Spegne oggi 71 candeline Debbie Harry, celebre frontwoman dei “Blondie” ed indimenticabile icona di stile. Zigomi alti, capelli biondi, fisico statuario e sex appeal da vendere, la cantante statunitense ha incarnato lo stile degli anni Settanta ed Ottanta, sdoganando in particolare lo stile punk.
Un’infanzia travagliata per Angela Tremble: questo il nome con cui la madre biologica la abbandona; poi la piccola, nata a Miami il primo luglio 1945, viene adottata dai coniugi Richard e Catherine Harry, originari del New Jersey, e viene ribattezzata Deborah Ann Harry.
Appena ventenne, la bellissima Deborah vola a New York, dove lavora come estetista, modella e coniglietta di Playboy. Avvenente e dotata di una notevole estensione vocale, entra nel gruppo “Wind in the Willows” e nelle “Stilettoes”. Tra succinti abiti scuri e croci al collo, diviene antesignana dello stile punk. Nel 1974 insieme al compagno Christopher Stein fonda i “Blondie”. Performer carismatica ed eclettica, Debbie Harry colleziona album di successo insieme alla celebre band newyorkese: indimenticabili le hit “Heart of glass”, “Atomic”, “Call Me”, “Maria”.
Caschetto biondo platino e rossetto rosso, Debbie Harry diviene icona della musica e della moda, lavora come attrice e viene immortalata sulle maggiori riviste patinate. Alta appena un metro e sessanta, le curve e il carisma la sdoganano come un sex symbol internazionale. Immortalata da Andy Warhol, diviene musa dello stilista Stephen Sprouse, di cui ha indossato in esclusiva le creazioni. Sono in tanti ad immortalare la sua bellezza, da Robert Mapplethorpe a Richard Avedon.
Schiva e riservata nella vita privata, di lei si sa davvero poco. Pare sia una grande amante dei gatti. Inoltre la sua vita sentimentale è stata da sempre oggetto del gossip: dopo la fine della sua relazione con Stein, nel 1989, la cantante ha ammesso di avere frequentato anche delle donne. Paladina della battaglia contro la discriminazione sessuale e pioniera della battaglia per i diritti gay, celebre è la sua frase: “Being hot never hurts!”, “Essere sexy non fa mai male”.
Se ne andava sette anni, il 25 giugno 2009, Farrah Fawcett. Bionda bellezza texana dal fisico atletico e dall’allure inconfondibile, indimenticabile protagonista della serie cult Charlie’s Angels, ma anche icona pop e sex symbol di fama mondiale. La immortalano centinaia di foto, che testimoniano una donna splendida ed un’interprete molto apprezzata anche dalla critica. Simbolo degli anni Settanta, in quel taglio di capelli c’è un pezzo di storia: la storia di quando la bellezza non era plastificata ma si apriva in un sorriso acqua e sapone, che niente aveva dei volti ritoccati e tutti uguali che imperversano oggi.
All’anagrafe Ferrah Leni, l’attrice era nata a Corpus Christi, Texas, il 2 febbraio 1947, da James William Fawcett e Pauline Alice. Dopo il diploma alla W.B. Ray High School frequenta un corso d’arte presso la University of Texas di Austin, dove viene notata da un pubblicista di Hollywood, in occasione di un servizio giornalistico sulle “Dieci studentesse universitarie più belle” dell’Ateneo. Trasferitasi a Los Angeles, posa come modella e appare in tv in alcuni spot pubblicitari.
Il debutto in TV avviene nel telefilm Strega per amore e successivamente in Owen Marshall: Counselor at Law. Nel 1970 le viene offerto un ruolo importante nel film Il caso Myra Breckinridge, tratto da un romanzo satirico di Gore Vidal, accanto a Raquel Welch; ma il film si rivela un flop al botteghino e la sua carriera subisce un arresto.
Nel 1973 grazie al neo-sposo, l’attore Lee Majors, viene contattata dal produttore Aaron Spelling, che cerca le protagoniste per una nuova serie, intitolata Charlie’s Angels. Nel 1976, la Pro Arts Inc. propone all’attrice la realizzazione di un poster e viene subito organizzato uno shooting fotografico per promuovere il lancio della nuova serie. Nel poster la bionda Farrah indossa un costume da bagno intero rosso, firmato Norma Kamali. Il resto è storia: la serie Charlie’s Angels diventa in pochi anni un vero e proprio cult televisivo. Il primo episodio viene mandato in onda il 22 settembre 1976: l’attrice interpreta l’agente Jill Munroe, accanto alle avvenenti colleghe interpretate da Jaclyn Smith e Kate Jackson.
Il suo taglio di capelli si impone come un trend internazionale. Lei intanto posa per Richard Avedon, Kirk Douglas ed Helmut Newton (solo per citarne alcuni), diviene una vera icona e compare su Vogue e sulle maggiori riviste patinate. Inoltre grazie alla sua interpretazione nel telefilm si aggiudica un People’s Choice Award. Celebre la sua dichiarazione rispetto alla serie: “Quando Charlie’s Angels incominciò ad avere un primo successo pensai che fosse grazie alla nostra bravura ma, quando ebbe un tale successo internazionale, capii che ciò era dovuto al fatto che nessuna di noi portava il reggiseno”.
Nel frattempo il marito di Farrah, Lee Majors, viene divorato dal tarlo della gelosia, motivo che spinge la Fawcett ad abbandonare lo show dopo appena una stagione. Ma Aaron Spelling non gradisce e le intenta una causa da tredici milioni di dollari, esercitando anche la sua influenza sugli studios televisivi concorrenti affinché non offrissero lavoro all’attrice. Alla fine la Fawcett prese parte ad alcuni episodi della terza e della quarta stagione apparendo in qualità di guest star, sostituita nel telefilm dall’altrettanto bionda ma meno fotogenica Cheryl Ladd, che interpretava il ruolo di Kris Munroe, sorella minore di Jill.
SFOGLIA LA GALLERY:
Farrah Fawcett era nata in Texas il 2 febbraio 1947
Un poster che raffigura Farrah Fawcett
Lo stile naturale dell’attrice
Farrah Fawcett ha incarnato la bellezza anni Settanta
L’attrice è scomparsa il 25 giugno 2009
L’attrice è stata una bellezza da copertina
(Fonte foto Photoreporters)
Il taglio di capelli dell’attrice sdoganò una moda indimenticabile
Una bellissima foto di Farrah Fawcett
L’attrice a bordo di uno skateboard
Una scatto del 1975
Farrah Fawcett negli anni Settanta
Con Ryan O’Neil, 1985
Farrah Fawcett nel 1976
Con le celebri Charlie’s Angels
Sul set con Andy Warhol, 1980
Uno scatto che cattura la bellezza naturale dell’attrice
Nei panni di Barbara Hutton in “Poor Little Rich Girl: The Barbara Hutton Story” (1987)
Un una scena di Charlie’s Angels
Farrah Fawcett e Ryan O’Neil per Interview Magazine, 1982
In una mise sparkling
Farrah Fawcett in uno scatto di Tony Korody, 1979
Allo Studio 54, nel 1977
Sul set di Charlie’s Angels
Farrah ritratta da Steve Shapiro, 1980
Dopo aver abbandonato la serie che la rese una star, la carriera di Farrah Fawcett subisce una grave battuta d’arresto. Il riscatto avviene a Broadway, cui segue il ritorno ad Hollywood. Nel 1984 ottiene la prima di tre candidature al premio Emmy Award per il film televisivo Quando una donna (conosciuto anche con il titolo Autopsia di un delitto), cui seguì, due anni dopo, la candidatura al Golden Globe per il film Oltre ogni limite, in cui interpreta il ruolo di una donna che sequestra e tortura il suo stupratore. Nel 1986 interpreta la figura di Beate Klarsfeld nel film per la TV Il coraggio di non dimenticare , ruolo che le vale una nomination al Golden Globe. L’anno seguente interpreta la ricchissima ereditiera Barbara Hutton nella miniserie televisiva Una povera ragazza ricca-La storia di Barbara Hutton, che le vale un’altra nomination ai Golden Globe.
Nel 1989 affianca il compagno di una vita Ryan O’Neal, celebre protagonista della pellicola strappalacrime Love Story, nella miniserie Sacrificio d’amore, per cui si aggiudica nel 1990 la doppia nomination sia agli Emmy Awards che ai Golden Globe come miglior attrice. Nel 1995 posa senza veli per Playboy, esperienza che ripeterà al compimento dei cinquant’anni. Questo sarà il numero più venduto della rivista negli anni Novanta.
Nel 2000 è accanto a Richard Gere in Il Dottor T e le donne: inoltre compare come guest star in Ally McBeal. L’ultimo ruolo nel 2004, nel film The Cookout. Nel 2006 le viene diagnosticato un cancro al colon. I suoi ultimi mesi di vita divengono un documentario da lei stessa voluto, andato in onda per la NBC il 15 maggio 2009. Il film, La storia di Farrah Fawcett, riceve la nomination agli Emmy Awards tra i migliori programmi dell’anno. In Italia fu trasmesso da Sky.
Non ce l’ha fatta Farrah, a sposare Ryan O’Neil: secondo rumours americani, la coppia, vedendo l’aggravarsi delle condizioni di salute dell’attrice, sarebbe stata sul punto di convolare a nozze, coronando così un amore lungo una vita intera. Ma la diva si spense il 25 giugno 2009 al Saint John’s Health Center di Santa Monica, prima di poter pronunciare il fatidico sì. Seguirono le polemiche sulla sua eredità. Resta di lei l’immagine di una bellezza autentica che ha incarnato al meglio lo spirito degli anni Settanta/Ottanta.
Nessuna come lei: un corpo statuario, un volto entrato nella storia ed impresso indelebilmente nella moda del Novecento. Veruschka è considerata la prima supermodella della storia: la nobildonna prussiana ha incarnato infatti una vera e propria rivoluzione, modificando gli standard di bellezza dell’epoca ed aprendo la strada ai canoni attualmente vigenti nel fashion biz.
Celebre top model e attrice, simbolo della moda a cavallo tra anni Sessanta e Settanta e vero e proprio mito vivente: lunghissimi capelli biondi, volto perfetto ed altezza svettante (le fonti dichiarano 184 cm), Veruschka era molto diversa dall’ideale femminile che aveva caratterizzato la moda fino ai primi anni Sessanta. Le donne erano minute e formose. Nulla a che vedere con lei, che faceva fatica anche a trovare le scarpe della sua misura (calzava un 44). Camaleontica, poliedrica, espressiva come poche, Veruschka von Lendorff è entrata nel mito ed ancora oggi la sua stella risplende nella storia della moda mondiale.
All’anagrafe Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, la modella è nata a Königsberg, nella regione dei laghi Masuri, il 14 maggio 1939. Nelle sue vene scorre sangue blu: la bellissima Veruschka è infatti la secondogenita del conte Heinrich von Lehndorff-Steinort e della contessa Gottliebe von Kalnein, esponenti della nobiltà prussiana. Il padre, ufficiale della riserva, divenne uno degli uomini chiave della resistenza tedesca antinazista. Vera è solo una bambina quando quest’ultimo, accusato di aver fatto parte del complotto del 20 luglio, viene impiccato: è il 4 settembre 1944, e la piccola ha appena 6 anni. La madre, incinta della quarta figlia al momento dell’attentato, viene internata in un campo di lavoro. Vera e le sorelle vengono portate a Bad Sachsa insieme con i figli degli altri congiurati. L’infanzia della futura modella è ricca di traumi e zone grigie: costretta a vagabondare e a chiedere ospitalità a lontani parenti, la giovane nasconde dentro di sé una grande malinconia, la stessa che la porterà, anni dopo, anche a tentare il suicidio.
La bellissima Veruschka studiò ad Amburgo e Firenze. Nel 1959 fu fermata per le strade del capoluogo toscano da un giovane fotografo, colpito dall’altezza vertiginosa della ragazza: si trattava di Ugo Mulas. A lui si deve l’inizio di una carriera unica nel panorama della moda. Tante volte la bionda Veruschka tornerà in Italia: dal suo legame sentimentale, sconfinato in proficuo sodalizio artistico con il fotografo Franco Rubartelli, autore degli scatti più belli della modella, fino a Michelangelo Antonioni, che la diresse in Blow up, manifesto della moda negli Swinging Sixties.
Intanto, dopo essere stata scoperta da Mulas, la teutonica modella si trasferisce a Parigi e a New York, nel 1961: qui però non riscuote il successo sperato. Il mondo della moda non sembra pronto a vedere le potenzialità di quella bellezza mastodontica, che incute quasi timore. Tornata a Monaco di Baviera, Vera tenta di trasformare la propria identità e inizia a fingersi russa. Inoltre in questo periodo cambia il proprio nome in Veruschka. Finalmente la moda sembra improvvisamente accorgersi di lei: Veruschka riesce ad affermarsi, collezionando cover e posando per i più grandi, da Richard Avedon a Bert Stern, da Horst P. Horst ad Henry Clarke, da Gian Paolo Barbieri fino a Peter Beard. Ma è in buona parte grazie agli splendidi scatti realizzati dal suo compagno, il fotografo Franco Rubartelli, che la top model entra nel mito. Lui le dedica anche un lungometraggio, intitolato Veruschka, poesia di una donna (1971).
SFOGLIA LA GALLERY:
Una foto in bianco e nero di Veruschka
La supermodella Veruschka
Foto di Bert Stern, 1970
Veruschka, foto di Johnny Moncada, Firenze 1964
Uno scatto del 1965
Veruschka in “Blow up” (1966)
Zigomi alti e labbra carnose
Veruschka ritratta da Richard Avedon, 1972
Foto Franco Rubartelli, Vogue aprile 1967
Foto di Franco Rubartelli
Veruschka
Foto di Johnny Moncada, Vogue 1962
Foto di Johnny Moncada
Veruschka in una foto di Johnny Moncada, Vogue, 1962
Veruschka in Libano, abito Yves Saint Laurent, foto Franco Rubartelli, Vogue Paris, giugno-luglio 1969
Veruschka, maggio 1970 (Photo by Keystone Features/Getty Images)
Veruschka e il compagno Franco Rubartelli, gennaio 1968
Veruschka, settembre 1970 (Photo by Keystone Features/Getty Images)
Veruschka in una foto di Irving Penn per Vogue, 1965
La modella in una foto che ne esalta il fisico statuario
La modella in una foto simbolo degli anni Sessanta
Veruschka con turbante
Uno scatto dal mood wild
Icona di stile e simbolo degli anni Sessanta
La modella in uno scatto del 1962
Veruschka, foto di Franco Rubartelli per Vogue Paris, 1970
Uno scatto nel deserto dell’Arizona
Veruschka in un tutta la sua bellezza
Indimenticabili i paesaggi esotici che la vedono come una dea pagana, sacerdotessa di un nuovo mondo e di una nuova bellezza: Veruschka è un camaleonte, sempre pronta a modificare la propria immagine per entrare nel ruolo. Arriva anche a svenire per il caldo, nel deserto dell’Arizona, durante la celebre sessione fotografica fortemente voluta da Diana Vreeland, con Rubartelli dietro l’obiettivo fotografico e Giorgio di Sant’Angelo nei panni di uno stylist ante litteram. Come una dea, novella Venere, la vediamo uscire dalle acque anche negli scatti iconici, rimasti a lungo inediti, realizzati da Johnny Moncada. La Vreeland la etichetta come una “diva dallo sguardo freddo e dall’irraggiungibile volto”; gli scatti che vedono protagonista Veruschka sono diversi dalle foto che da decenni comparivano sulle riviste patinate. Per la prima volta nella storia della fotografia, si trattava di scatti d’azione, che ritraevano le modelle in movimento. Insieme a volti come quello di Twiggy, Marisa Berenson, Penelope Tree e Jean Shrimpton, Veruschka diverrà presenza fissa su Vogue e sarà la modella più pagata al mondo.
Nel 1966 arriva la svolta cinematografica con Blow up di Michelangelo Antonioni e Salomè di Carmelo Bene. Poche attrici possono vantare tale fama con una sola battuta prevista sul copione: la splendida Veruschka ci riesce e la sua danza conturbante davanti alla macchina da presa, nel tentativo di sedurre l’obiettivo fotografico, sdogana la pellicola di Antonioni come un vero manifesto fashion, in cui moda e costume si intersecano mirabilmente, sullo sfondo di una Swinging London psichedelica ed alienante.
Intanto la modella sviluppa una passione per il body painting: e saranno forse stati gli scatti che la vedono protagonista, camaleontica come poche, a farle amare quest’arte, a cui la modella si dedicherà assiduamente, in un rinnovato amore universale che le fa abbracciare una nuova visione del mondo, in cui il connubio con la natura diviene quasi primordiale.
Nel 1975 arriva l’addio alla moda per dedicarsi alla fotografia, alla pittura e al cinema. Un piccolo cameo in Agente 007-Casino Royale, nel 1006, la riporta sul grande schermo. Ancora bellissima, Veruschka si è più volte apertamente schierata contro la chirurgia estetica. In una biografia lunga ben 330 pagine, scritta a quattro mani con Jorn Jacob Rohwer ed edita da Barbès Editore, la modella rivela molti aneddoti della sua brillante esistenza, costellata spesso da luci ed ombre, a partire da un’infanzia solitaria. Inoltre è stato anche realizzato un documentario che la vede protagonista, dal titolo Veruschka, una vita per la macchina fotografica, opera di Böhm e Morrissey.
Ci sono icone il cui fascino resta indelebilmente scolpito nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Modella, attrice, icona di stile, socialite e attivista politica, Bianca Jagger è riuscita come poche a sfatare il vecchio ma sempreverde tabù che guarda con sospetto al connubio di bellezza e intelligenza.
Sopravvissuta brillantemente agli eccessi della New York anni Settanta, la sua bellezza da copertina ha ammaliato fotografi del calibro di Cecil Beaton, Richard Avedon, Patrick Lichfield, solo per citarne alcuni; ma spenti i riflettori sul suo matrimonio celebre con il divo per antonomasia, Mick Jagger, anche dopo essere uscita da anni dalle luci della ribalta, la ritroviamo, senza un briciolo di botox, ancora bella alla veneranda età di 71 anni, in prima linea nella lotta per i diritti umani.
All’anagrafe Bianca Pérez-Mora Macias, la futura icona di stile nasce a Managua, Nicaragua, il 2 maggio 1945. Suo padre era un mercante e la madre una casalinga. I due divorziarono quando Bianca aveva dieci anni e lei e i suoi due fratelli vennero affidati alla madre. Non ancora ventenne, la giovane Bianca ottenne una borsa di studio per andare a Parigi, dove frequentò con profitto il prestigioso Istituto di studi politici di Parigi, conosciuto come Sciences Po. Erano gli anni della Beat Generation e della contestazione giovanile; anni impegnati, anni divisi tra lotte studentesche e vita notturna. Influenzata da Gandhi e dalla filosofia orientale, Bianca si recò diverse volte in India.
Nel settembre 1970 l’incontro della vita: a Parigi, ad un party dopo un concerto dei Rolling Stones, Bianca incontra Mick Jagger. Lei, procace bellezza esotica, sembrava fatta apposta per lui, strampalato e ribelle. Opposti eppure complementari, come accade spesso in amore: e fu certamente amore a prima vista per i due, che convolarono a nozze il 12 maggio 1971 a Saint-Tropez, con rito cattolico. Un matrimonio entrato nella storia: incinta di quattro mesi, il décolleté sembrava sul punto di esploderle sotto al tailleur maschile bianco disegnato per lei da monsieur Yves Saint Laurent. Le foto iconiche degli sposi che lasciano la chiesa a bordo della macchina sono entrate nella storia. Lui, alticcio, perso nei fumi della sua fama, e lei, compagna fidata e fedele, sempre pronta a riportarlo a terra con il suo amore. La loro unica figlia, Jade, nacque a Parigi il 21 ottobre 1971.
SFOGLIA LA GALLERY:
Bianca Jagger a Monaco, 1980 circa
Foto di Andy Warhol, 1981
Bianca in Yves Saint Laurent, 1978
In Halston, foto di Roy Galella, 1980
Foto del 1974
Foto di Ron Galella, 1979
Foto di Francesco Scavullo
Bianca Jagger e Mick Jagger, foto di Peter Beard, 1972
Foto di Michael Putland, 1974
Bianca Jagger in uno scatto di Mike Lawn, 1972
ARCHIVES – BIANCA JAGGER ET DAVID BOWIE SORTANT D’ UNE SOIREE A PARIS
[NEW YORK CITY – DECEMBER 6: Bianca Jagger and designer Halston attend The Metropolitan Museum Of Art Costume Exhibition of “The Glory Of Russion Costume” on December 6, 1976 at the Metropolitan Museum of Art in New York City. (Photo by Ron Galella, Ltd./Wireimage)] *** []
Bianca in Zandra Rhodes, Sunday Times, 1972
Bianca Jagger, 1989, foto di David Macgough
Foto di Rose Hartman, 1978
Bianca Jagger, foto di Cecil Beaton, 1978
Bianca Jagger, foto di Norman Parkinson
Lee Radziwill, Mick e Bianca Jagger ritratti da Peter Berard a Montauk, 1972
1970
Björn Borg e Bianca Jagger allo Studio 54, 1978
Bianca in una foto di Richard Corkery, Studio 54, 1977
Bianca Jagger, foto di François Lamy per Vogue, 1980
Bianca in una foto di Annie Leibovitz, 1975
Bianca Jagger, foto di David Bailey, Vogue 1974
Bianca e Nathalie Delon, New York, 1974
Bianca allo Studio 54, 1977
Bianca e Mick Jagger, foto di Patrick Lichfield, 1976
Foto di Andy Warhol, 1980
Foto di Cecil Beaton, 1978
Bianca Jagger per Interview, numero di Andy Warhol, foto di Francesco Scavullo, 1973
Bianca Jagger al Bardney Pop Festival, 1972, foto di Leslie Lee
Bianca Jagger in Halston, 1979
Bianca Jagger in Ossie Clark, 1972
Bianca Jagger a Long Island, foto di Harry Benson, 1977
Bianca e Mick Jagger allo Studio Pilar, 1975
Bianca Jagger in una foto di Ron Galella, 1977
Foto di Ron Galella, 1978
Bianca Jagger in una foto di Ron Galella, 1983
Bianca Jagger nel front-row di una sfilata, 1971
Bianca Jagger al tour dei Rolling Stones, 1975
Mich e Bianca Jagger a Saint-Tropez, 1971
Foto di Warhol, 1975
La socialite in una polaroid di Andy Warhol, 1978
Bianca e Mick Jagger, foto di Ron Galella, 1974
Bianca Jagger per il Telegraph, foto di Pat Booth, 1979
Una foto di Bianca Jagger
Bianca Jagger in Zandra Rhodes, Sunda Times, 1972
Bianca Jagger, foto di Francesco Scavullo, 1976
Il matrimonio tenne banco su tutti i tabloid: Bianca e Mick erano la coppia più paparazzata, protagonisti indiscussi del jet set internazionale. Ma le nozze durarono solo otto anni. Nel maggio 1978 arrivò inesorabile il divorzio: Bianca, personalità e grinta da vendere, non poteva certo accettare lo scotto del tradimento di Mick, che ormai faceva quasi coppia fissa con la modella Jerry Hall, biondissima e algida, così diversa da lei. Bianca ricorderà il matrimonio dicendo che si concluse lo stesso giorno in cui venne celebrato.
Intanto lei era entrata di diritto nell’Olimpo dello stile: nessuna riusciva ad unire la sua naturale carica erotica, potenzialmente esplosiva, impressa nel DNA sudamericano, ad una sofisticata eleganza di stampo europeo. Pelle ambrata, labbra carnose e occhi profondi, la vediamo fare un ingresso trionfale allo Studio 54 -di cui era presenza fissa- in sella ad un cavallo bianco, nel giorno del suo compleanno, o in una delle innumerevoli uscite ufficiali al fianco di Mick: belli e dannati, ma anche iconici nel loro stile inimitabile. Musa di designer del calibro di Halston e Yves Saint Laurent, trendsetter ante litteram, il suo era uno stile tipicamente Seventies: tra turbanti e dettagli glam, dai lunghi abiti costellati da profondi drappeggi e scollature mozzafiato, fino all’iconico tuxedo maschile, che non ne offuscava mai la linea sinuosa. Presenza fissa della International Best Dressed List, il suo stile è entrato nella storia del costume, divenendo emblema degli anni Settanta.
Bianca Jagger è stata fotografata dai più grandi, dall’intimo amico Andy Warhol a Cecil Beaton, da Francesco Scavullo a Patrick Demarchelier. Innumerevoli le cover, a partire da Vogue UK del 1974. Inoltre prese parte anche a diverse pellicole come attrice.
Non solo mondanità ma anche impegno sociale per la bella Bianca. Dopo aver cominciato, ancora giovanissima, ad interessarsi di cause sociali e di diritti umani, si espresse più volte su temi come il genocidio, la guerra in Iraq, i crimini contro l’umanità e i cambiamenti climatici. Inoltre si schierò apertamente a favore dei diritti delle donne e contro la pena di morte. Nel 1972, dopo il terremoto che distrusse il Nicaragua, organizzò il primo concerto a scopo benefico della storia. Dopo aver istituito la Bianca Jagger Human Rights Foundation, di cui è a capo, dal 2003 è ambasciatrice del Consiglio d’Europa e membro del consiglio esecutivo di Amnesty International. Tra le maggiori attiviste politiche, vanta collaborazioni con diverse organizzazioni umanitarie, tra cui Human Rights Watch. Nonna felice di Assisi Lola (nata nel 1992) e Amba Isis (nata nel 1996), nel 2014 è diventata bisnonna.
Lunghi capelli castani, quell’aria acqua e sapone e una bellezza naturale, oggi divenuta un miraggio: Ali MacGraw nell’immaginario collettivo resterà sempre indissolubilmente legata a Love Story, la pellicola strappalacrime che le diede la fama mondiale. Nel celebre film diretto da Arthur Hiller, uscito nel Natale del 1970, la bella Ali interpreta una ragazza gravemente malata. Impossibile dimenticare la coppia cinematografica formata da lei e Ryan O’Neal, in una tormentata storia d’amore osteggiata a causa delle differenze sociali e priva del fatidico lieto fine.
All’anagrafe Elizabeth Alice MacGraw, detta Ali, la bella attrice americana è nata a Pound Ridge, New York, il primo aprile del 1939. Sua madre Frances Klein era un’esperta d’arte di origine ebrea, mentre il padre Richard MacGraw aveva origini scozzesi. Da parte di nonna la ragazza vanta inoltre origini ungheresi. Ali ha un fratello, Dick, artista. Dopo aver conseguito il diploma in storia dell’arte presso il Wellesley College, all’inizio degli anni Sessanta la giovane entra nella redazione della celebre rivista Harper’s Bazaar, dove diviene assistente di un celebre fotografo di moda, sotto la supervisione della mitica fashion editor Diana Vreeland.
Viso pulito e lunghi capelli lisci, in breve le viene chiesto di posare e inizia così a lavorare come modella. Immortalata da fotografi del calibro di Bert Stern e Patrick Lichfield, Ali MacGraw posa per Vogue e lavora anche come stylist e decoratrice d’interni. Dopo aver preso parte a diversi spot pubblicitari, l’esordio sul grande schermo, che risale al 1968, con la pellicola Jim l’irresistibile detective. Seguì il ruolo da protagonista, nella commedia romantica La ragazza di Tony, nel 1969. L’anno seguente è la svolta nella sua carriera, con Love Story. L’interpretazione della studentessa universitaria gravemente malata le vale una nomination all’Oscar e un Golden Globe. Per Ali MacGraw è la consacrazione: ottiene la fama mondiale e le copertine, a partire dal Time.
Bellezza acqua e sapone, l’attrice incarna alla perfezione lo stile boho-chic tipico degli anni Settanta, imponendosi come un’icona di stile, sebbene nel 1971 il critico di moda Richard Blackwell la include nella lista da lui stilata delle donne peggio vestite al mondo. Il suo taglio di capelli, con la riga in mezzo, le sopracciglia folte e lo charme la consacrano come un’icona, come anche i look bohémien che la diva non perde occasione di sfoggiare.
La sua vita sentimentale è stata turbolenta: dopo il college sposò il banchiere Harvard Robin Hoen, da cui divorziò dopo appena un anno e mezzo. Il 24 ottobre 1969 l’attrice convolò a nozze con il produttore cinematografico Robert Evans, capo della Paramount Pictures, da cui ebbe un figlio, Josh, divenuto attore, regista, produttore e sceneggiatore; la coppia divorziò nel 1972, dopo che l’attrice perse la testa per il collega Steve McQueen, conosciuto sul set di Getaway. Il 31 agosto 1973 Ali MacGraw convolò a nozze con McQueen, che è stato il più grande amore della sua vita. Tuttavia anche questo matrimonio naufragò e i due divorziarono nel 1978.
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Film star Ali MacGraw models an outfit of long skirt and cropped blouse by British designer Ossie Clark. (Photo by Harry Dempster/Getty Images)
Nella sua autobiografia Moving Pictures l’attrice ha parlato apertamente della sua battaglia contro l’alcol e della sua dipendenza da sesso. Nel 1978 ha girato Convoy-Trincea d’asfalto, a cui seguirono negli anni Ottanta dei ruoli nelle serie televisive Venti di guerra e Dynasty.
Nel 1991 fu inclusa dalla rivista People tra le 50 persone più belle del mondo, mentre nel 2008 GQ la annoverava tra le 25 donne dei film più sexy della storia. Amante dello yoga, l’attrice ha anche prodotto un video con il maestro americano Erich Schiffmann, divenuto un vero bestseller, al punto che nel giugno 2007 la rivista Vanity Fair designava l’attrice come principale responsabile della nuova ondata di popolarità che la pratica dello yoga aveva visto negli Stati Uniti dopo l’uscita di quel video. Nel luglio 2006 l’attrice ha girato un video in collaborazione con PETA, divenendo attivista del rispetto degli animali. Dal 1994 vive a Tesque, Nuovo Messico, dopo diversi anni trascorsi a Malibu.
Dolcezza, delicatezza, ironia: sono queste le parole chiave per descrivere al meglio l’atmosfera che ha caratterizzato la presentazione della collezione Pre-Fall 2016 firmata Alessandro Michele per Gucci.
Il classicismo imperiale di una villa pompeiana diviene il set in cui si muove la donna Gucci, tra suggestioni surrealiste e tocchi pop. L’estetica di Alessandro Michele non si smentisce: dopo essere stato accolto con entusiasmo alla direzione creativa del brand italiano, il designer ci anticipa la collezione per il prossimo Autunno/Inverno 2016/2017, che sfilerà a febbraio nell’ambito della Milano Fashion Week. Protagoniste della collezione sono creature piumate, ma anche flora e fauna tropicali: farfalle e serpenti prendono vita su stampe patchwork conferendo un tocco irriverente ad una collezione dal fil rouge bon ton.
Suggestioni Seventies caratterizzano le stampe optical e i maxi dress, tra balze e chiffon, mentre un tocco di eleganza evergreen è dato dai tailleurini da ragazza perbene e dalle gonne plissé laminate. Una fusione di stili diversi, quasi a bilanciare le ispirazioni multiformi che stanno alla base della collezione, per materiali futuristi e stampe iconiche. È romantica e un po’ intellettualoide la donna Gucci, tra ricami, ruches e camicie col fiocco, mentre i grandi occhiali conferiscono un appeal intrigante e un tocco di introspezione a questa donna che gioca con i passerotti e con la propria femminilità.
Infantile, naïf, ma anche sofisticata e aristocratica, tra patchwork di pattern e colori, riscopriamo anche una rivisitazione del logo della maison Gucci, l’inconfondibile doppia G ma anche il nastro tricolore, riproposto quasi timidamente tra la fauna in chiave surrealista che non lesina in tigri, gattini e fiori.
Alessandro Michele ci propone un’inedita collaborazione con l’artista Ari Marcopoulos, che ha scattato il lookbook che immortala la collezione, in una location dal grande impatto scenografico, quale è la villa pompeiana che fa da sfondo ad ogni outfit. Si respira un’atmosfera idilliaca, in cui il classicismo di italica memoria si mixa mirabilmente a suggestioni tratte dalle nature morte della pittura fiamminga: piccoli dettagli che impreziosiscono ogni scatto sposandosi perfettamente con l’outfit fotografato. Passato e presente si sfidano in un continuum che combina elementi liberty a tocchi eclettici tipici di un’estetica fortemente contemporanea: ecco quindi i bomber su maxi dress metallizzati, e ancora gli stivali in vernice sotto cappe che profumano di antico, i turbanti paillettati e le pellicce con luna e stelle; i guanti rock conferiscono aggressività ai pizzi e merletti di fanciullesca memoria, mentre il denim è corredato da inedite stampe cartoon.
La collezione si muove tra pellicce in colori fluo, in un mix & match che vede capi profilati con decorazioni di fiori stilizzati e un tartan rivisitato che conferisce un tocco vintage. Si continua tra fiocchi, glitter e paillettes all over mentre il basco alla marinière ci riporta alla contestazione degli anni di piombo. Allure romantico, quasi fiabesco, per i lunghi abiti da sera in tulle, ricamati con stampe patchwork. Jacquard e astrakan predominano, mentre il denim e le proporzioni dei jeans scampanati ci riportano agli anni Settanta. La pelle lavorata diviene luxury grazie agli accenni metallizzati che ritroviamo sulle gonne in seta plissettata. Eccentricità e glamour sono le parole chiave di una collezione altamente evocativa che rivela la grande ricercatezza e la cura per il dettaglio che caratterizzano il talento di un astro nascente della moda italiana.
Paisley, pois, righe, pied de poule: sono le stampe più comuni dei capi del nostro guardaroba, ormai entrate di diritto nel vocabolario della moda. Ma da dove vengono e qual è la storia di queste fantasie che da tempo immemore abbelliscono i nostri capi? È la domanda che si è posta la giornalista Jude Stewart, che ha ricostruito fedelmente la storia dei tessuti stampati, partendo da documenti antichissimi: Patternalia è il risultato di questa inedita inchiesta. Il volume, appena pubblicato, traccia la storia delle più comuni stampe, dai pois al paisley.
Scopriamo così che i pois erano poco usati in epoca medievale, in quanto ricordavano i rush cutanei tipici delle malattie esantematiche, mentre il pied de poule deve il suo successo ai cappotti inglesi da caccia. Le righe, oggi considerate chic, erano invece prerogativa di carcerati e prostitute, almeno durante il Medioevo. Nel XIII secolo era in voga addirittura un codice, le lex sumptuaria, che regolamentava l’uso delle righe: facilmente visibili, esse si addicevano a prostitute e carcerati perché li avrebbero resi facilmente riconoscibili e controllabili ai fini della sicurezza pubblica. Un sottobosco di emarginati che già nell’iconografia medievale era raffigurato vestito a righe; considerate volgari e abominevoli, venivano usate per umiliare chi le indossava, secondo quanto ricostruito anche da Mark Hampshire e Keith Stephenson nel loro libro Communicating with pattern.
Appeal sofisticato per il giglio, altro pattern molto diffuso. Tradizionalmente associato agli antichi blasoni nobiliari, spesso prerogativa dell’aristocrazia francese, il giglio veniva utilizzato invece per marchiare criminali e schiavi, e chiunque fosse assoggettato allo stato francese. Il verbo francese fleurdeliser (giglio in francese si dice “fleur-de-lis”) indicava la pratica di «marchiare con il giglio»: il Code noir promulgato nel 1685 da Luigi XIV di Francia -che regolamentava la vita degli schiavi neri nelle colonie francesi- rese il giglio simbolo di tortura: gli schiavi che cercavano di fuggire sarebbero stati marchiati a fuoco col simbolo di un giglio, prima di essere mutilati e uccisi, ad eventuali ulteriori tentativi di fuga.
Stampa pied de poule
Uno scatto del 1965
Jean Patou, Estate 1956
Abito Lanvin a pois, anni Cinquanta
Dorian Leigh, 1950
Dovima in Jean Patou, foto di Henry Clarke, 1956
Ann Gunning, 1951
Foto tratta da Life Magazine, 1958
Veruschka ritratta da Henry Clarke per Vogue, 1965
Audrey Hepburn
Marilyn Monroe
Pierre Balmain, L’Officiel 1950
Yves Saint Laurent. Revue Magazine, Autunno/Inverno 1967
Suzy Parker ritratta da Richard Avedon, 1957
Wilhelmina in Dior, foto di Bert Stern per Vogue 1965
Righe ed effetti optical tipici degli anni Sessanta
Paisley firmato Ossie Clark
Righe firmate Chanel su Vogue 1955, foto di Clifford Coffin
Vogue, 1 maggio 1954
Stampe optical, 1966
Mademoiselle, maggio 1966
Vogue UK, 1973
Olivia Palermo in un abito a stampa paisley
Paisley firmato Etro
Stampe anni Settanta, foto di James Moore
Stampe per tutti i gusti
Paisley in una foto degli anni Settanta
Kate Moss ritratta da Patrick Demarchelier per Vogue UK, giugno 2013
Mood hippie
Foto tratta da Pinterest
Il paisley protagonista dello stile boho-chic
Tessuto stampato anni Settanta
Lauren Hutton su Vogue 1970, foto di Henry Clarke
Foto di Steven Meisel per Vogue Italia, dicembre 2007
Caroline de Maigret
Natalia Vodianova
Tanti sono i testi che trattano dell’insolito tema dei tessuti stampati: Steven Connor, professore di storia culturale all’Universita di Cambridge, ha ricostruito la storia dei pois. Considerata la difficoltà di tracciare in modo equidistante i pallini senza l’aiuto di macchine, la fantasia era scarsamente utilizzata in epoca medievale. I pois irregolari venivano infatti accuratamente evitati perché considerati di cattivo auspicio, dal momento che la loro forma ricordava malattie mortali, come la lebbra, la peste bubbonica, il vaiolo.
Amata dai figli dei fiori e dai nostalgici dei Seventies, il paisley o cachemire è emblema del boho-chic: una storia antichissima sarebbe all’origine della fantasia, che si sarebbe diffusa migliaia di anni fa nel territorio a cavallo tra India e Pakistan, corrispondente agli attuali Iran e Kashmir. Originariamente chiamato būtā o boteh, che significa fiori, la stampa ricorda in effetti un fior di loto, anche se molti vi vedono una corrispondenza con le più svariate immagini. Gli antichi babilonesi paragonavano la figura ai datteri, simbolo di prosperità e abbondanza. Paisley è anche il nome di una città scozzese specializzata nella produzione di scialli con questo motivo, da qui il nome della fantasia.
Tradizionalmente associato allo stile più sofisticato, dopo avere attraversato indenne più di mezzo secolo, dagli anni Cinquanta ai favolosi Swinging Sixties, arrivando incolume fino ai giorni nostri, il pied de poule è forse il tessuto più amato. Il suo nome in francese significa letteralmente “zampa di gallina” e le sue origini sono alquanto misteriose: pare che derivi dalle mise utilizzate dai pastori scozzesi delle Highlands, la regione montuosa della Scozia. La stampa avrebbe avuto come fine quello di camuffare gli schizzi di fango. Il termine inglese per indicare il pied de poule è houndstooth, dai molari dei cani da caccia. Tradizionalmente associato all’aristocrazia terriera inglese, il tessuto veniva considerato consono alla caccia, ma senza perdere il glamour. Sdoganato da Edoardo VII di Inghilterra, a inizio Novecento, il pied de poule è arrivato fino ai giorni nostri, ed è ancora amatissimo.
Se ne andava quattro anni fa una delle più famose icone di stile del Novecento. Musa storica di Yves Saint Laurent e protagonista indiscussa della moda dagli anni Sessanta in poi, Loulou de la Falaise è stata l’icona fashion più famosa dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Musa per antonomasia della Rive Gauche di monsieur Yves, incarnò la quintessenza dello stile bohémien divenendo a sua volta una brillante designer di gioielli. All’anagrafe Louise Vava Lucia Henriette le Bailly de la Falaise, Loulou nacque in Inghilterra il 4 maggio 1948 dalla modella anglo-irlandese Maxime Birley, amata da Cecil Beaton, e dal marchese Alain de La Falaise, grande intellettuale.
Battezzata con il profumo Shoking di Elsa Schiaparelli anziché con l’acqua benedetta, come lei stessa dichiarò, Loulou ebbe un’infanzia travagliata: le numerose relazioni extraconiugali della madre portarono i genitori al divorzio e quest’ultima perse la custodia dei due figli, Loulou e Alexis, che furono affidati a delle case famiglia.
Nelle vene di Loulou scorreva sangue inglese, irlandese e francese: ribelle per natura, la piccola venne espulsa da ben tre scuole, in Sussex, a Gstaad e a New York. Ma è nella Grande Mela che inizia per la giovane una carriera che la porterà a divenire una delle maggiori icone di stile mai esistite. Le sue gambe chilometriche e il suo charme androgino incantano la celebre editor Diana Vreeland che la ingaggia come modella facendola ritrarre da nomi del calibro di Richard Avedon e Irving Penn. Tuttavia la personalità scoppiettante della giovane le rende presto odioso il lavoro di modella: Loulou ha troppo da dire per amare quella professione fatta di pura immagine. La giovane vola quindi alla volta di Londra, dove inizia a lavorare per Queen Magazine. Ad appena 18 anni convola a nozze con l’aristocratico irlandese esperto di storia dell’arte Desmond FitzGerald, da cui divorzierà nel 1970.
Nella cornice di Carnaby Street nel 1968, anno passato alla storia, sarebbe avvenuto secondo le fonti più attendibili il primo incontro tra Loulou de la Falaise e Yves Saint Laurent. Erano gli anni della Swinging London, e da lì in poi prese il via la più grande rivoluzione culturale del Novecento. “Più eri giovane e più autorità avevi, nella Londra di allora”, affermò più avanti l’icona di stile, ricordando quel periodo della sua vita.
Incoraggiato dal partner storico Pierre Bergé, Saint Laurent aveva iniziato a disegnare collezioni di prêt-à-porter e aveva da poco aperto la sua mitica boutique sulla Rive Gauche, seguita da un’altra boutique, inaugurata a Londra nel 1969. In quest’ultima impresa il couturier era appoggiato da Betty Catroux e da Loulou, entrambe sue modelle e muse. All’epoca Loulou aveva 21 anni e già un divorzio alle spalle.
Il suo stile rappresenta la quintessenza del boho-chic, con una predilezione per accessori vintage e gioielli etnici. Innamoratosi del suo charme, Yves la vuole al suo fianco a Parigi. Il ruolo che Loulou dovrà ricoprire è indefinito: è così che in breve l’icona di stile si ritrova a disegnare gli accessori e gioielli per le collezioni della celebre maison. Il suo look androgino avrebbe ispirato la collezione di Yves Saint Laurent del 1966, con protagonista il celebre smoking. Il genio creativo del couturier carpì a lungo ispirazioni dal guardaroba eclettico ed originale di Loulou. “Una settimana era una novella Desdemona in velluto porpora e corona di fiori e la settimana dopo era una Marlene Dietrich”: con queste parole monsieur Yves descriveva lo stile dell’amica. Un’amicizia che segnò per sempre le loro vite: sarà Yves a disegnare per Loulou l’abito da sposa per il suo secondo matrimonio con Thadée Klossowski de Rola, figlio del celebre pittore Balthus, celebrato nel 1977 con una cerimonia indiana organizzata dallo stesso couturier nella cornice di Chalet des île del bois de Boulogne, poco distante da Parigi. Loulou appariva raggiante in un turbante di piume, lunghe collane folk e pantofoline stile indiano. Dal matrimonio nacque la figlia Anna. Più che una musa, termine che l’icona non perse mai occasione di bistrattare apertamente, Loulou de la Falaise fu per oltre quarant’anni spalla destra e intima amica di Yves Saint Laurent.
Al ritiro di Saint Laurent, nel 2002, dopo oltre trent’anni trascorsi a disegnare accessori e gioielli per le sue collezioni, Loulou lanciò la propria linea di abbigliamento, che comprendeva prêt-à-porter, gioielli e accessori. Dettagli di stile per veri intenditori, nelle sue collezioni si trovava il migliore tweed inglese; i pantaloni ricordavano la linea di quelli usati dai marinai francesi, mentre completavano il look sofisticate bluse di seta e cappotti profilati di pelliccia. La sua è una clientela di élite, innamorata in primis del suo stile, che Loulou riesce magistralmente a traferire ai suoi gioielli. Loulou de la Falaise disegnò anche porcellane e vasi per Asiatides e gioielli per la boutique di Yves Saint Laurent ubicata nei Giardini di Majorelle a Marrakech, e aprì due negozi a Parigi, uno dei quali fu progettato dal fratello Alexis. Celebre il suo appartamento parigino e la sua casa in Normandia, arredati con gusto boho-chic. Lo charme parigino dell’icona di stile è stato celebrato nel libro Loulou de la Falaise (Ed. Rizzoli Usa), corredato da oltre 400 fotografie di nomi come Helmut Newton e Richard Avedon, Steven Meisel e Bettina Rheims. La designer si è spenta il 5 novembre 2011, ad appena 63 anni, nell’ospedale di Gisors, in Francia, a causa di un male incurabile. Tenuta segreta fino all’ultimo, la malattia ha posto fine prematuramente alla vita della più famosa icona della moda degli anni Settanta. Uno stile indimenticabile, che ancora oggi rivive nella Rive Gauche.
La stagione A/I 2015/2016 ci riporta indietro nel tempo, fino agli indimenticabili anni Settanta. Un trend che non è mai stato così amato, tanto da divenire ora protagonista assoluto delle passerelle per la prossima stagione invernale.
Un tripudio di stampe paisley, su lunghi abiti in impalpabile chiffon dalle suggestioni boho-chic. Lo stile bohémien conquista sempre più imponendosi come trend incontrastato per l’inverno 2016. Uno stile che piace perché sta bene a tutte e perché dona uno charme particolare.
La donna proposta dagli stilisti nelle collezioni A/I è una moderna hippie chic che indossa pantaloni a zampa d’elefante, monili etnici e outfit in pieno stile festival. Largo a caftani da giorno e da sera, da indossare con gilet o giacche in montone, stivali in camoscio o sandali da schiava. Fiori intrecciati tra i capelli o foulard usati alla stregua di turbanti completano il look gipsy.
Trionfa su tutto il caftano, capo simbolo della cultura hippie, da indossare con gioielli antichi dal sapore etnico, frange e accessori di ispirazione folk: questo autunno dimenticatevi di essere nel 2015, la moda parla inequivocabilmente Seventies.
Armate di flower power ci aggingiamo a vivere una stagione all’insegna di suggestioni antiche ma mai dimenticate. Erano gli anni dell’amore libero, della fratellanza universale e delle maxi gonne che tutte, da bambine, abbiamo visto nel guardaroba della mamma. Una moda fresca e colorata, capace di dare vita anche al più grigio degli inverni.
È una luxury hippie quella proposta da Burberry Prorsum, tra maxi poncho e dettagli shabby-chic. Pregiati velluti e broccati di seta sono stati i protagonisti assoluti della sfilata di Alberta Ferretti, in una collezione in cui notevoli sono i rimandi folk ed etnici, quasi un tributo alla famosa Russian Collection proposta da monsieur Yves Saint Laurent nel lontano 1976.
Richiami etno chic anche da Dries van Noten, in cui si respira piena atmosfera boho-chic. Valentino propone un excursus attraverso gli anni Sessanta e Settanta, spaziando dal mood optical alle suggestioni quasi fatate di abiti che ricordano la magia di Ossie Clark e Thea Porter. Note floreali da Giambattista Valli, sebbene prevalga anche qui un mood swinging che rimanda al decennio precedente.
Protagonista delle passerelle è uno stile wild, che predilige lunghezze maxi e tessuti svolazzanti come lo chiffon di seta. Largo alle stampe, in primis cachemire e paisley, rivisitate nei toni più caldi e nei colori più accesi. E se Dsquared ripropone il mood andino di un genio della moda quale è stato Giorgio di Sant’Angelo, la donna vista da Anna Sui è una santona di lusso direttamente presa in prestito alle comuni anni Settanta.
Il bohémien trova come sempre un valido rappresentante in Roberto Cavalli, che propone dettagli in pieno stile gipsy. Di netta ispirazione etno-chic anche Paul & Joe e Chloé, che propongono capispalla in montone, poncho patchwork e gilet portati sopra abiti svolazzanti dalle proporzioni Seventies.
Il “festival” è un trend che ha preso piede già dal 2014: sdoganato da eventi come il Coachella e il Glastonbury Festival, adorato da icone del jet set internazionale come Sienna Miller e Kate Moss, lo stile boho-chic ha rivoluzionato il guardaroba femminile. Colori accesi, rimandi ad altre culture, evidenti ad esempio nelle stampe batik, la moda anni Settanta è un crogiolo di idee e suggestioni che si mixano mirabilmente, lasciando anche spazio per fornire un’interpretazione personale del mood prevalente.
Jeans scampanati indossati sotto un cardigan a motivi aztechi e un maxi poncho, fino a completare il look con un cappello a tesa larga in feltro di lana, che conferisce un tono intellettuale, e una borsa con le frange: tutto ci parla di Seventies. Anni di piombo vissuti sempre col sorriso, anni che hanno cambiato per sempre il corso della moda e che rappresentano come poche altre tendenze un vero e proprio evergreen dello stile.
Stampe patchwork e ancora montoni visti da Stella Jean. Delicate e romantiche le stampe floreali proposte invece da Gucci, mentre il patchwork è protagonista della collezione Etro, che fa sfilare abiti in tessuti preziosi che sanno di Oriente, e arruola come testimonial un guru dello stile bohémien come Kate Moss.
Chi ha vissuto negli anni Settanta non può non ricordare i suoi capi. Linee pulite ed essenziali si uniscono al glam tipico degli anni Settanta, per capi che divengono emblema di un’epoca. Roy Halston Frowick nasce nel 1932 a Des Moines, Iowa. Già nella prima infanzia crea abiti per la madre e la sorella e ben presto inizia a disegnare cappelli.
Nel 1952 si trasferisce a Chicago, dove frequenta un corso serale presso la School of the Art Institute e contemporaneamente lavora come visual merchandiser per mantenersi agli studi.
L’anno seguente, nel 1953, inizia la sua attività di creatore di cappelli, riscuotendo grande clamore: Kim Novak, Deborah Kerr e Gloria Swanson sono solo alcune delle star che indossano le sue creazioni. Nel 1957, dopo avere inaugurato la sua prima boutique, si trasferisce a New York, dove inizia a lavorare per la celebre stilista Lilly Daché. Nel giro di un anno viene nominato co-designer della maison, incarico che lascia per passare alla Bergdorf Goodman.
Halston balzò agli onori della cronaca per aver disegnato il cappellino indossato da Jackie Kennedy alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca del marito, nel 1961. Inoltre amarono i suoi cappelli personalità del calibro di Rita Hayworth, Diana Vreeland e Marlene Dietrich.
Definito da Newsweek come il designer più interessante d’America, nel 1966 passò dalla creazione di cappelli alla creazione di abiti, inaugurando la sua prima boutique in Madison Avenue nel 1968. L’anno seguente, nel 1969, lanciò la sua prima linea di prêt-à-porter, Halston Limited.
Come egli stesso dichiarò in un’intervista rilasciata a Vogue, ciò che più gli stava a cuore, nella creazione dei capi, era la funzionalità. Odiava tutto ciò che non fosse funzionale, come fiocchi o cuciture inutili; le sue collezioni fin dal principio si distinsero per un minimalismo funzionale. Si trattava di capi eleganti e sexy ma dalle linee semplici e pulite.
Nel 1972 brevettò l’Ultra suede, un particolare tessuto facilmente lavabile anche in lavatrice, comodo e perfettamente adattabile alla silhouette. Il suo halter dress, ideato due anni più tardi, è entrato nei dizionari di moda: quando parliamo di scollatura all’americana, parliamo di Halston, che ne fu l’inventore. La sua donna era una sirena della disco glam di fine anni Settanta. I suoi abiti, perfetti per un party in piscina, erano la perfetta incarnazione del mito americano. Colori caldi come il bronzo, l’oro, l’argento, il fucsia, il blu elettrico e tessuti come il cachemire, il jersey e la seta.
Il jet set internazionale cadde ai suoi piedi. Tra le sue più fedeli clienti troviamo Anjelica Huston, Lauren Bacall, Margaux Hemingway, Elizabeth Taylor, Bianca Jagger e Liza Minnelli.
Dal 1968 al 1973 il fatturato del brand si stima intorno ai 30 milioni di dollari. Nel 1975 Max Factor realizzò la prima fragranza col nome della maison. Secondo Vogue, Halston contribuì a rendere popolare il caftano, disegnando diversi modelli per Jackie Kennedy.
Personalità emblematica di quegli anni, Roy Halston fu assiduo frequentatore dello Studio 54 ed intimo amico di Liza Minnelli ed Andy Wahrol. Dopo una vita di eccessi, si ritirò a metà degli anni Ottanta. Nel 1988 risultò positivo al test dell’HIV e morì due anni dopo, nel 1990, per complicanze legate al virus.
Oggi resta la sua eredità. Il marchio, dopo diverse vicissitudini legate a scelte sbagliate, è stato acquistato nel 2011 da Ben Malka, già presidente del gruppo BCBG Max Azria. Halston continua ad essere sinonimo di stile e si contraddistingue ancora oggi come uno dei marchi più venduti negli Stati Uniti.
Suggestioni etniche e charme evergreen contraddistinguono un capo principe del guardaroba estivo (e non solo): il caftano.
Dietro a questa veste c’è una storia antichissima che ha origine nella Mesopotamia intorno al 600 a.C. Da qui il caftano si sarebbe poi diffuso in tutta la Persia.
Ampiamente utilizzato sotto l’Impero ottomano, divenne la veste classica dei sultani.
Presente in diverse culture e tramandato fino ai nostri giorni, il caftano è una lunga tunica, da indossare singolarmente o sopra ad altri capi. Di lunghezza variabile, la versione classica arriva fino ai piedi, ed è caratterizzata da una profonda scollatura e dalle maniche svasate che si aprono a pipistrello.
Per tutto l’Ottocento venne considerato un abito di corte, considerata anche l’opulenza di certi modelli, impreziositi da ricami o gioielli, che lo rendono ancora oggi un capo sfarzoso. I colori predominanti con cui veniva confezionata questa veste così particolare erano il rosso, il bordeaux, l’ocra e il viola, colori caldi e dal gusto mediterraneo. Di superba raffinatezza sono le stampe che vengono solitamente utilizzate nella creazione del capo: si tratta di stampe paisley, chiaro retaggio anni Settanta, o stampe floreali o psichedeliche, omaggio dei Sixties.
Inoltre fin dagli albori grande è la varietà dei tessuti usati. Stoffe finemente lavorate, come tessuti damascati, broccato di seta arricchito di inserti preziosi o ancora chiffon di seta, per un effetto fluido e svolazzante. Ma non solo: non di rado oltre al semplice cotone si adoperano cachemire o lana. Un capo fresco e leggero che dona libertà unendo in modo magistrale comfort e stile.
È solo a partire dagli anni Cinquanta che il caftano ha fatto la sua comparsa sulle riviste di moda e sulle passerelle. E fu ancora una volta Diana Vreeland, incontrastata regina della moda di quegli anni, la prima a intuirne la sofisticata eleganza. Dopo averlo notato durante un viaggio in Marocco, fu lei a sdoganarlo in Europa e in America, attraverso le pagine di Vogue.
Simbolo del mood boho-chic che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta ed emblema del decennio successivo, questa mise, così antica e pregiata, conferisce un appeal particolare ad ogni donna che lo indossi. La cultura hippie ma anche l’intellighenzia dell’epoca, furono caratterizzate da una massiccia riscoperta dell’Oriente, e fu allora che l’uso di lunghe tuniche divenne un must have del guardaroba, maschile e femminile.
Numerosissimi furono i designer che si cimentarono con la creazione di caftani, fin dalla metà degli anni Sessanta. Valentino Garavani fu uno dei primi a confezionare splendidi modelli dalle suggestioni optical, in perfetto stile Swinging Sixties; poi fu la volta di Emilio Pucci, che creò dei piccoli capolavori dalle stampe variopinte; e ancora Missoni, Yves Saint Laurent, Lanvin, Ossie Clark, Zandra Rhodes, Thea Porter, Biba e, nei primi anni Settanta, Halston. Oggi il caftano rappresenta un pezzo irrinunciabile delle collezioni di Roberto Cavalli, Issa London e di tanti altri nomi del panorama della moda internazionale.
Da usare per andare in spiaggia, con sandali rasoterra o allacciati alla schiava, o con tacchi o zeppe svettanti per la sera, vincente è l’uso di gioielli etnici, anche importanti. Fantastica è l’unione con il turbante, altro capo dalle seducenti atmosfere etniche, valida alternativa alle acconciature dal mood arabeggiante, con chignon e trecce.
Tantissime le celebrities che hanno adorato il caftano: da Liz Taylor a Jackie Kennedy, da Joan Baez a Mia Farrow. Talitha Getty, icona hippie chic, ne fece l’emblema del suo stile: celebri sono le sue foto a Marrakech nel 1960, in compagnia del marito Paul, anch’egli in total look boho-chic. Altrettanto suggestive sono le foto che ritraggono la socialiteLee Radziwill nella sua casa londinese arredata in perfetto stile ottomano: nulla è lasciato al caso e il caftano che indossa riprende le suggestive decorazioni delle pareti. Tutto il jet set internazionale di quegli anni si convertì al caftano, dalla designer Diane von Furstenberg all’attrice Jaqueline Bisset, da Marella Agnelli e Donna Allegra Caracciolo di Castagneto: celebri le foto scattate a quest’ultima da Henry Clarke per Vogue del 1965. Bellissimi anche alcuni scatti di Barry Lategan per Valentino.
Oggi questo capo è tornato prepotentemente alla ribalta, grazie anche ad alcuni festival musicali di ispirazione bohémien, come il celebre Coachella Festival, dove si è riscontrato un boom di caftani e capi in stile etnico.
Inoltre il mercato del vintage regna incontrastato: su siti come Etsy, portale web dedicato alla compravendita di capi vintage autentici, si trovano pezzi di brand come Thea Porter, Ossie Clark, Zandra Rhodes e Biba che possono arrivare a costare fino a 5.000€. Ma in questo caso vengono in aiuto i brand low cost, come H&M, che ha proposto una collezione estiva con caftani variopinti, Topshop o ancora Asos, che propone capi ispirati ai Seventies o capi vintage, nella sezione Marketplace.
Il caftano è un evergreen irrinunciabile, anche in tempo di crisi.