e cinematografico tanto nei paesaggi notturni che nei suoi ritratti e nudi. In tutte le sue composizioni, è evidente una particolare attenzione verso l’atmosfera catturata: misteriosa e intima allo stesso tempo. Le donne ritratte, seppur nude, emanano sempre un grande fascino ed un’insolita eleganza di cui sembrano quasi esserne inconsapevoli; spesso, appaiono ritratte di sfuggita, di spalle o sdraiate in posizioni sensuali.


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Nei ritratti, Todd Hido pone tutta l’attenzione sullo sguardo e l’espressione del viso delle sue donne. Nella stanza, la luce circostante sembra abbracciarle dolcemente o in maniera più decisa, avvalorando la loro naturale bellezza.


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La fotografia di Todd Hido appare guidata dall’istinto e dalla solitudine: casualmente s’imbatte in una strada poca illuminata o si ritrova di fronte a situazioni ricche di fascino e mistero. E’ una fotografia descrittiva e narrativa contemporaneamente: un dettaglio come uno sguardo, un’insegna luminosa o un’auto parcheggiata è sufficiente per incuriosire l’osservatore e per indurlo a fantasticare. Le sue immagini sono il segno di un’indagine che va ben oltre le apparenze e che ricerca in maniera sottile e inusuale la storia di luoghi e persone


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http://www.toddhido.com/

Guy Bourdin: moda, provocazione e crudeltà

Guy Bourdin è stato sicuramente uno dei fotografi di moda e pubblicità più influenti del ventesimo secolo. Seppur meno noto rispetto al collega Helmut Newton, il suo stile ha profondamente cambiato il linguaggio pubblicitario della moda, tanto da influenzare molti dei fotografi successivi.


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Nacque a Parigi il 2 dicembre 1928 al 7 di Rue Popincourt. Abbandonato dalla madre all’età di un anno, fu Madame Maurice Désiré Bourdin che se ne prese cura e lo allevò affettuosamente. Sviluppò una particolare passione per la fotografia durante il servizio militare, a Dakar. Quando ritornò a Parigi, conobbe il grande Man Ray che incise indubbiamente sul suo stile conferendogli un tono inusuale. Nel 1961 sposò Solange Marie Louise Gèze, che morì suicida nel 1971. Dal 1955 al 1987 le sue immagini furono pubblicate su Vogue Paris; fu proprio un editore della rivista a presentare Guy Bourdin allo stilista Charles Jourdan, per il quale realizzò le campagne pubblicitarie delle sue calzature dal 1967 al 1981.


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Il fotografo parigino, che rifiutò nel 1985 il Grand Prix National de la Photographie, desiderava che le sue opere venissero distrutte dopo la morte. Durante il corso della sua vita, invece, rifiutò spesso di organizzare mostre o pubblicare libri. Si mantenne sempre ben lontano dalle lusinghe dei suoi tempi e sembra che fosse molto frustrato per la notorietà che aveva acquisito nel settore fotografico. Non fu soltanto un fotografo, ma anche un bravo artista: si dedicò alla pittura fino alla fine.


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Guy Bourdin ha sviluppato nel corso degli anni uno stile provocatorio, caratterizzato da immagini dai toni forti e da accostamenti surreali, in grado di spiazzare ed inquietare profondamente l’osservatore. I corpi femminili appaiono spesso sdraiati disordinatamente o frammentati; gambe che passeggiano, mani che si ripetono, corpi alienati ed elementi allusivi conferiscono una generale freddezza emotiva all’intera immagine che sfocia quasi nella crudeltà. Tale visione femminile deriva quasi probabilmente dal trauma infantile legato all’abbandono da parte dalla madre: sia con le donne a intorno a lui che con le modelle dei suoi shooting, si atteggiava con modi di fare spietati. Le modelle che egli seleziona, inoltre, sono quasi sempre dalla chioma rossa, dalla pelle chiarissima e truccate in maniera esagerata come la madre.


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La personalità enigmatica e ambigua di Guy Bourdin si riflette perfettamente nell’atmosfera onirica delle sue immagini, a tratti disturbante. E’ stato il primo fotografo a frammentare fino all’estremità il corpo della donna e a costruire un linguaggio ricco di metafore sensuali . L’artista francese è stato in grado di assorbire l’influenza di Man Ray e dei surrealisti Magritte e Balthus, creando uno stile complesso, provocatorio, stupefacente e difficile da decifrare nel settore pubblicitario della moda.


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Andrea Tomas Prato: Ghirri ha svelato quello che c’era e nessuno vedeva

Andrea Tomas Prato vive a Tortona, in provincia di Alessandria. La scoperta della fotografia avviene, per lui, in maniera del tutto casuale. Da quel momento, sarà la sua passione più grande, trasformandosi in un vero e proprio “gioco artigianale“.

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Come nasce la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?

La passione per la fotografia nasce per caso, per aver accompagnato un collega ad un corso base di fotografia nel 2011. L’aneddoto, invece, è che fotografavo da anni per lavoro le scene del crimine con uno schema, una metodologia,  che avrei usato lo stesso strumento con tanta passione e senza metodo, in maniera opposta.

Cosa c’è di autobiografico nella sua fotografia?

Il fatto stesso che la realizzo io.

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I dettagli del corpo femminile sono i veri protagonisti di molte sue immagini. Cosa intende comunicare tramite essi?

Non credo che dietro una immagine ci debba essere per forza un messaggio. Al contrario, credo di non voler comunicare proprio nulla. E’ solo una ricerca di ciò che io considero bello esteticamente; in questo caso, ricerco ciò che più bello ci sia negli aspetti armonici del corpo femminile. Vorrei solo precisare che i veri protagonisti delle mie immagini sono le persone che fotografo nella loro unicità, e quindi nei loro ritratti.

Come si pone verso la modella, mentre fotografa?

In modo riconoscente, educato ma informale. Ci tengo molto al fatto che la persona ritratta capisca che di fronte ha qualcuno che può risultare molto meno interessante delle proprie fotografie, ammesso che lo siano.

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La presenza umana sembra essere molto significativa nelle sue immagini. E’ anche un modo per sottolineare l’unicità del momento?

Certo, ma il momento è unico anche quando fotografo in assenza di soggetto; d’altronde, ogni secondo della nostra vita è unico.

Che posizione occupa l’istinto nella sua fotografia?

Un’importanza fondamentale, unitamente alla necessità di mettersi dietro l’obiettivo.

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E la tecnica?

Direi, l’ultima posizione. Alcune foto, tra quelle che più amo, le ho scattate con macchine usa e getta che anche mio nipote di 5 anni sa usare. Il senso dell’inquadratura ce l’abbiamo tutti fin da bambini. Lo schermo televisivo, quello di un cinema o di un quadro ci ha inconsciamente educato. Il gusto, invece, è personale e per questo vengono fuori foto differenziate, che qualcuno si arroga il diritto di giudicare; ma è evidente che non esistono dati oggettivi in fotografia.

Cosa le piace cogliere nei paesaggi che fotografa?

Mi piace muovermi nei nostri amati colli, quelli Tortonesi, e omaggiarli catturandoli in un’immagine.

Hai affermato di apprezzare Luigi Ghirri. Quali sono gli aspetti delle sue immagini che apprezzi maggiormente?

Ghirri ha svelato quello che c’era e che nessuno vedeva, facendolo con tanta eleganza ed in silenzio. Ora tutti quanti vedono di più attraverso i suoi occhi. Ha educato davvero tutti, da quel momento in poi.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perchè?

Gioco artigianale”, perché la fotografia che preferisco è quella che mi permette di acquistare bobine di pellicole, fare rullini, scattare, sviluppare e stampare in una piccola camera oscura; tutto questo fatto per gioco.

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La fotografia di Andrea Tomas Prato è la dimostrazione di come non sia necessario essere professionisti per creare una “buona fotografia”. Nelle sue immagini, il buongusto si unisce alla semplicità, dando vita ad un momento unico e irripetibile . Il risultato finale di ogni sua ricerca è una fotografia d’impatto, intima ed armoniosa.

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Marco Michieletto: siamo quello che fotografiamo

Nel corso della sua vita, Marco Michieletto ha fatto della fotografia la sua più grande passione. Egli non si limita soltanto a ritrarre incantevoli donne, ma mira ad imprimere in immagini molto di più: gesti, sguardi, fascino e personalità.


Cos’è per lei la fotografia?


Per me, la fotografia è come se fosse un figlio: gioia, dolori, molti pensieri e una spinta motivazionale continua. Non riesco a restare un solo giorno senza studiare una foto, sfogliare un libro o discuterne con gli amici. E’ una buona abitudine che quotidianamente mi crea interesse e arricchisce lo spirito.


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Come si pone verso l’errore?


L’errore fa parte delle mie foto; nonostante io sia un perfezionista nel lavoro, nella fotografia amo la spontaneità. Dunque, se apprezzo l’espressione, il momento, la luce, non mi soffermo troppo a guardare la mano tagliata o la piega del pantalone messa male. Personalmente, ritengo che i dettagli che contano nella buona fotografia siano differenti da quelli che comunemente si è portati a criticare.


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Quanto conta per lei la tecnica?


Personalmente, la tecnica non conta nulla. Non ho mai usato un flash in vita mia, così come non uso pannelli e post-produco il minimo indispensabile; se posso, lo faccio fare ad altri. Per me la fotografia è altro: prendere una modella, farle dimenticare che ho una macchina fotografica in mano ed entrare in stretto contatto con la sua personalità. Per me, la fotografia è tutto quello che riesce a trasmettermi con il viso o con il corpo, nel modo più naturale possibile; si può trattare di un gesto, una movenza o un pensiero. E’ in base a questo ragionamento che arrivo ad affermare che la tecnica, per me, non conta. Avrei risposto diversamente se non mi avesse chiesto “per lei”.


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Cosa c’è di autobiografico nelle sue immagini?


Tutto quanto. Sono un forte sostenitore della frase “siamo quello che fotografiamo“. Guardando una foto, spesso mi diverto a capire la personalità e l’educazione del fotografo che l’ha prodotta. Ho ben chiara la mia, ma mi fermo qui.


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Le donne che lei fotografa sono estremamente sensuali, pur rimanendo eleganti. Qual è l’aspetto che vuole catturare maggiormente in una donna?


La semplicità. Oggi le donne sono come un prestigiatore: vivono su Instragram e tentano di incantarti con tutti i filtri a disposizione. Io voglio prendere il loro cappello e guardare cosa c’è nel doppio fondo.


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Ha sempre affermato di aver voluto separare la fotografia dal suo lavoro. E’ contento di questa scelta?


Assolutamente sì. Conosco molte persone che hanno mollato il loro lavoro per diventare fotografi. Hanno gli stessi problemi e gli stessi problemi che ho io nel mio, con la differenza che non fotografano più per divertirsi. Io fotografo per puro piacere, quando, con chi e come voglio; il fatto di non dover render conto a nessuno di ciò che si fotografa è una libertà impagabile.


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Le sue modelle ricordano molto le dive di un tempo. C’è qualcuna di loro a cui s’ispira?


Jane Birkin.


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Se dovesse associare una sola parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe? Perchè?


Sarò banale e ripetitivo ma direi “semplicità”, poiché sono io attraverso i miei click.


C’è un fotografo che ammira particolarmente?


Indubbiamente, Jerry Schatzberg.


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Le è mai successo d’ispirarsi a un libro o ad un film mentre fotografa?


Credo che inconsciamente io lo faccia ogni volta. Sfoglio molti libri e divoro film come patatine; credo sia impossibile non essere influenzati da queste abitudini.


Osservando la fotografia di Marco Michieletto, è impossibile non notare la singolare eleganza delle sue donne che appaiono estremamente sensuali, grintose e semplici al tempo stesso. Le sue immagini si contraddistinguono, pertanto, per un linguaggio proprio, deciso e raffinato. Servendosi di esso, l’autore rappresenta il corpo femminile in maniera spontanea, senza troppi artefici e nel totale rispetto della personalità delle modelle.

Piero Gemelli: la fotografia di moda racconta un mondo e modi in “apparizione”

Attualmente, Piero Gemelli è considerato uno dei fotografi italiani più importanti a livello internazionale. È noto come fotografo di moda grazie alle innumerevoli campagne e immagini pubblicitarie che ha curato per marchi prestigiosi come Coveri, Shiseido, Revlon, Gucci e Ferrè. L’esperienza a Parigi, New York a Londra è stata particolarmente incisiva per la definizione e il maturare di un linguaggio proprio.


Le sue fotografie trasmettono un senso di solennità ed equilibrio. Qual è o quali sono gli aspetti a cui presta più attenzione mentre fotografa?


Solennità ed equilibrio sono due “sentimenti” che vorrei davvero mi appartenessero. Li sento miei anche se li inseguo e cerco in ogni mia visione e in ogni soggetto che si offre o che scelgo davanti ai miei occhi, ai miei desideri.
La mia formazione è nell’Architettura anche se, appena agli inizi della professione, è stata messa in disparte per la Fotografia; quest’ultima si è offerta come strumento più agile, di grande soddisfazione, di scoperta e racconto di sé.
Io credo che l’attenzione che dai al lavoro che fai debba essere naturale, istintiva e non troppo controllata. L’unico controllo che è giusto e doveroso operare è quello relativo all’esecuzione tecnica di ciò che si produce. Se l’idea ha un valore è anche grazie alla tecnica, corretta e controllata, con cui è prodotto.


2012©PieroGemelli- no any other usage is allowed,image can not be reproduced or downloaded for any purposeÊ without prior written authorization by Piero Gemelli


Quando e come nasce la sua passione per la fotografia? Ce ne può parlare?


Ho iniziato a fotografare da ragazzino per ricordare viaggi, momenti di festa, genitori, per poi passare al liceo, a fotografare compagni di scuola e le prime fidanzatine. In quei ritratti ho introdotto l’emozione e il coinvolgimento emotivo. Oggigiorno, anche nel lavoro più strettamente professionale, cerco di mantenere sempre quello stesso coinvolgimento affinché l’atto fotografico possa essere occasione di conoscersi e raccontarsi.


Quali sono i fotografi che attualmente reputa fonte d’ispirazione?


L’ispirazione credo che nasca da una sintesi di tutto quanto è visto e vissuto, e fare nomi di possibili artisti come fonte di ispirazione non credo sia esaustivo; alla fine, tutto e tutti possono ispirare così come nessuno può risultare fonte d’ispirazione. Ogni lavoro, ogni fotografia, così come ogni prodotto artistico anche di non fotografi, lavorano nel tuo inconscio, ma è solo la tua personale coniugazione che dà a loro un valore nuovo; allo stesso modo, il mio stesso lavoro è stato sin dagli inizi occasione di emozioni e suggestioni per molti che, in un meraviglioso gioco di ping-pong, poi diventano essi stessi fonte d’ispirazione per me ed altri.


Che posizione occupa la creatività nei suoi lavori?


Senza di essa, nessun lavoro potrebbe essere definito creativo.


MONICA BELLUCCI "She and herself"
MONICA BELLUCCI vs MONICABELLUCCI



Che posizione occupano, invece, i dettagli nelle sue immagini?


L’opera, ossia il prodotto del proprio lavoro di creativo e di artista, contiene nient’altro che i dettagli che tra molti possibili sono stati selezionati ed enfatizzati per comporre il proprio personale racconto.


Come crede che sia possibile conciliare la libertà e la creatività con le richieste dei clienti?


Il valore del professionista dipende proprio dalla capacità di farlo; egli sa fare propria una commessa di lavoro e la sviluppa caratterizzandola con il proprio stile e la propria linguistica; diversamente, sarebbe solo un abile tecnico e un semplice, pur bravo, esecutore di creatività altrui. Infatti, non avrebbe alcun senso scegliere e pagare un professionista.


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ELISA SEDNAOUI



Il suo modo di concepire la fotografia è rimasto inalterato negli anni o ha subìto cambiamenti?


La fotografia, come ogni altra cosa della vita, è concepita in modo sempre dinamico perché la conoscenza, l’esperienza, le gioie, i dolori della vita fanno vedere e valutare ogni cosa in modo sempre diverso ed interessante. Tutto ciò è bello e difficile: coniugare chiarezza e coerenza di pensiero con nuove e diverse opinioni in un modo evolutivo e non condizionante.


Quanto hanno influito le sue esperienze all’estero nell’elaborazione di un linguaggio fotografico personale?


Voglio essere sincero: la mia fotografia, il mio linguaggio personale, la qualità del mio lavoro mi hanno offerto l’occasione di essere apprezzato all’estero, e quindi è forse più giusto dire quanto il mio lavoro e la credibilità professionale abbiano influito nel modo di vivere l'”estero”. Sicuramente molto.


FOTO ARCHIVIO PIERO GEMELLI


Dove si dirige l’attuale fotografia di moda?


La fotografia di moda, come tutta la fotografia non pedissequamente descrittiva, racconta un mondo e modi in “apparizione“. sa leggere i segnali del cambiamento, li cavalca e li comunica fino a diventare racconto di una realtà prossima, di nuovo gusto ed orientamento culturale. Così fa oggi e così farà sempre. L’unica vera evidente novità è che il digitale, gli smartphone, tablet vari hanno dato accesso alla fotografia a tutti, permettendole di divenire un nuovo linguaggio globale e senza eccessivi filtri; tutto ciò da una parte, comporta una valanga di immagini sovrapposte e spesso confuse e non sempre di alta qualità; dall’altra, ha dato però la possibilità di far emergere talenti, quando validi, e di offrire loro un modo migliore di farsi strada e conoscere. Personalmente, seguo i social come Facebook e Instagram poiché sono convinto della loro forza di aggregazione e informazione.


Quali sono i prossimi appuntamenti di questo 2017 che la vedranno protagonista?


Gli appuntamenti migliori sono spesso quelli al buio, dove la sorpresa si arricchisce dell’attesa. Il 23 ottobre, all’interno del programma “Archivi aperti“, ci sarà un evento organizzato da Rete Fotografia (http://www.retefotografia.it/) in occasione della settimana della fotografia a Milano, dal 23 al 29 ottobre.
Gli ultimi mesi di quest’anno saranno invece dedicati all’organizzazione e preparazione di eventi, mostre, interventi e talk che sono in calendario per il 2018. Per aggiornamenti su questi appuntamenti e non perdere le novità si può fare riferimento ai miei account sui social e ai comunicati stampa in rete.


MARIAGRAZIA CUCINOTTA 1995
MARIAGRAZIA CUCINOTTA 1995



La fotografia di Piero Gemelli si contraddistingue per una straordinaria eleganza: in ogni sua immagine è, infatti, evidente la ricerca di equilibrio e geometria dettata dai suoi studi in Architettura. I suoi ritratti sono solenni e intimi al tempo stesso. Egli è creativo ma rispetta la tecnica, e ciò gli dà vanto affermando la sua impronta personale nel mondo della fotografia di moda internazionale.


http://www.pierogemelli.com/
https://www.facebook.com/Piero-Gemelli-1287913677984528/
https://www.instagram.com/pierogemelli/

Monica Cordiviola: la fotografia è una cosa seria



La fotografia di Monica Cordiviola è una fotografia tutta al femminile. Le donne che ritrae sembrano tutte quante atipiche: dotate di straordinaria personalità e charme.


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I soggetti delle sue immagini sono prevalentemente donne. Qual è l’aspetto su cui si sofferma?


Molto probabilmente amo ritrarre donne perché mi rivedo o tento di farlo in ognuna di esse. Mi soffermo soprattutto sui loro punti di forza e sulle loro debolezze per trarne al meglio l’immagine che maggiormente le rappresenta. Adoro soprattutto i dettagli dei loro corpi.


Le donne fotografate da lei sembrano tutte quante dotate di forte personalità e contemporaneamente molto emotive. Quanto c’è di autobiografico?


Credo che ognuno di noi nasconda in sé forza e debolezza; la mia fotografia ancora oggi è completamente autobiografica. Infatti, rivedo sempre qualcosa di me stessa mentre fotografo.


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Micol Rochi



Le donne nelle sue immagini sono piene di sensualità e carica erotica. Come pone in relazione fotografia ed erotismo?


L’erotismo in fotografia è molto soggettivo: in un’epoca in cui il nudo è all’ordine del giorno, trovo molto più erotiche le donne che si coprono e nascondono il proprio corpo. Io sono in controtendenza, da sempre. Ho studiato molto sul tema del corpo femminile nel corso degli anni, a livello antropologico e di cultura; oggi ritengo che sia una delle forme più dirette nella comunicazione e la fotografia, il suo mezzo.


Come si pone quando ritrae i suoi soggettI?


Quando ritraggo i miei soggetti cerco di mettere, per quanto possibile, a proprio agio le persone; non sempre ci riesco. Nel lavoro, come nella vita, non sempre abbiamo le famose affinità elettive e quando non vi sono, il risultato finale parla per noi.


Come è nata la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?


La fotografia è entrata nella mia vita circa quindici anni fa e in maniera molto particolare. In realtà, da spettatrice, sono sempre stata circondata dal mondo della fotografia. Da bambina mi dilettavo con le Polaroid ovunque mi trovassi, poi per molto tempo ritagliavo immagini dai magazine degli anni 80 come Harper’s Bazaar e Vogue e le raccoglievo meticolosamente in quaderni che ancora conservo. A trent’anni avevo talmente tante riviste che sfruttavo i loro fogli per ricavarci comodini e mobili in casa. Poi, intorno ai trentacinque anni, comprai la mia prima reflex semi-professionale e da lì è iniziato il mio vero e proprio percorso fotografico.



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Martina Colombari


Dove si dirige la sua fotografia?


La mia fotografia si dirige verso la ricerca dell’essenza del ritratto, sempre contestualizzato ma molto più intimo. Inoltre, sto pensando di iniziare a ritrarre anche gli uomini con la stessa identica intensità.


Se dovesse utilizzare una parola, quale riterrebbe più appropriata per definire la sua fotografia?


Una parola sola? Carnale.


Molte sue immagini sono in bianco e nero. Come giustifica questa scelta?


La scelta di produrre prevalentemente in bianco e nero deriva dal fatto che adoro la vecchia pellicola. Nonostante oggigiorno è sempre più difficile utilizzare l’analogico, ma amo editare le mie immagini con quel sapore. A livello emotivo, mi trasmettono molto di più le immagini in bianco e nero.


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Dove si sta dirigendo la fotografia attuale?


La fotografia attuale non la guardo troppo. A parte alcune eccezioni ovviamente, per me oggi la fotografia è violentata e dissacrata. Molto probabilmente ciò accade perché sta andando di pari passo con la nostra società. Non vorrei sembrare “catastrofista” o colei che è legata alla vecchia scuola, tutt’altro, ma purtroppo vedo un ambiente inflazionato e deprezzato dal suo vero valore. Abusata. Io dico spesso che la fotografia è una cosa seria.


Ci sono dei fotografi da cui si è sentita particolarmente ispirata durante il suo percorso fotografico?


Certamente. Per anni, mi sono nutrita di immagini di Helmut Newton, Dorothea Lange e Steven Meisel.


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Il corpo è il vero protagonista delle immagini di Monica Cordiviola. Esso è inevitabilmente il punto di partenza per comunicare e la fotografia è il mezzo di cui si serve per farlo. Ne deriva una visione della donna che si distanzia da quella proposta attualmente dalla società; sensualità, carattere e grande personalità risultano i caratteri peculiari delle sue donne.


http://www.monicacordiviola.com/

La fotografia di Riccardo La Valle: “una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale”

Il fotografo Riccardo La Valle nasce a Latina ma attualmente risiede a Milano. E’ conosciuto per i suoi editoriali e per le pubblicità che ha avuto modo di curare nell’ambito della moda. La sua è una fotografia fatta non soltanto di immagini, ma anche e soprattutto di parole. Ed è proprio la parola “eterea” che egli adora utilizzare per riferirsi alle proprie immagini. La pelle chiara, l’utilizzo di elementi simbolici, l’intimità e l’interiorizzazione della modella sono elementi caratteristici della sua fotografia.

Luoghi e soggetti fotografati. Nell’immagine, i corpi che lei ritrae sembrano quasi voler essere un tutt’uno con l’ambiente circostante. Ce ne può parlare?

Nel cercare l’interpretazione di un soggetto e ancora più a fondo, nel tentativo di raccontare una storia, bisogna inevitabilmente affrontare il contesto in cui si sceglierà di rappresentare la propria idea. Nel mio caso, ho deciso di far sì che l’ambiente diventi un tutt’uno con il soggetto al fine di trasportate l’interiorizzazione della modella a tutto ciò che la circonda, come se ogni cosa fosse presente e disposta per un preciso motivo. Potrei definirla una sorta di scelta pittorica. La più grande opportunità di questo percorso di rappresentazione è quella di poter connotare il soggetto con elementi simbolici, così da poter, in una certa misura, far dialogare la modella con chi osserva la foto.



Introspezione, scrittura e fotografia. Come s’incontrano nelle sue immagini?

In un contesto ormai così ampio e fuori controllo come la fotografia, l’unico modo per ripristinare un controllo sull’immagine e un contenuto nella rappresentazione è quello di far sì che le fotografie divengano rappresentazione di un concetto: un’idea che non sia una semplice visione di una scena, ma che in qualche modo sia la manifestazione tangibile di un sentire più profondo e vero. In questa maniera l’osservatore può venire trascinato in una nuova realtà. Le parole sono la base dell’immagine poiché è attraverso l’organizzazione dei pensieri che possiamo trovare nuove visioni. L’ispirazione che più mi travolge è proprio quella generata dalla scoperta di accostamenti di parole. Sono come un fiume ricolmo di immagini possibili, una musa, da cui devo solo attingere. Nelle mie immagini, trovano forma parole che ho avuto modo di scrivere in attimi che precedono la fase di scatto: anche solo per questo motivo, potrei direi che all’origine di una mia immagine vi è la parola che l’ha ispirata.

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Lei si approccia alla fotografia all’età di 21 anni. Si ritiene soddisfatto dei risultati che ha ottenuto finora?

La verità è che non potrei non esserlo, eppure sto cercando di cambiare tutto per poter nuovamente sentirmi soddisfatto come la prima volta che lo sono stato. Ciò che mi sono prefissato da quando ho scelto di trasformare la fotografia in lavoro, si è concretizzato nonostante gli imprevisti incontrati. Tutto ciò mi ha dato la convinzione che sia ancora possibile poter decidere della propria vita ed essere soddisfatti nel proprio operato. Il problema, sono i costanti nuovi stimoli che ti portano a guardare sempre più in là, e che di conseguenza ti costringono a stare in stretto contatto con l’insoddisfazione per il presente.

Ci sono dei fotografi ai quali crede di essersi ispirato?

Assolutamente, Tim Walker e Paolo Roversi, attraverso le loro opere ho potuto educare la mia immaginazione e così la mia capacità rappresentativa.

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Se dovesse rappresentare la sua attuale fotografia tramite un’immagine, quale userebbe?

Molto probabilmente sceglierei ciò che è più facile riconoscere come proprio dai miei occhi, e opterei per una delle foto in cui studio la rappresentazione del corpo: è in quelle figure piegate ed eteree, così pallide da sembrare eterne, che vado trovando profonda quiete nella loro irremovibile compostezza. Ciò che le rende così intime ai miei occhi è la sensazione di sacro che le avvolge, possiedono un fascino religioso.

Se dovesse associare una parola invece, quale indicherebbe e perché?

Etereo, perchè è ciò che cerco di rappresentare: una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale. Questa parola va al di là delle mie immagini. E’ un concetto fondante della mia percezione delle cose, un postulato della mia persona che provo ad infondere in tutto ciò che faccio.

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Le riesce più facile rappresentare le immagini che ha in testa tramite la fotografia o tramite la scrttura?

Direi attraverso le parole per quanto detto prima, ma anche per via dei miei limiti fotografici.

C’è stato mai un sogno che l’ ha ispirata fotograficamente?

Assolutamente si, ma per essere più precisi direi che quel sogno più che ispirato, mi ha proprio svelato la storia di un progetto. L’idea di base già era stata scritta, ma durante il sogno, ho potuto vedere tutte le scene svolgersi una di seguito all’altra, esattamente come fosse un film. E’ stato fortemente illuminante.

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In quale direzione va attualmente la sua fotografia?

Sto cercando di varcare la soglia del settore della fotografia artistica. E’ un processo che richiede molti sacrifici e compromessi con il presente, ma sono certo che lì potrei trovare la mia reale dimensione, nella quale potermi muovere più liberamente e iniziare così a creare le opere che ho sempre voluto.

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Ha dei progetti in cantiere? Può accennarci qualcosa?

Molti, ma preferisco non andare nel dettaglio perchè sono progetti a cui tengo molto e non vorrei snaturarli parlandone prima che siano conclusi.

Riccardo La Valle, nonostante la sua giovane età, è riuscito a costruire un proprio linguaggio. Sempre in bilico tra sogno e realtà, le sue immagini risultano agli occhi degli osservatori lievi ed eleganti. Tuttavia, egli è perennemente alla ricerca di se stesso e di un linguaggio che lo rifletta nel migliore dei modi. Non resta dunque che augurargli buon lavoro.

www.riccardolavalle.com