Van Gogh fa il giro del mondo e approda per la prima volta a Bari

Da novembre a gennaio “Van Gogh alive – the experience” animerà il teatro barese Margherita, che riapre per l’occasione grazie agli importanti lavori di restauro e riquilificazione dopo ben 35 lunghi anni di chiusura.


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La mostra è proprietà del gruppo australiano di “Grande Exhibitions” ed ha già riscosso un grossissimo successo, facendo il giro per tutto il mondo e passando da  Emirati Arabi, Pechino, Cracovia e Budapest: soltanto a Roma ha fatto battere il cuore a più di 138mila visitatori.


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A differenza delle mostre abituali, lo spettatore si ritrova completamente immerso nei grandi quadri dell’artista olandese (più di 30000 immagini) proiettata su grandi display, colonne, muri e persino i pavimenti della struttura, servendosi della più recente tecnologia.


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Il visitatore si ritroverà pertanto a passeggiare tra i celebri girasoli, la notte stellata, i campi di grano, emozionandosi e facendosi coinvolgere dalle enormi immagini e dai sensi, approcciandosi in tal modo a una nuova e originale forma di fruizione artistica.


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http://grandeexhibitions.com/

Intervista a Paolo Raeli: La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.

Paolo Raeli, giovanissimo, originario di Palermo. Le sue fotografie sono attualmente molto apprezzate in Italia e all’estero. Recentemente ha anche pubblicato un libro. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino il suo mondo, fatto di emozioni pure e momenti unici e irripetibili.  


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Chi è Paolo Raeli?


Ho provato a darmi una risposta, e davvero – so che magari sembra pretenzioso dirlo – ma qualsiasi cosa mi viene in mente svilisce quello che vorrei davvero descrivere. Certe cose sono inesplicabili. Cambio continuamente.


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Come e quando ha iniziato a fotografare?


Avevo poco meno di diciotto anni: dopo la fine del mio primo amore ho cercato di incanalare tutta l’energia che avevo dentro e che ogni giorno si moltiplicava dentro di me, convergendola in una forma d’arte. La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.


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Se dovesse associare una canzone o un album alla sua fotografia, quale sceglierebbe?


Always Returning, Brian Eno.


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Come si pone verso i soggetti ritratti?


Li amo, tutti. Passati e presenti, nell’imperfezione, nella bellezza, in ciò che li rende unici. Apprezzo chiunque mi permetta di lasciarsi immortalare. Ci vuole una forma di coraggio secondo me.


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Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?


La cura verso gli altri. Ho bisogno che tutti si sentano a loro agio. E ciò non significa che si debba necessariamente guardare in camera, o sorridere, o chissà cosa. Potresti anche piangere, ed essere comunque a tuo agio. Si tratta di qualcosa che si percepisce nell’aria.


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Cosa intende raccontare di sé attraverso la fotografia?


Citando un film di Mark Romanek: “Se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice. E qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi una fotografia.”


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Trova che la fotografia possa veramente essere un’ottima terapia per la paura di dimenticare?


Mi piace pensare che sia così. Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa, è necessario.


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Quali emozioni intende catturare attraverso i giovani che ritrae?


Cerco la spontaneità. E’ anche quella qualcosa che è difficile da spiegare, ma si riesce a percepire. Sento di dare un tocco molto personale alle mie foto: scelgo di vedere la bellezza nel mondo. Molti documentano una realtà cruda, caotica. Io amo sognare. Mi piace pensare che quando sarò vecchio potrò rivedere queste immagini e credere, forse anche ingenuamente, che tutto fosse davvero perfetto.


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Come nasce e si sviluppa l’idea di pubblicare un libro che raccolga foto e pensieri?


Da quando ne ho memoria sono solito disegnare, scrivere: coniugare queste forme è terapeutico per me. Donald Winnicott diceva che un artista è qualcuno guidato dalla tensione tra il desiderio di comunicare e il desiderio di nascondere. Non so se mi reputo un artista, ma mi sono rivisto molto in questo pensiero. Da qui è nato il bisogno di
pubblicare un libro, in cui potessi mostrare a quante più persone possibili la mia visione del mondo. Un semplice libro fotografico, fondi bianchi e date, mi è sempre sembrato troppo riduttivo.


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Quali sono i prossimi progetti in cantiere?


Regola numero uno: mai parlare dei propri progetti, a meno che non si sia riusciti a realizzarli.


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Le fotografie di Paolo Raeli incantano e fanno sognare. Sono molto di più di semplici immagini. Sono il racconto di una generazione spensierata, affannata, innamorata, mutevole, fuori controllo. Quello che traspare maggiormente nei suoi scatti è un vero, sano e profondo senso di libertà, immortalato perfettamente attraverso la delicatezza dei gesti e le espressioni dei soggetti ritratti.


https://www.paoloraeli.com/

Intervista a max&douglas: quello che ricordiamo con più affetto è stato lavorare con Ben Harper

Max&douglas sono noti nel mondo della fotografia per i loro ritratti alle celebreties, dai cantanti agli sportivi. Nonostante la giovane età, le loro immagini sono già state esposte presso la Triennale di Milano.  Il loro lavoro si contraddistingue per la voglia di sperimentare e, al tempo stesso, cogliere l’unicità che è contenuta in ogni singola persona.


 


Giovanna Mezzogiorno



 


Il vostro punto forte è senza ombra di dubbio la ritrattistica. Cosa significa per voi ritrarre una persona?


 


Significa “semplicemente” riuscire a mostrare l’idea che ci siamo fatti del soggetto. Non necessariamente coincide con l’idea che il soggetto ha di se stesso. Le persone ci attraggono, così come le loro caratteristiche: consideriamo le particolarità di ognuno come un punto di forza, come un valore che ne determina l’unicità.


 


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Donatella Rettore



 


Come riuscite a conciliare il lavoro in due?


 


Dopo 20 anni di lavoro insieme viene naturale alternarci in fase di scatto e successivamente saper riconoscere, in fase di editing, le immagini migliori. Riteniamo da sempre che il confronto è crescita e la discussione sia alla base di ogni progetto artistico.


 


Quando e come nasce la vostra collaborazione?


 


Siamo nati, come coppia artistica, realizzando fotografie in luce pennellata in grande formato (20×25). L’aiuto che potevamo darci vicendevolmente era fondamentale, non solo dal punto di vista tecnico. Con l’avvento del digitale e la relativa semplificazione del processo produttivo, la solidità della nostra collaborazione non ha sentito la necessità di una separazione.


 


Lucio Dalla
Lucio Dalla



 


C’è un aneddoto riguardante la vostra attività?


In così tanti anni gli aneddoti sono tantissimi, soprattutto per il fatto di aver lavorato molto con celebrities; diciamo che quello che ricordiamo con più affetto è stato lavorare con Ben Harper che, nonostante sia un mito di fama mondiale si è concesso totalmente alle nostre esigenze, senza paletti di tempo e senza la presenza dei personaggi che normalmente accompagnano le star. Una domenica pomeriggio, insieme, come fossimo vecchi amici.


 


 


I vostri inizi vi vedono impegnati con la fotografia di moda. Cosa vi ha indotto a impegnarvi in altri generi fotografici?


 


Non è del tutto vero. Diciamo che i nostri primi lavori pubblicitari, seppur di marchi di moda come Belfe o Romeo Gigli, sempre sono stati orientati verso una fotografia ritrattistica. Non siamo mai stati fotografi di moda, anche perché non abbiamo quella sensibilità fondamentale per poter lavorare in quel campo. Per non parlare del fatto che nella moda, salvo pochissimi nomi, i fotografi sono “di moda”: passano troppo velocemente. Abbiamo sempre puntato verso la costruzione di qualcosa di più duraturo.


 


Marco Giallini



 


In cosa vi sentite cresciuti artisticamente?


 


Sicuramente nel saper rispondere alle opportunità ritrattistiche nel minor tempo possibile. La lunga esperienza ultimamente ci sta portando a realizzare sempre meno scatti e in sempre meno tempo. Crediamo che questo possa essere un valore: esattamente come potrebbe essere un valore medico quello di un dottore che riesce a fare una diagnosi con una semplice occhiata.


 


Ci sono dei generi fotografici che preferireste non affrontare?


 


Sicuramente l’idea di chiuderci in uno studio per giorni interi nella speranza di riuscire a realizzare un bello still life ci terrorizza.


 


Potete anticiparci qualcosa dei nuovi progetti?


 


Al momento stiamo lavorando su molte cose, prima tra tutte la voglia di trasmettere la nostra visione. Non siamo per i “segreti” e non ci crediamo. Non abbiamo mai nascosto i nostri backstage o minacciato assistenti che volessero semplicemente curiosare. I nostri set sono sempre stati aperti.


 


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Stefano Accorsi



 


Quanto conta la post-produzione nella vostra attività?


 


Molto. A inizio carriera (lavorando con Polaroid 20×25) nulla. O, meglio, praticamente non esisteva ancora. Con il passaggio al digitale la presenza di una post invasiva è stato il nostro marchio di fabbrica e lo è stato per molti anni. Ultimamente è andata via via scemando, concentrandoci molto di più sull’uso delle luci ma rimane sempre presente e fondamentale, seppur molto meno percepibile.


 


Quali sono i fotografi che più ispirano la vostra fotografia?


 


Tantissimi. Tutti nomi importanti: Irving Penn, Richard Avedon, Mark Seliger, Anton Corbijn e naturalmente Annie Leibovitz. Siamo però molto affascinati e sicuramente influenzati dal lavoro di Erwin Olaf: un mito.


 


Portrait of Dolores O'Riordan photographed by Max&Douglas in Milan on march 14th, 2007
Dolores O’Riordan



 


La fotografia di max&douglas è il frutto di una ricerca senza fronzoli, una fotografia che non si avvale di segreti e che, tuttavia, cura fortemente i dettagli. E’ una fotografia silenziosa che ci invita a guardare, ammirare i soggetti ed emozionarci.


 


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Jorge Lorenzo



 

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Intervista a Manuel Bravi: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione

Manuel Bravi è un artista a tutto tondo: graphic designer, fotografo e fotoritoccatore Finite le scuole superiori, si trasferisce a Venezia dove studia grafica alla Scuola Internazionale di Grafica di Venezia; un incontro con Lorenzo Vitturi stimola l’interesse per il potenziale manipolatorio e surreale della fotografia. Dopo gli studi, inizia a lavorare a Milano per brand come Armani, Versace e Ferretti, aziende come SGP, INRETE e recentemente per il museo Mudec e Regione Lombardia. 

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Manuel Bravi: graphic designer, fotografo, fotoritoccatore. Cosa preferisci fare?

Mi piacciono tutte e tre, devo essere sincero: ognuna mi consente di gestire una parte distinta di creatività e mi dà la possibilità di rendere vario il lavoro. Questo comporta anche differenti approcci coi clienti. Per esempio, il fotoritocco ha uno scambio maggiore con il fotografo che ti ha ingaggiato: devi capire cosa ha in testa, anche se non ricalca il tuo primo approccio all’immagine, così facendo forzi un nuovo punto di vista e una nuova interpretazione.

Sul tuo profilo Facebook scrivi: “dovrei essere io, ma in realtà sono sempre schiavo di qualcuno”. Ce lo puoi spiegare?

Amaramente divertente, vero? Sono un libero professionista e molti mi ripetevano quanto fossi fortunato a non aver capi diretti. In realtà, ogni mio cliente diventa un capo, perché nei mestieri dove il “gusto personale” diventa elemento di richiesta lavorativa devi spesso cedere, e oggettivamente, molte volte sono richieste fuori da ogni regola grafica.

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Nel tuo percorso, credi che abbia avuto più peso la formazione o l’esperienza?

Entrambe sono importanti. La scuola ti fornisce i cardini su cui caratterizzarti e costruire il tuo punto di vista lavorativo. L’esperienza è fondamentale perché, a differenza della teoria, le regole non esistono; devi far fronte ad ogni tipo di problema e questo ti fa crescere e imparare il mestiere.

Ti sei approcciato prima alla fotografia o al ritocco fotografico?

Sono stato folgorato dalla post produzione fotografica durante un workshop alla Scuola Grafica. Mi piaceva giocare con Photoshop anche prima di frequentare la scuola, poi realizzai le reali applicazioni lavorative nelle pubblicità e mi dedicai maggiormente a quel ramo della grafica.

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C’è uno dei progetti che adori maggiormente? Quale e perché?

L’ultimo realizzato sugli attrezzi da lavoro di mio nonno: ho pensato di tributare il suo talento nel creare oggetti con diversi materiali, attraverso gli attrezzi che ha usato per un’intera vita. Lui ha sempre costruito tutto quello che gli serviva: da oggetti decorativi a quelli per la casa, passando per macchine industriali. E’ un artista della materia. Per questo, ho tentato di realizzare dei ritratti ai suoi attrezzi sperando che potessero prender carattere attraverso le fotografie. Devo ammettere, poi, che sono particolarmente affascinato e soddisfatto quando fotografo persone che sanno esprimersi attraverso il proprio corpo, in particolar modo i ballerini classici o contemporanei.

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Quali sono i fotografi che ti hanno ispirato sinora?

Ho una venerazione maniacale verso il mio concittadino Paolo Roversi: è stato scoprendo le sue foto che ho iniziato a studiare il lightpainting e l’equazione “luce nel buio/movimenti del corpo”. Un’altra grande ispirazione per la mente rimane Storm Thorgerson e il suo mondo parallelo visionario.

Se dovessi scegliere tra Realismo o Surrealismo, come definiresti la tua fotografia?

E’ un flusso mutevole: un tempo ero molto affascinato dal mondo surreale, sperimentavo molto di più col computer ed ero più ingenuo e immaturo; oggi mi dedico più alla realtà e alle persone, anche se ho dei cardini ben precisi che tornano spesso nelle foto: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione.

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L’ultimo progetto pubblicato s’ispira ad alcuni costumi da coniglio. Da dove ha origine?

E’ una variazione sul tema Kinky. Premetto che sono sempre stato incuriosito da quelle persone che fanno di uno “stile di vita non comune” il loro personale modo di vivere. Mi incuriosiscono e mi interessa capire il loro mondo, sia questo più o meno bizzarro. Difficilmente ho giudizi in merito e mai censuro gli eccessi. Premesse a parte, durante un evento al quale partecipavo per fare un reportage della serata, mi imbattei in questa donna che indossava una maschera da coniglio e non se la tolse per tutta la serata. Era così affascinante, misteriosa e grottesca che non potei non andare a conoscerla e chiederle di posare per me. Mentre parlavamo, lei portava una maschera e io non riuscivo ad interpretare alcuna espressione facciale. Lei per me è Bunny: una creatura dolcissima e gentile, con molte sfaccettature, che ho voluto ritrarre in un modo più fiabesco rispetto al suo solito stile. Ho mixato il caos e la bellezza dei fiori, con la parte di Bunny più gentile e femminile.

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Hai in cantiere dei nuovi progetti da realizzare?

Ho due progetti video che vorrei realizzare, riguardano la danza: le coreografie sono già state affidate, ora bisogna mischiare gli ingredienti.

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Musica e fotografia. Se dovessi scegliere una canzone come colonna sonora per le tue foto?

Sono molto legato alla musica e direi che ogni progetto o serie fotografica porta con sè una canzone o un preciso mood musicale, ma se dovessi traslare le mie fotografie in musica mi piacerebbe che venissero accostate ad Anathema, Katatonia, Porcupine Tree, Devil Doll.

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La fotografia di Manuel Bravi è una mescolanza di fascino ed eleganza. La sua attenzione è sempre delicatamente focalizzata sul soggetto ritratto, indipendentemente che esso sia una persona o un oggetto. La sua è una fotografia che vuole raccontare storie senza forzare il soggetto,  si rivela semplicemente attraverso di esso e servendosi del litghtpainting, tanto caro a Bravi.

“Il lightpainting è affascinante perché la fisica che regola ombre e luci non esiste, la sorgente luminosa cambia continuamente punto di partenza, distorcendo le forme e la percezione di queste. Inoltre, essendo il movimento proprio dei corpi incontrollabile, il risultato è totalmente imprevedibile: le forme nascoste devono essere cercate nelle ombre con attenzione, e ciò permette di entrare in intimità con l’immagine. Il fascio luminoso ha la doppia intenzione di osservare il soggetto e  illuminare il proprio io ed esperienze”.

http://www.manuelbravi.com/

GLO: ARTE E CULTURA IN UNA LOCATION D’ECCEZIONE

Torino, da sempre sinonimo di arte contemporanea, tecnologia e design, è stata scelta da British American Tobacco come prima città in Italia per il lancio di Glo, l’innovativo dispositivo che scalda il tabacco senza bruciarlo.
Prodotto dal design elegante e innovativo che ha il suo punto di forza nella semplicità d’uso.


Dal 7 al 13 di aprile Glo è stato il promotore di una Exhibition temporanea, aperta al pubblico e gratuita, nella quale sono state protagoniste le visioni di artisti e designer, con lo scopo di trasmettere il proprio personale sguardo ottimista nel futuro. Come cornice dell’Exhibition è stata scelta una dimora storica nel centro della città, il Palazzo Saluzzo Paesana, al fine di creare un contrasto tra forme classiche e installazioni contemporanee.


Noemi nella stanza Joyful
Noemi nella stanza Joyful



Il pubblico torinese è stato il cuore della mostra stessa, invitato ad immergersi nell’esperienza, ad interagire con il percorso e scoprire, stanza dopo stanza, nuovi modi per Guardare Avanti: Joyful, Liberating, Bright, Inclusive.





Fabio Troiano
Fabio Troiano



I talk hanno preso forma nella corte del Palazzo Saluzzo Paesana, allestito per la prima volta con una magnifica dome di 9 metri. Un serie di incontri con alcuni tra i maggiori protagonisti contemporanei del mondo del cinema, della musica, del design, dell’arte digitale e dei nuovi trend, i quali hanno raccontato il loro personale sguardo verso il domani.
Tra i nomi: Alessandro Borghi, Eleonora Carisi, Salvatore Aranzulla, Remidi Project.


Cristina Marino
Cristina Marino



Francesco Mandelli
Francesco Mandelli



Eleonora Carisi
Eleonora Carisi



In occasione del lancio di Glo, la Città sarà inoltre omaggiata di un’opera frutto della progettualità curiosa e macroscopica dell’artista e scultore newyorkese Kurt Perschke, noto per aver realizzato un progetto di arte pubblica itinerante, il RedBall Project (redballproject.com), che ha attraversato alcune tra le più importanti città del pianeta, da Taipei, a Sydney, fino a Chicago e Barcellona, per dieci anni, senza mai ancora fermarsi in Italia.
L’opera sarà completamente fruibile dagli spettatori, i quali avranno la possibilità di entrare all’interno del GLOBE, in un contesto inusuale, e vivere l’arte da un punto di vista centrale.
GLOBE, la nuova installazione di Perschke ispirata a Glo, sarà allestita a maggio, per la prima volta in Italia.





Special thx to Roberto Balsamo, Paola Guarneri.


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La fotografia di Maria Svarbova: il silenzio degli spazi umani

Maria Svarbova nasce nel 1988 e, attualmente, vive a Bratislava, in Slovacchia. Nonostante i suoi studi in restauro e archeologia, il suo mezzo espressivo artistico preferito è da sempre la fotografia.


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Dall’anno 2010 l’immediatezza dell’istinto fotografico di Maria continua a guadagnarsi una grande acclamazione a livello internazionale e ottenendo una rilevanza non indifferente nell’ambito della fotografia contemporanea. Oltre le innumerevoli pubblicazioni in tutto il mondo, il suo lavoro è largamente diffuso tramite gli attuali social media.


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Le sue immagini più note sono quelle al sapore di cloro, raffiguranti piscine e persone dalle sembianze molto simili a dei manichini. I colori, le pose congelate in un attimo e il sincronismo del movimento dei corpi contribuiscono a generare un’atmosfera atemporale e surreale dove domina il blu degli spazi e dell’acqua.


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Anche quando i corpi si presentano in un contesto di gruppo, i soggetti sembrano subire gli effetti di un’alienazione: indifferenti gli uni agli altri, quasi privi di qualsiasi emozione, compiono dei gesti più per abitudine che per una reale volontà o consapevolezza. Tra i progetti aventi come protagonista l’acqua, si contraddistinguono “SWIMM“, “No Diving“, “SWIMMING trynity“, “Hedda Gabler“, “SNOW POOL“.


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Maria Svarbova prende spesso ispirazione dagli spazi pubblici e da azioni quotidiane per dare sfogo a tutta la sua incredibile creatività dai toni pastello. Il risultato ottenuto converge in una piacevole sensazione di solenne silenzio, in un’era moderna in cui, oramai, siamo tristemente abituati alla frenesia e al rumore.


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L’attesa al dottore, una camminata mano nella mano, le poltrone rosse di un cinema diventano il semplice pretesto per indagare gli spazi umani con cui ogni persona si confronta quasi inconsapevolmente nel corso della propria quotidianità. L’associazione di contesti, personaggi e colori contribuisce a far insorgere nell’osservatore stupore e curiosità , in un’era in cui tutto è dato per scontato e in una società dove i “perché” scarseggiano inesorabilmente.


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http://www.mariasvarbova.com/

Intervista a Gian Paolo Barbieri: la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana

Gian Paolo Barbieri nasce nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze inerenti la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista; in seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti. Ed è proprio il cinema noir americano ad incuriosirlo sulla gestione della luce e il senso di movimento, che rende gli attori e i personaggi ancora più affascinanti e dotati d’immensa autorità. A Parigi, inoltre, assiste il celebre fotografo di Harper’s Bazaar, Tom Kublin. Le campagne commerciali di Barbieri contribuiscono a definire la moda degli anni ’80 e ’90 dei marchi più famosi: Yves Saint Laurent, Chanel, Givenchy e Vivienne Westwood, Gianni Versace, Valentino, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré.

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I suoi ritratti si differenziano per una naturale e straordinaria eleganza. Cos’è, per lei, l’eleganza?

L’eleganza si può paragonare alla bellezza. L’eleganza è cultura. I greci dicevano: “Dove nasce la bellezza nasce la cultura”. L’iconografia della bellezza si fonde sulla visione radicale della libertà. La libertà come la bellezza, non si concede, si prende. Come diceva A. Camus, “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni”. Noi abbiamo esiliato la bellezza; i greci hanno preso le armi per essa.

Tra le donne che ha ritratto vi è anche la raffinata Audrey Hepburn. Cosa ricorda di lei?

Era il 1969 quando ho fotografato Audrey Hepburn. Eravamo a Roma nello studio di Valentino per Vogue Italia. Lei era molto gioiosa, mi disse che si era appena sposata con il Dott. Andrea Dotti. E’ arrivata con delle pantofole perché così, mi disse, non avrebbe sporcato il fondale bianco. Mi ricorderò sempre della sua estrema eleganza, quell’arte che nasceva dai suoi studi di danza, prima di approdare nel teatro e nel cinema.

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Le sue immagini spiccano per un grande rigore formale. Come si pone rispetto all’errore?

Da ogni errore vedo un’opportunità, infatti, molte delle mie fotografie più belle nascono dai miei stessi errori.

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Come nasce il suo interesse per la fotografia?

Attratto dal cinema e dal teatro sono andato a Roma. Per pagarmi la pensione, facevo i test ai ragazzi di Cinecittà con la mia prima macchinetta fotografica, poi sviluppavo la pellicola. Nella pensione mi davano il permesso di usare il bagno di notte, dove stampavo le mie foto e al mattino seguente le consegnavo dopo averle posizionate sotto il letto per farle asciugare. Poi un conoscente di mio padre, Gustave Zumsteg, nonché proprietario dell’azienda Abraham di tessuti di Zurigo, mi chiese di fargli vedere le mie fotografie, anche se erano totalmente amatoriali, gliele ho fatto vedere e mi disse: “Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la moda”. Io sono rimasto allibito, non sapendo nemmeno cosa fosse la moda. Dal momento che in Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Da lì, andai a Parigi per lavorare con Tom Kublin: un’esperienza che segnò decisamente l’inizio della mia carriera come fotografo.

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Qual è l’aspetto a cui presta più attenzione mentre ritrae in particolare una donna?

Una donna deve essere estremamente femminile, non importa se presenta dei difetti poiché il più delle volte aiutano la fotogenia. Deve attrarre e sedurre chi osserva l’immagine. Lo sguardo è molto importante per me.

Creatività e fotografia di moda. Come si conciliano nei suoi lavori?

Tutte le arti influiscono sulla creatività fotografica. Una buona conoscenza della pittura, scultura ma anche cinema e letteratura, aiutano sicuramente il fotografo a conciliare la moda con la creatività. Per me non esiste la fotografia senza la propria capacità di invenzione. Molti pittori hanno influenzato la mia creatività unendola al mondo della moda come Gauguin, Michelangelo, Hockney, Holbein, Bacon e Rothko.

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L’avvento dei social quanto ha influenzato la fotografia di moda?

Completamente. La fotografia di moda, intesa come lo era qualche anno fa, non esiste più in seguito all’avvento dei social. Con essi, infatti, si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. E’ cambiato anche lo stile, non essendoci più la moda come era concepita una volta, ossia con dei temi ben precisi che la fotografia rispecchiava. Con i social oggi, ognuno fa quello che gli pare; non viene più rappresentato uno stile, un’eleganza o un modo di essere.

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Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe?

Metafore della visione.

Fotograficamente parlando, si reputa soddisfatto di ciò che ha ottenuto finora?

Mi reputo abbastanza fortunato perché la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana. Fotografare è guardare in faccia la vita e fare della propria esistenza un’opera d’arte, come citava D’Annunzio.

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Ci può accennare i suoi prossimi rendez-vous fotografici?

Sto lavorando su un nuovo progetto fotografico ispirato al poeta inglese Shakespeare, proprio in occasione della celebrazione dei 400 anni dalla sua morte. Prendo infatti ispirazione dalle più famose tragedie e dai sonetti del drammaturgo britannico, per poi trascriverle attraverso il mio occhio.
Inoltre, da quest’anno, è stata costituita la Fondazione Gian Paolo Barbieri; si tratta di un’istituzione culturale no-profit che promuove l’arte, la fotografia e ogni forma di espressione culturale nelle sue diverse realizzazioni attraverso workshop, collaborazioni con istituzioni e attività formative. (www.fondazionegianpaolobarbieri.it).

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Gian Paolo Barbieri, tramite la sua sapiente fotografia, la collaborazione a riviste di grande importanza come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania e grazie ai suoi eccellenti contributi a Vogue Italia con le campagne pubblicitarie dei marchi più noti, ha rinnovato profondamente la fotografia di moda italiana. Il senso di equilibrio, proporzione ed estrema armonia di derivazione classicistica sono il punto di forza del suo linguaggio personale e il riflesso di uno spirito di ricerca artistica, dovuto ad un’incessante curiosità. La sua Fondazione, costituita nel 2016 dallo stesso artista, è un’istituzione culturale che opera nel settore delle arti visive e che persegue finalità di promozione della figura artistica del Fondatore, delle sue opere fotografiche, dell’attività artistico-creativa nonché, più in generale, di promozione della fotografia storica e contemporanea.

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Intervista a Massimiliano Pugliese – fotografia cinematografica

Massimiliano Pugliese è nato a Roma nel 1970. Da anni, accanto al suo lavoro presso un ente pubblico, affianca l’attività fotografica sviluppando e realizzando progetti personali attraverso un linguaggio intimo. Grazie al suo stile fortemente autoriale, si è contraddistinto in occasione di vari concorsi fotografici. Nel 2015, il suo lavoro “Getting Lost Is Wonderful” è divenutoto una magnifica pubblicazione di Fugazine, una piccola etichetta indipendente di produzioni fotografiche.

Come nasce la sua passione per la fotografia? 

20 anni fa seguendo un po’ di amici appassionati. Capii subito, però, che tra noi c’erano alcune differenze sostanziali: loro erano più appassionati al mezzo in quanto conoscevano le macchine e gli obbiettivi migliori, io ero interessato solo al risultato. Di fronte ad una rivista di fotografia, loro leggevano i test di qualità, mentre io tendevo a guardarne le foto. Ancora oggi, quando qualcuno mi chiede un parere su una macchina fotografica, non riesco mai ad essere d’aiuto; la tecnologia mi interessa solo nel momento in cui la mia macchina diventa obsoleta e sono costretto a cambiarla.

Molte delle sue immagini sembrano ispirarsi al cinema. Ci sono dei film, in particolare, che hanno ispirato alcuni dei suoi progetti?

Assolutamente sì, il cinema è una grande fonte di ispirazione. Mi affascina il lavoro di registi quali Lynch e Tarkovskij tra i classici, Refn e Park Chan Wook tra i contemporanei. Se dovessi però scegliere un film direi “Lasciami entrare” del regista svedese Tomas Alfredson. Dopo averlo visto ho capito quanto per me fosse necessario lavorare su quelle che sono le mie “ossessioni”. Mi innamorai di alcune sequenze notturne del film, non riuscivo a togliermele dalla testa; allora cercai di capire dove il regista le avesse girate. Era il quartiere Blackeberg di Stoccolma. Sono stato lì varie volte ed anche a febbraio di quest’anno: è stata la mia decima volta. Da tutti questi viaggi ne è uscito solo un lavoro, ormai abbastanza vecchiotto (2011), che ho chiamato “Let the right one in”, come il titolo in inglese del film. E’ un lavoro in bianco e nero analogico, lontano dal mio stile attuale nella forma ma non nelle atmosfere. Nel mio penultimo lavoro “Getting lost is wonderful”, pubblicato come terzo numero di Fugazine, un’etichetta indipendente di produzioni fotografiche, la serie di foto è intervallata da quattro citazioni prese da film che mi hanno ispirato. Insomma sì, in un modo o nell’altro, il cinema è sempre presente.

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Ci sono dei fotografi che hanno influito particolarmente sulla sua formazione?

Sulla mia formazione non so, ma ce ne sono molti di cui sono stato e sono un grande fan. Ovviamente all’inizio i fotografi più classici e famosi, soprattutto quelli della Magnum, poi nel corso degli anni ho trovato quelli più vicini alle mie corde. Ne elenco qualcuno, ma ce ne sarebbero centinaia: Gregory Crewdson, Todd Hido, Bill Henson. Ho adorato i nudi di Mona Kuhn, i ritratti di Laura Pannack, la follia di Roger Ballen, le atmosfere di Katrin Koenning.

Le sue immagini variano dai toni più scuri a quelli più tenui. In entrambi i casi, i colori
sono funzionali all’atmosfera che desidera catturare. Qual è l’elemento a cui presta
maggiore attenzione mentre fotografa?



E’ una domanda difficile. Direi che le mie foto più che variare sono o molto scure o molto chiare, più spesso scure. Per molti, questo è dovuto al mio carattere un po’ tenebroso e crepuscolare. Io vorrei che nelle mie foto ci fosse sempre qualcosa di indefinito, un qualcosa che costringa le persone a soffermarsi un po’ di più mentre le guardano.

Untitled

Quanto conta la tecnica nella sua personale fotografia?

Vorrei contasse di più. Mi spiego meglio: ho studiato fotografia all’Istituto Superiore di fotografia di Roma, ma a quel tempo (ormai quasi 15 anni fa) ero più interessato al reportage ed ho forse trascurato cose che allora mi interessavano meno, come l’utilizzo dei flash e del banco ottico. Ora vorrei avere maggiori capacità nella gestione delle luci, perché sono più consapevole di quanto siano importanti in questo lavoro.


Come si approccia, in genere, per l’elaborazione di un progetto?

Come ho già detto i lavori che realizzo nascono dalle mie ossessioni. Quando penso e ripenso ad una cosa, capisco che è il momento di lavorarci sopra. All’inizio lavoravo sui luoghi, ad esempio le spiagge dello sbarco in Normandia, Stoccolma, una spiaggia di surfisti vicino Roma. Nel corso del tempo, sono diventato meno descrittivo e più astratto. Io mi definivo addirittura anti-narrativo, anche se recentemente, parlando con un curatore, mi è stato detto che le mie foto sono tutto fuorché non narrative. Di questa cosa, comunque, me ne curo poco soprattutto perché non sarei capace di fare una fotografia diversa: non sarei sincero con me stesso e con chi guarda.

Swedish Landscape

Crede di aver trovato il suo linguaggio personale o di esserne ancora lontano?

Peccherò un po’ di presunzione, ma credo di sì. Anzi, è una delle mie poche sicurezze. Di questo trovo conferma negli altri, spesso mi viene detto che le mie fotografie sono sempre riconoscibili. E’ il più grande complimento che mi si possa fare.

Come si pone verso l’errore?

Spesso il mio problema sta a monte dell’errore: essendo conscio di alcune carenze tecniche, a volte preferisco non scattare. Questo mi succede soprattutto nei ritratti, dove sento di dover comunque dimostrare qualcosa al soggetto fotografato. Quindi, in linea di massima, preferisco fotografare persone che conosco bene, tant’è che i soggetti delle mie foto sono quasi tutti amici che “schiavizzo” regolarmente.

Let the right one in

Dove si dirige attualmente la sua fotografia?

Spero continui nel solco di quello che ho fatto negli ultimi anni. Ogni tanto penso che dovrei cimentarmi in qualcosa di più facile comprensione, una storia più classica e dai contorni più definiti; ma come ho detto, voglio cercare di fare una fotografia più sincera possibile specialmente perché, ultimamente, di fotografia non sincera, nei testi e nelle motivazioni, ne vedo parecchia.

Cosa vorrebbe, invece, non fotografare?

Senza dubbio i matrimoni. Troppo stress!

Getting lost is wonderful 2

Le immagini di Massimiliano Pugliese, sfruttando la gamma dei toni più scuri fino a quelli più tenui, catturano delicatamente l’atmosfera dei soggetti ritratti. Il silenzio è assordante e gli osservatori lo possono ben percepire a partire da pochi elementi: le onde increspate del mare, i tronchi quasi allineati di un bosco, la vegetazione folta e solitaria in assenza di fauna. I soggetti umani sono spesso e volentieri assenti, e quando compaiono, sono ritratti di sfuggita, vaghi, e avvolti dalla bellezza della natura circostante. Lo sguardo del fotografo non è mai invadente, ma quasi impercettibile, nel pieno rispetto dei pensieri e delle loro storie personali.

http://www.massimilianopugliese.com/

Intervista a Michele Palazzi: non amo guardare immagini di guerra e sofferenza

Michele Palazzi è il giovane e talentuoso fotografo di origini romane. Nel 2015 si aggiudica l’ambito World Press Photo nella categoria Daily Life, Stories grazie ad un interessante progetto a lungo termine sull’impatto della modernizzazione in Mongolia. Attualmente, vive a Roma ed è membro dell’agenzia Contrasto.

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Nel 2015 si è aggiudicato il premio World Press Photo, attraverso un progetto a lungo termine riguardante il processo di modernizzazione in Mongolia. Cosa ha rappresentato per lei questo progetto?

I miei viaggi in Mongolia mi hanno permesso di alimentare la mia curiosità verso un mondo e uno stile di vita (quello del nomadismo) che sta scomparendo per sempre e di misurarmi con delle realtà sociali e culturali distanti da me, ma grazie alle quali sono riuscito ad apprendere molto.

Come nasce la sua passione per la fotografia? Ricorda un aneddoto?

Questa passione è andata crescendo col passare del tempo, finite le superiori ho deciso di provare a capire se la fotografia potesse essere un mezzo espressivo a me consono; negli anni ho imparato a rispettarla e ad amarla, ricevendo altrettanto indietro.

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Ci sono dei fotografi che hanno inciso particolarmente sulla sua formazione?

Ovviamente moltissimi e sono anche cambiati nel tempo: Sally Mann è stata una delle prime fotografe che ho amato, e lo rimane anche oggi.

Cosa vorrebbe ancora fotografare?

Tutto quello che ancora non ho fotografato.

C’è qualcosa che, invece, preferirebbe non fotografare?

Non lo so. Sicuramente non amo guardare immagini di guerra e di sofferenza, poiché ho forti dubbi sull’impatto positivo che queste immagini possano avere sulla società.

Come si pone verso l’errore?

La mia prima reazione è sicuramente di frustrazione, ma successivamente cerco di fare tesoro dei miei errori e di imparare il più possibile da questi. Ultimamente mi è capitato di leggere l’ultimo libro di Erik Kessels “Che Sbaglio!” ed. Phaindon dove l’errore viene affrontato come una delle principali fasi creative di un autore: senza dubbio, questo saggio mi ha aiutato a rivalutare la concezione stessa dell’errore.



C’è un aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?


Cerco sempre di trasporre mentre scatto le emozioni che mi suscita il soggetto fotografato, sia che esso sia una persona o un luogo.

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Come riesce a conciliare la libertà espressiva e la creatività con i lavori commissionati?

Cerco sempre di scindere le due cose, per i lavori commerciale cerco di soddisfare al meglio le necessità del committente, mentre per i miei progetti personali l’unico committente sono io.

Quanto hanno inciso le esperienze all’estero nella ricerca ed elaborazione di un linguaggio fotografico personale?

Non credo che le mie esperienze avute all’estero di per sé possano aver influito maggiormente di altre esperienze avute in Italia: più che il luogo, credo che siano formativi il tipo e l’importanza di un’esperienza.

Quali sono i prossimi progetti in cantiere?

Nell’ultimo anno ho lavorato in Portogallo al primo capitolo di “Finisterrae”, un progetto sulla crisi economica e sociale dell’Europa del sud. Al momento sto portando avanti il secondo capitolo in Italia: il progetto cerca di rappresentare la crisi sud-europea attraverso un linguaggio allegorico, guardando alla società contemporanea da un punto di vista soggettivo.

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Le immagini di Michele Palazzi sono dai toni decisi e trasportano inconsciamente l’osservatore nel pieno dell’atmosfera catturata dall’autore. Ne deriva pertanto un’atmosfera estremamente affascinante, capace di condurre in altri luoghi e in nuovi mondi.

http://www.michelepalazziphotographer.com/

Intervista a Luca Bortolato: tra dialoghi silenziosi e liberi pensieri

L’incontro tra Luca Bortolato e la fotografia avviene in maniera del tutto spontanea. La fotografia è, per lui, il mezzo più adeguato per esprimere ciò che egli stesso è. E’ una fotografia intima, molto simile ad un diario personale. Le sue immagini sono la sintesi elegante di sensazioni e profonde riflessioni.


Come nasce la sua passione per la fotografia?


La fotografia è capitata per caso. Cercavo un modo per parlare, una lingua per dialogare con me stesso e per me stesso. È arrivata nel 2007 grazie una concomitanza di incontri fortuiti che segnarono i miei inizi. Le Immagini c’erano già da molto prima.


Ha più volte affermato che in fotografia, ogni immagine è un autoritratto. Come vive il rapporto con la sua identità?


Di amore e odio, di demoni e meraviglie. Un percorso tortuoso, dolce e amaro. Noi siamo esattamente le nostre foto: un concetto semplice, ma difficile da accogliere.
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Come si è evoluta la sua fotografia negli anni? Cosa desidererebbe, invece, fotografare?


Non si è evoluta, è soltanto variata perché ha fin da subito cambiato i miei pensieri. Tutto ciò che vorrei fotografare è, invece, semplicemente me stesso.


Molte sue immagini trattano il tema della solitudine in chiave ironica. Com’è il suo rapporto personale con essa?


L’ironia è solo nel mio modo d’essere. È sempre una sorta di malinconia, invece, quella che ritrovo nei miei percorsi e nei miei ascolti. La solitudine, se accolta, è una coperta che coccola, costruita su dialoghi silenziosi e liberi pensieri.


6_Luca-Bortolato


Ci può parlare del progetto Mericans? Come nasce e quanto si reputa soddisfatto?


Questo lavoro si differenzia molto da tutta la mia produzione precedente: io, per primo, ne sono rimasto sorpreso. Viaggio e mi sposto molto, ma la macchina fotografica non è mai con me, semplicemente perché ho bisogno di vivere appieno quello che mi sta attorno. Il viaggio a New York è cominciato come un diario di ricordi, in un luogo in cui difficilmente sarei tornato, almeno non subito. Ho cominciato da qualcosa che già conoscevo bene: l’identità. I volti delle persone non mi hanno mai interessato, esse sono sempre state come uno specchio in cui affogare. New York è diventata, in quei giorni, un riflesso in cui guardarmi. Fin da subito mi è stato familiare ritrovare la solitudine e la malinconia, sensazioni tangibili e immediatamente riconoscibili in una città che in realtà vuole mostrare l’estremo opposto di sé. Sembra che in ogni istante essa possa offrire mille opportunità diverse per chi ci vive, per chi ci prova e per chi, come me, arriva da lontano sapendo di non fermarsi. Le persone erano lì, come a ripetere a se stesse che, alla fine, andrà tutto bene.


Il corpo femminile è spesso ritratto senza che si veda il volto. E’ un modo affinché chiunque si possa riflettere nelle sue immagini?


È un modo perché io possa riflettere con le mie immagini: tutto il mio percorso parla di me. Una costante ed estenuante ricerca delle mie molte sfaccettature, una sorta di esorcizzazione dei lati che amo e che allo stesso tempo non capisco.
È diventata così una “fotografia di accettazione”, un percorso del sé, un’auto-analisi attraverso gli altri. Le persone hanno sempre fatto da filtro, fra me e la realtà.


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Quali sono i fotografi che ammira particolarmente?


Quelli che ancora non conosco.


Se dovesse associare la sua fotografia a un libro che lo ha colpito, quale nominerebbe? Perché?


“Corpi e Anime” di Maxence Van der Meersch, letto molti anni fa e ripreso di recente. Racconta di realtà sospese e di solitudini strazianti: un non tempo di personaggi accomunati dal dolore.


2_Luca-Bortolato


C’è un progetto a cui si sente più affezionato?


Ci sono stati dei giri di boa durante il mio percorso che hanno modificato il mio approccio e il mio pensiero. C’è stato l’arrivo del colore iniziale, la consapevolezza identitaria della fotografia poi. Infine, nell’ultimo anno, si è aggiunta la consapevolezza di poter dialogare e mostrare ad altri i miei pensieri, costruendo nuove interazioni attraverso la didattica.


Quali sono i prossimi progetti o eventi fotografici in cantiere?


Ho messo nero su bianco tutto il mio percorso, l’ho sintetizzato in un laboratorio che mi sta regalando moltissime soddisfazioni. Accompagno chi vuole ascoltarmi, in una profonda riflessione su se stessi attraverso le immagini che producono. Un ottimo riscontro è stato l’essere accolto con molto entusiasmo in importanti musei e associazioni con cui continuerò a collaborare nel corso di tutto il prossimo anno, costruendo assieme percorsi didattici nei quali la fotografia consentirà di smascherarci attraverso le immagini. Un nuovo, ulteriore, giro di boa.


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Lo sguardo di Luca Bortolato sul mondo non è mai intrusivo, anche quando i soggetti ritratti sono donne. La sua fotografia si serve spesso del corpo per “documentare” l’esistenza in tutta la sua immensa complessità. Quello che più colpisce delle sue immagini è senza ombra di dubbio l’atmosfera che avvolge in maniera quasi naturale le sue donne, fragili e forti al tempo stesso; ne deriva, pertanto, una fotografia intimista, delicata, suggestiva ed intellettualmente onesta.


http://www.lucabortolato.com/

Benedetta Falugi: una fotografia di “raccoglimento”

Benedetta Falugi è una fotografa toscana che ha fatto della fotografia il suo mestiere ormai da alcuni anni. La sua formazione avviene attraverso alcuni workshop e come autodidatta.


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Tra i suoi clienti spiccano nomi ben noti come: Visa (New York), Nokia (United Kingdom), i marchi di moda Mal Familie e Noodle Park (Italia). Da tre anni, inoltre, è entrata a far parte del collettivo di street photography “Inquadra”.


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La fotografia è, per lei, innanzitutto un’esigenza, un momento di “raccoglimento” e solitudine per indagare se stessa e la realtà circostante.


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Una passeggiata diviene, così, il pretesto per scrutare luoghi, persone e oggetti su cui la fotografa fantastica e nei quali prova ad immedesimarsi, imprimendone brillantemente la storia su pellicola.


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La sua fotografia è essenzialmente dettata dall’istinto, dove le emozioni scaturite dalle immagini s’incontrano con la voglia di esercitare incessantemente la capacità di osservazione. Lo sguardo di Benedetta sul mondo è quasi infantile, alla ricerca di colori e dettagli, in cui perdersi e ritrovarsi contemporaneamente.


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L’elemento ricorrente nelle sue foto è senza ombra di dubbio il mare, che le fa da compagna nei suoi momenti di solitudine e ricerca. La solitudine che traspare dal suo punto di vista non è mai sofferta, ma è anzi l’occasione di un momento creativo con il quale cullarsi serenamente.


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https://www.benedettafalugi.com