History or myth has it that in 1947 American physicist Edwin Land on vacation with his three year old daughter invented the polaroid camera to fulfill the child’s request: to immediately see the photos just taken by her father. With the lightness of a summer whim and the depth of a silted-up blue, Peppe Tortora’s polaroids are true visual therefore emotional impressions. When they move the waters of the sea, the cat’s tail or crooked slopes, they actually uncover landscapes. like instantaneous excavations, an archaeology of the gesture that forgets itself and takes the viewer to the origins of the subject. The important thing they seem to tell us – is to enter the instant, to tear it apart, to flash, to polarize the self, to became light. He keeps on looking.
Se la cultura è un bene di tutti, ora più che mai i paesi si uniscono per dire che è anche accessibile a tutti.
Causa emergenza COVID-19, anche i Musei e i luoghi di culto hanno chiuso le porte ma non l’accesso virtuale; la cosa bella è che comodamente sdraiati sul divano di casa, possiamo prendere un aereo immaginario e volare fino a New York o a San Pietroburgo per visitare il MOMA e l’Hermitage. Niente code, nessuna folla davanti ai quadri, niente commenti sciocchi alle vostre spalle: “Oh bello, Oh meraviglioso, Oh cos’è sta roba?!”… Potrete goderveli e studiarveli dimenticandovi del tempo, soffermarvi sui dettagli quanto vorrete, esplorare le opere d’arte ad alta definizione, camminare verso le stanze vuote.
Qui alcuni tra i musei nazionali e internazionali che offrono il servizio online e altri su cui potrete finalmente dedicare il vostro tempo ad imparare l’arte, e a metterla da parte.
1. MUSEO DEL PRADO
Una delle opere più significative dell’arte figurativa europea è il “Saturno che divora i figli” di Francisco Goya (1821-23), conservato al Museo del Prado di Madrid. Secondo la mitologia greca Crono, il più giovane dei Titani, il protagonista del dipinto, sapeva che sarebbe stato privato del potere da uno dei suoi figli, cosicche’, preso dalla rabbia, iniziò a divorarli tutti uno ad uno. La foga, la pazzia, il cannibalismo di Crono è in netto contrasto con la debolezza del piccolo corpo deturpato e sanguinolento; il piccolo non può nulla contro l’esplosione cieca della violenza. E’ un’opera cruda di una ferocia che si legge sulle mani dure e nervose di Saturno che non allenta la preda di quel corpicino innocente. Immerso nel buio più nero, la scena potrebbe significare il conflitto tra vecchiaia e gioventù, oppure il ritorno di un assolutismo in Spagna che limitava ogni forma di libertà intellettuale.
Mai quadro fu così adatto a dare speranza agli italiani come il famoso Bacio di Francesco Hayez. Un inno alla gioia, un simbolo di speranza e di patriottismo, il quadro icona della Pinacoteca di Brera. Il capolavoro più copiato e ristampato nella storia, è stato realizzato nel 1859 e ripercorre i fatti nel periodo in cui l’Italia venne suddivisa in tanti piccoli stati sotto il dominio degli Asburgo d’Austria. Periodo nel quale gli italiani, uniti nonostante la divisione, crearono dei gruppi, delle piccole società segrete che avevano lo scopo di restituire dignità al paese. Mi sembra ci sia una forte attinenza col periodo che stiamo vivendo. Un popolo che canta l’inno di Mameli in questi giorni di reclusione forzata, un popolo che si abbraccia da lontano, che col canto e con la musica regala speranza e la voglia di farcela, nonostante tutto.
“Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet riprende una serie di ponti che l’artista si accingeva a dipingere in diverse ore del giorno. La luce, questa era la migliore amica di un grande pittore, per conoscerla, per riconoscerla, bisognava studiarla notte e dì, quando era calda di Sole o fredda di Luna. Il ponte da lui stesso costruito nei giardini della sua abitazione, taglia a metà la ricca vegetazione che da un lato si erge verso il cielo e dall’altro si specchia nelle acque. Quei dolci e sussurranti fiorellini che sono ninfee dai toni pastello, ricordano tanto i giardini giapponesi e le sue rappresentazioni. In un morbido letto di verde, spuntano come piccole vite capaci di donare gioia e speranza.
7. LE GALLERIE DEGLI UFFIZI – GIARDINO DEI BOBOLI – FIRENZE
Chi ha avuto la fortuna di vagare attraverso il Giardino dei Boboli sa che un tour viruale non potrà regalare la stessa sensazione di immersione totale in un mondo astratto e ovattato.
Lo visitai per la prima volta dodici anni fa, di fronte a Palazzo Pitti esisteva ancora un Internet Point, dove mi recai per aggiornare il mio stato Facebook e raccontare del mio viaggio in solitaria a Firenze. Uno dei ragazzi del negozio mi si avvicinò e mi dette un consiglio molto prezioso, e cioè quello di non attraversare il percorso visibile dei Giardini, quello a linea retta tagliato al centro dai gradoni, ma di prendere le vie laterali e immergermi totalmente nel verde. Lo ascoltai e se potessi rintracciarlo lo ringrazierei perchè quella passeggiata nell’arte mi ha regalato non poche emozioni.
Il Viale dei Cipressi è un tunnel di arbusti fitto fitto che parte da terra e si riunisce sopra la tua testa; in piena estate creava un nido buio e silenzioso che mi proteggeva dal brusìo e dal cicaleccio dei turisti; ed erano tanti. D’improvviso, nel fruscìo delicato dalle foglie mosse da qualche animaletto indiscreto, vidi comparire dietro di me un gatto, nero, che mi fissava immobile. Non appena riprendevo a camminare, lui da dietro mi seguiva, in modo felpato, per poi rifermarsi quando dalle spalle gli mostravo il volto. Non ho mai capito cosa significasse quella strana presenza, in certi casi le domande non servono e le risposte non le vogliamo, ma so una cosa: so che quell’esperienza diede vita ad una lunga serie di viaggi in solitudine di cui rimangono un bellissimo diario, e una foto di me in lacrime con quel misterioso gatto dagli occhi gialli e il pelo nero.
Su Google Arts & Culture esiste uno strambo video che rappresenta il quadro di Pieter Bruegell il Vecchio datato 1562, la “Caduta degli angeli ribelli”, una realtà aumentata che ci porta faccia a faccia con i mostri più mostri della storia della pittura. Il quadro racconta un episodio biblico, la caduta degli angeli che si sono ribellati a Dio per sete di potere, uno scivolone lento e indimenticabile in cui dall’alto vediamo gli angeli che suonano il trionfo, biondi come fanciulli, degli uccelli del Paradiso, dei putti vestiti e senza vizio. Al centro l’Arcangelo Michele che combatte il drago dell’Apocalisse a sette teste; e verso il basso delle diapositive precise e dettagliate dei mostri di fattura Boschiana. Sono metà pesci e metà volatili; hanno il ventre squarciato a mostrare uova già marce; sono giganteschi e sproporzionati insetti; gli orifizi in mostra e le bocce avide e dai denti appuntiti e radi. E’ una scena spaventosa che rappresenta la fede da una parte e l’avidità dall’altra.
Il quadro è custodito presso il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio
E’ un viaggio immaginario attraverso il deserto del Sahara; nelle esotiche giungle dove, elegantissime e silenziose, si aggirano le tigri; tra gli sfarzi luminosi e impegnati dell’oro ai tempi greco-romani; nei villaggi beduini; tra i colori africani con i suoi accessori bizzarri; la mostra di Maison ARTC durante il White di Milano è stata la più straordinaria e d’ispirazione di tutta la settimana della moda.
Un’installazione /percorso negli spazi di Tortona 27, dentro cui scoprire culture, usanze, abitudini di popoli vicini e lontani, raccontati e reinterpretati dall’artista Artsi Ifrach.
Lo stilista nato a Gerusalemme e fondatore del brand Maison ARTC, utilizza la sua memoria per creare abiti nuovi da pezzi di stoffa vintage; il passato si fonde col presente e lo rende carico di storia e di vissuto. Tutto, nell’espressione dell’abito, traspare dalla multiculturalità delle esperienze personali: Artsi Ifrach infatti si sposta da Tel Aviv a Parigi, da Amsterdam a Marrakech, dove attualmente risiede.
Totalmente “costruiti” a mano, gli abiti sono accompagnati da immagini che completano la mostra fotografica, visioni surrealiste che tanto ricordano il sodalizio Salvador Dalì – Elsa Schiaparelli, con quei guanti dalle unghie pittate di rosso che la Marchesa Casati indossò, seppur in estrema povertà, fino alla fine dei suoi giorni.
Gli spazi delle immagini sono immensi, il protagonista è l’abito che prende vita e diventa animato, come se l’animo del tessuto raccontasse tutte le sue storie passate, dai viaggi in treno passando per paesi stranieri per arrivare a noi sotto una forma nuova, con un messaggio nuovo. Ed è un messaggio di forza e speranza, di responsabilità e sensatezza, perché la fashion house marocchina lavora con materiali di recupero ed è sempre all’insegna della sostenibilità.
Non c’è nessuna corsa alla novità a tutti i costi, nessuno spintone, nessun sensazionalismo, Alberta Ferretti è come quel saggio che sente, passati gli anni più difficili, di non dover dimostrare nulla a nessuno, a cui è rimasto solo il desiderio di dire la verità.
La collezione autunno inverno 2020/21 propone lo stesso codice di serietà e modernità e attualità che sono la firma del brand. Un tono su tono che parte dal capospalla e arriva fino alla stivale, arricciato, ripreso nello stesso colore e materiale del look.
L’attitude è quella di una donna forte della sua femminilità, che le permette di indossare abiti di taglio maschile: le giacche over, le spalline importanti, i pantaloni a vita alta con le pences, i tailleur dal taglio classico.
Muliebri e delicati i dettagli: i colletti che ricordano una gorgiera, le ruches, gli orecchini che seguono le forme ondeggianti degli abiti, i maxi fiocchi alla collegiale, la trasparenza dei pizzi.
Capo icona la jumpsuite in denim con cerniere profilate dorate; parola chiave “frange”, ma soprattutto “coerenza” e nessuna sottomissione mediatica, perchè l’eleganza è saper fare silenzio quando gli altri fanno rumore.
Gabriele Villani , classe 1990, vive a Taranto, dove è tornato dopo gli studi a Roma dove ha frequentato il D.A.M.S.. Comincia a dipingere durante il liceo artistico, la sua formazione si amplia durante il periodo universitario nel campo della cinematografia e della scrittura.
Illustratore, disegnatore, appassionato di fumetti e da sempre interessato a spaziare nel campo dell’arte, dal 2016 è ideatore di “Coma Empirico”.
Quando ha iniziato a disegnare?
Ho iniziato a disegnare da bambino, molto piccolo, mio padre mi comprava i fumetti di Batman, Superman e Topolino e io cercavo di ricopiarli.
Ricorda un aneddoto?
Mi piaceva disegnare sui muri, ma ero troppo piccolo e venivano fuori degli scarabocchi. Dicevo di voler diventare da grande un artista “pazzo”.
Il disegno lo ha portato anche alla pubblicazione di un libro. Come è nata l’idea?
E’ nata prima l’idea di creare un personaggio, da questa poi quella di creare una pagina sui social per assecondare il bisogno di condividere alcuni dei miei pensieri. Non mi aspettavo di poter avere tanto seguito ma la cosa è andata avanti, sono nati altri personaggi e sono arrivate le prime proposte dalle case editrici. Quando mi sono sentito pronto ho raccolto alcuni dei miei lavori, ho aggiunto degli inediti ed è nato il primo libro “Tutta la notte del mondo”, edito da BeccoGiallo.
I suoi disegni sono introspettivi, quasi esistenzialisti. Qual è l’idea che prova a rappresentare meglio?
In realtà non mi prefiggo nulla, ogni vignetta parte da uno stato emotivo, lascio molto spazio all’istinto e poco alla ragione nella scelta del tema, cercando di sentirmi il più libero possibile. Una volta che affiora l’idea, il passo successivo è cercare di trovare la maniera più diretta e semplice per esprimerla.
Nel disegno si mescola humor (molto sottile) e malinconia. Come si conciliano nel suo mondo?
Si conciliano nella costruzione di uno stile che risponde alle mie esigenze. Cerco di affinare il mio gusto personale e usarlo come metro di giudizio principale. Ciò che mi piace poi finisce con avere una certa coerenza, nonostante i temi che tratto siano spesso molto distanti fra loro.
Qual è l’aspetto che cura maggiormente mentre disegna?
La chiarezza, la semplicità del tratto. Cerco di esprimermi in maniera diretta anche nel disegno, la parte difficile è comunque riuscire a tenere aperta la porta a varie interpretazioni. Mi piacciono i contrasti e le ombre.
Crede che il cinema abbia influenzato le sue immagini?
Sì, il cinema come la musica e la letteratura, ma non solo, tutto ciò che mi colpisce mi influenza.
Sente di aver trovato il proprio stile?
Credo di aver trovato un principio di stile, ma forse ho ancora bisogno di affinarlo.
I social la influenzano, in parte, in ciò che intende trasmettere?
I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti. Quello che scrivo e che disegno è sempre una condivisione onesta di quello che penso e sento.
Che musica ascolta mentre disegna?
Ogni periodo ha una sua colonna sonora, poi ovviamente ci sono gli artisti che mi accompagnano sempre, uno su tutti Bob Dylan.
Nuovi progetti in cantiere?
Sì, tanti progetti: uno di questi sicuramente è un secondo libro, non una raccolta ma una storia.
Le vignette di Coma Empirico esprimono riflessioni e affanni generazionali, propri di chi è alla ricerca di un posto nel mondo. Ricche di spunti esistenzialisti, sono divenute in pochissimo tempo virali nei social, conservando tuttavia quell’onestà intellettuale tipica di chi ha qualcosa di sincero da raccontare.
Helmut Neustädter, il vero cognome del corrispettivo inglese Newton, nasce a Berlino il 31 ottobre del 1920.
All’età di solo otto anni, il fratello lo accompagna ad un quartiere a luci rosse dove lavora anche la nota Red Erna. La frequentazione di questi ambienti degradati segnerà profondamente la visione di Helmut e la sua passione fotografica.
Gli inizi fotografici risalgono, in particolare, al 1961 quando si trasferisce a Parigi e ha la fortuna di collaborare per French Vogue. I suoi scatti faranno in breve il giro di tutto il mondo, affascinando per il loro grande potere provocatorio per l’epoca. Collaborerà, inoltre, con le riviste di moda più importanti di sempre.
Fin da subito, dimostra un interesse per le donne: alte, slanciate, spesso sui tacchi alti, forti, sicure di sé e del proprio corpo. Il corpo femminile è catturato dal suo sguardo in pose provocatorie, ma al tempo stesso estremamente eleganti. Helmut è il primo fotografo a introdurre il nudo nel mondo della moda, non senza polemiche.
Immediatamente, ci prese gusto a costruire intorno a sé l’immagine di colui che intende provocare. Lo spettatore diviene, pertanto, un voyeur involontario intento a spiare centimetri di pelle scoperta di modelle e donne note. A distanza di anni, Helmut resta uno dei fotografi più noti e interessanti, continuando a incantare e ad essere emulato.
Nonostante ciò, egli resta unico nel suo genere: ogni singolo scatto continua incessantemente a coinvolgere, a raccontare e a sprigionare tensione erotica, anche in un mondo dove il nudo è a portata di mano e la capacità immaginativa scarseggia.
Kourtney Roy è una giovane fotografa di origini canadesi, nota soprattutto per gli autoritratti che la ritraggono in travestimenti e situazioni sempre differenti. Interpretando stereotipi, spesso e volentieri dal gusto retro, in realtà non fa altro che distruggerli. Nelle immagini della Roy, tutto diviene magicamente altro, in una compenetrazione di realtà e illusione, quotidianità e alienazione, esistenza e fotografia.
Qual è la sua idea di Fotografia?
Non ho un’idea di Fotografia. Semplicemente esiste e non dipende dalla mia soggettiva visione di essa.
Quando ha iniziato a fotografare?
Ho iniziato a praticare la fotografia mentre frequentavo gli studi d’arte, quando ho cambiato laurea da “general fine arts” a “media studies”. Fino ad allora avevo fatto qualcosa a livello amatoriale, ho iniziato a fotografare seriamente solo dopo un corso extra.
Esiste una relazione tra la sua fotografia personale e il cinema?
Decisamente. Ho scoperto il cinema un po’ tardi. La gente spesso guardava i miei lavori e veniva a dirmi: “Quest’immagine mi ricorda questo film”, oppure “Mi ricorda l’universo cinematografico di questo regista”. Mi hanno incuriosita e ho iniziato, in questo modo, a guardare film.
Quali sono i suoi registi preferiti?
E’ sempre una domanda difficile a cui rispondere. Ce ne sono così tanti e la lista continua a crescere incessantemente, così come si affievolisce e scorre. Werner Herzog, Andrea Arnold, Jane Campion, Jean Pierre Melville, Nicolas Winding Refn, Early Spielberg, Douglas Sirk, Debra Granik. Ci sono anche tantissimi film che sicuramente non rintrano nella categoria dei registi preferiti: Animal Kingdom di David Michôd, Donnie Darko di Richard Kelly , Blade Runner di Ridley Scott , Wisconsin Death Trip di James Marsh, Don’t Look Know di Nicolas Roeg. Insomma, è realmente complicato tracciare una mappa di influenze e ammirazioni.
Come vive la sua relazione con l’Autoritratto?
L’Autoritratto mi permette di vivere nei mondi che io fotografo. Fotografarli non è sufficiente, io voglio assolutamente vivere vite parallele attraverso il mio lavoro.
Cosa può dirci riguardo gli ultimi progetti o lavori?
Ora, per oltre un anno, sto lavorando su un progetto in Canada su un’autostrada che registra un numero eccessivo di donne che sono sparite o uccise su di essa. Trascorro il mio tempo guidando sull’autostrada, dormendo in vecchi hotel e incontrando gente.
La sua fotografia è un’esplosione di colori. C’è un motivo?
Il mondo è a colori, ed è semplicemente stupendo, voglio mostrarlo nei miei lavori.
Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.
Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?
Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.
Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?
Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.
Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?
Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.
Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?
La malinconia. La trovo poetica.
Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?
Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.
Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?
In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.
Quale parola assocerebbe alle sue immagini?
Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.
Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?
Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.
Cosa preferirebbe non fotografare?
Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.
Come affronta i periodi di calo creativo?
Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.
Il milanese Fabio Vittorelli si contraddistingue straordinariamente per la capacità di catturare la magia della e nella quotidianità, con grande spontaneità. L’osservatore si stupisce tramite gli occhi del fotografo, non molto differenti da quelli infantili, e viene improvvisamente catapultato in un mondo non estraneo ma filtrato in maniera creativa. Il soggetto, pur appartenendo alla realtà, viene ritratto attraverso un punto di vista poco comune, scaturendo di conseguenza emozioni naturali ed estremamente umane.
Come nasce la sua passione per la fotografia?
Fin da giovane, ancora adolescente, con una macchina fotografica allora analogica. Da allora la passione è rimasta, raggiungendo poi una diversa intensità nei vari anni.
Le è capitato di fotografare in più parti del mondo. C’è una zona a cui è più legato?
Direi di no. In ogni luogo, cerco di rappresentare il mondo con cui interagisco. I contesti urbani, comunque, sono quelli che mi attraggono maggiormente.
Quale crede che sia il filo conduttore di tutte le sue immagini?
Negli anni è progressivamente mutato il mio approccio con la fotografia. Ho iniziato con fotografie prevalentemente di architettura, poi mi sono avvicinato di più alle persone, che hanno iniziato a popolare le mie fotografie. Attualmente, le persone sono al centro di quasi tutti i miei scatti.
Come si pone verso i soggetti ritratti per strada?
Cerco sempre di raccontare una loro storia, quello che vivono in quel momento, almeno, per come io lo percepisco. E’ un esercizio umano molto interessante: spesso non riesco a scattare nessuna foto, ma ho avuto lo stesso modo di vivere una parte della loro vita, dei loro pensieri. Bisogna imparare prima a stare in mezzo alla gente, nel modo più discreto possibile; la fotografia viene dopo. Credo anche che la fotografia di strada contenga una parte di magia. Il fotografo di strada può solo intuire una certa situazione, ma non può determinarla. Certe volte basta un attimo, altre volte, anche una lunga attesa può non portare a nessun risultato valido.
Come definirebbe la Fotografia?
Credo che questa definizione di Neil Leifer possa rispondere a questa domanda: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”
Qual è la sua idea di “buona fotografia”?
Una fotografia che esprima una sua verità, anche se parziale, la verità del fotografo e/o quella del soggetto fotografato: una fotografia che ci lascia dentro qualcosa è una buona fotografia.
Come riconosce se una sua immagine è valida?
Faccio ancora molta fatica a essere critico con quello che scatto, ho spesso bisogno di qualche parere esterno oppure di far trascorrere del tempo, per avere un coinvolgimento diverso. E poi ci sono delle fotografie che sono valide per me e non lo sono per altri: ma forse questo è un lato positivo.
Quali sono le differenze che incontra tra il fotografare per strada e ritrarre corpi femminili nudi?
Il passaggio più recente, ai ritratti e al nudo, è stato il passo successivo dello stesso percorso: ho cercato di entrare sempre di più in relazione con il soggetto fotografato, ma non in modo casuale come avviene nella street photography, ma in modo concordato, programmato, studiato. Questa è la mia fase di studio attuale, anche se la mia natura principale è sempre quella della foto di strada. Mi sono già reso conto, però, che questa fase attuale mi sta insegnando molto: mi rendo conto che questo esercizio mi è molto utile, anche nella fotografia di strada, che paradossalmente è molto diversa. Forse sto imparando un nuovo modo di interazione.
Cosa ne pensa dell’attuale diffusione della fotografia come forma espressiva?
Siamo sottoposti quotidianamente a un grandissimo flusso d immagini, spesso però del tutto omologate fra loro. E’ positivo però che tutti ormai possano fotografare e condividere i loro scatti: la tecnologia ci ha fornito strumenti che anni fa non esistevano.
Ci sono fotografi o registi che lo hanno ispirato?
Ci sono molti elementi che mi ispirano, è difficile dirlo. Una scena particolare di un film che magari rivedo molte volte, oppure uno spot pubblicitario particolarmente riuscito, un video su youtube, un quadro magari sconosciuto visto per caso in una mostra. Un po’ come nella street photography, ogni tanto il mio occhio cade su un soggetto o su di una situazione che sento in sintonia con qualcosa dentro di me. In ogni caso incidono sicuramente la pittura, fotografia e i film che vedo, ma anche i viaggi sono fonte di ispirazione.
Angelo Ferrillo nasce a Napoli nel ‘74 dove intraprende gli studi di Ingegneria e si avvicina alla fotografia, formandosi da autodidatta. Attualmente si occupa di fotogiornalismo e di fotografia corporate, è photoeditor e docente di fotografia presso lo IED Milano, OFFICINE FOTOGRAFICHE Milano, CREATIVE CAMPUS Milano e FOWA University. Conosciuto al pubblico per la street photography e per i reportage, collabora attivamente con editori nazionali ed internazionali e con brand leader mondiali dell’urban style progettando e sviluppando immagini di social adv e brand comunication. E’, tra l’altro, membro del Direttivo AFIP International.
Come e quando nasce la tua passione per la fotografia?
Non di certo quando mi hanno regalato la mia prima macchina fotografica. Un anno dopo circa. Quando mio padre per il mio diciassettesimo compleanno mi comprò una polaroid non rimasi proprio del tutto entusiasta. Poi iniziai a giocarci dopo quasi un anno e da li tutto in discesa.
Cos’è per te la fotografia?
Il modo migliore che ho di esprimere me stesso. Sembra una di quelle frasi da baci perugina, ma la realtà delle cose è quella. Per me, ma anche per tutti quei fotografi che si ritengono tali.
Cosa consiglieresti a chi vuole ottenere buone immagini?
Innanzitutto di abbandonare quella idea del sentimento. Quando si producono immagini (che una volta stampate diventano fotografie) si innesca un meccanismo per cui il tecnicismo prende il sopravvento sulla percezione sentimentale. Rendersi conto che una immagine prima di essere bella deve essere buona. Deve cioè raggiungere lo scopo per cui è nata: solo in quel momento si cortocircuita con i fruitori dei propri lavori
C’è un aspetto che curi particolarmente quando fotografi?
Quello che succede. Mi deve catturare quello che sta succedendo. Percepibile o impercepibile. Non importa che sia sensazionale per tutti, ma deve attrarre in primis la mia attenzione. Credo debba essere fondamentale per la produzione di tutti. Se sono in fase di sviluppo progettuale porto tutti i tasselli al posto giusto, lasciando al caso solo la produzione dell’immagine finale. È l’unico modo che ho per rendere meno statico quello che vedo.
Come ti poni verso i soggetti fotografati? Interagisci o preferisci catturare soltanto l’immagine che hai nella mente?
Difficilmente interagisco con i miei soggetti. Non mi interessa il loro racconto. Dopotutto dalle mie immagini non si saprà mai chi sono, ma solo chi sono in quel momento per me. Nel caso in cui succeda deve succedere dopo. Mai prima. Se succede prima è perché le sto ritraendo e siamo in un ambito differente.
Come concili il fotogiornalismo con l’attività del docente?
Facilmente. Non faccio cronaca, quindi scegliendo le mie storie, gli approfondimenti, la progettazione, le partenze e tutto quanto, non influisce su tempistiche di calendario. Molte volte capita che progetti vengano sviluppati in viaggio/studio e quindi convivono anche nello stesso momento.
Può una fotografia non essere autobiografica?
Assolutamente sì, se si produce senza essere fotografi. Il percorso personale è un progetto a lungo termine che ti porta ad essere le tue immagini. Nel momento in cui non ci sei tu (e succede) è semplicemente perché il tuo percorso formativo (non mi riferisco all’accademico) è ancora incompleto.
Qual è la difficoltà che incontri maggiormente nell’insegnare fotografia?
Riuscire a far capire che la fotografia è stomaco non cuore. La conoscenza è obbligatoria, ma il percorso poi deve evolversi e distribuirsi sulla propria pelle facendo leva su quello che si ritiene opportuno per la propria formazione e cosa invece va scartato. Ciò ci fa essere differenti l’uno dall’altro. Ecco, forse le regole accademiche sono difficili da abbandonare da parte dei miei allievi. Me ne accorgo quando di fronte a me ci sono alunni che non hanno una struttura conoscitiva della fotografia molto radicata. Faccio meno fatica. Molto meno.
Qual è il tuo atteggiamento verso l’errore?
L’errore fotografico a volte diventa la cosa giusta. Tutto quello che non puoi gestire è il tempo e quello che sarà l’evento. Puoi cercare di prevederlo, ma non saprai mai se sarà così. L’ho imparato a mie spese con una fotografia realizzata a Berlino, dove ho imprecato per un’ora nei confronti di una bambina che mi ha inquinato la scena. Col senno di poi, quella bambina l’ha resa migliore.
È mai successo che una persona, per strada, si sia infastidita dagli scatti?
Succede. Ma lo spirito di solito è quello di avere un atteggiamento positivo. Sapere cosa dire, sorridere sempre, essere accondiscendente e portare il soggetto nel proprio spazio aiuta. Quando dicono “non puoi” ho il dovere di far capire che non si tratta di una cosa vietata, ma al massimo di una cosa che il soggetto non vuole.
La fotografia di Angelo Ferrillo spicca indubbiamente per la ricerca di un punto di vista inusuale, proprio, creativo. Al tempo stesso, è solo la porzione di una realtà che, spesso e volentieri, ha molta più fantasia di noi.
Se oggi fosse in vita, il riminese Marco Pesaresi sarebbe sicuramente uno dei fotografi italiani contemporanei più abili. “La mia fotografia prende corpo – nasce – da tradizioni contadine, di campagna; e si sviluppa nella poesia del mare d’inverno; accompagnandosi a immagini di libertà, di emancipazione, di trasgressione nella notte. Però, comunque, nasce dalla campagna. Io amo questa terra, la amo con tutto il cuore. Ne amo i luoghi, mi piacciono i luoghi. E poi mi piace tantissimo – questa terra – perché muta in continuazione. Nulla è mai uguale all’anno precedente, tutto è in evoluzione continua. Più soffro e più mi affanno nella ricerca della poesia. Più sento che dentro di me vivo situazioni di disturbo, difficili – cose che purtroppo nella mia vita continuamente incontro – più il mio sguardo si addolcisce. E più cerca la serenità l’armonia delle immagini. E qualche volta le trova.” Con queste parole Marco parlava del suo amore per la sua terra, Rimini, alla quale dedicò anche il suo ultimo lavoro, e al tempo stesso per la poesia, tanto ricercata e altrettanto sofferta.
THE SUBWAY: TIMES SQUARE. A YOUNG COUPLE KISSING. LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.
Marco era infatti attratto dall’umanità, in tutta la sua complessità. Non a caso avvertiva l’esigenza di scavare nelle problematiche sociali e nell’inferno personale degli altri per provare a sentire di meno il proprio. “Underground” è il titolo del suo progetto, forse il più riuscito, dedicato alla gente incontrata casualmente per le metropolitane delle più grandi città. E’ difatti il dipinto di grande impatto visivo della vita, un dipinto onesto, commosso, colorato. La sua fotografia è il riflesso di una sensibilità estrema , sia artistica che umana. E’ una fotografia irrequieta, una ricerca di serenità attraverso i propri occhi e la vita degli altri. E’ un amore intenso, che si scaglia forte e s’imprime con naturalezza sulla pellicola.
La giornalista Renata Ferri ha parlato dell’amore di Marco per la fotografia, in questi termini: “Per fortuna c’era la sua Rimini, dove tornava e dove tutto quel male del mondo diventava malinconia. Come un poeta, sapeva trasformare le sue affollate visioni del mondo in spazio, cielo, mare, terra delle origini e profumi portati dal vento. La sua fotografia si trasformava, toglieva il colore e restituiva solo poesia. Non più periferie dell’umanità e volti di mille razze, ma silenzio e distese, dove lo sguardo, il suo e il nostro, può essere infinito. Marco amava e odiava tutto quello che aveva con violenta intensità. So per certo che la fotografia è stata la stagione più bella della sua vita e siccome so che è stata una stagione lunghissima, credo abbia vissuto, dannato ed errante, intenso e visionario, l’unica vita possibile.” La fotografia è stata per Marco una valvola di sfogo, il mezzo di cui si è servito per incanalare le proprie visioni e quell’irrequietezza che tanto lo faceva soffrire.
Marco ha cessato di vivere nel 2001 gettandosi con la macchina nel porto di Rimini, nel mare della terra che aveva spesso fotografato con una vena malinconica. Nonostante la morte fisica, il suo punto di vista, così intenso e bramoso di poesia, continua a scorrere con maggiore intensità affascinando, emozionando e continuando a suscitare grande ammirazione. Dopo aver amato per tanto tempo la gente, ora è la gente ad amarlo intensamente. Tutto ciò è possibile anche grazie all’amore e alla sensibilità della madre Isa, che si prende cura della conservazione e della diffusione dell’archivio fotografico del figlio.