Si è aperta lo scorso 17 giugno al Palazzo della Ragione di Milano la mostra “William Klein. Il mondo a modo suo”: 150 opere accompagnate da installazioni inedite, per una retrospettiva che si preannuncia già come un evento. Fotografo, artista, cineasta, designer e scrittore, William Klein è delle figure più versatili ed eclettiche della fotografia.
Moda ma non solo, nei suoi scatti iconici: immagini di strada, reportage di scorci cittadini scattati in giro tra Parigi, Roma, Tokyo, avvicinano la moda alla cronaca. Indimenticabili le sue modelle a spasso per la Città Eterna, in bilico tra futurismo e classicità. Ironia e charme senza tempo accompagnano ogni scatto.
Sarà possibile visitare la mostra fino all’11 settembre 2016: già presentata parzialmente alla Tate Modern di Londra e al FOAM di Amsterdam, l’esposizione è completata da un ricco allestimento multimediale.
Nato a New York nel 1928 da una famiglia ebrea di origine ungherese, all’età di 14 anni William Klein si iscrive al City College di New York, dove studia sociologia. Si arruola poi nell’esercito e viene mandato prima in Germania e poi in Francia, dove si stabilisce definitivamente. Nel 1948 si iscrive alla Sorbona, dove studia scultura e pittura, con l’artista Fernand Léger. Le sue opere vengono esposte in diverse occasioni e proprio durante una di queste mostre il fotografo incontra Alexander Liberman, direttore artistico di Vogue, che gli offre una collaborazione.
Nel 1954 rientra a New York, per lavorare ad una sorta di diario fotografico che sarà pubblicato due anni più tardi sotto il titolo “New York” e che gli varrà il premio Nadar. In bilico tra fotografia ed etnografia, tratta i newyorchesi “come un esploratore avrebbe trattato uno zulu”, come spiega lui stesso. Successivamente vola a Roma, dove diviene assistente di Federico Fellini. Alla fine degli anni Cinquanta si avvicina al cinema realizzando diversi film. Intanto collabora attivamente per Vogue, realizzando alcuni degli scatti più famosi della storia della fotografia di moda. E proprio il mondo della moda diviene il soggetto del suo primo film, Who Are You, Polly Maggoo?, una satira declinata nei toni optical degli Swinging Sixties.
Negli anni Ottanta Klein torna ad occuparsi di fotografia e pubblica numerosi libri. Il suo è un approccio ironico ed ambivalente che non disdegna tecniche inusuali per la fotografia di moda e il fotogiornalismo. Considerato tra i padri della fotografia di strada, assieme a Robert Frank, fa ampio uso del grandangolo e del teleobiettivo, della luce naturale e della tecnica del mosso, rifiutando compromessi e regole preimpostate. È stato messo al venticinquesimo posto fra i cento fotografi più influenti dalla rivista Professional Photographer Magazine. Inoltre Klein ha diretto numerosi documentari ed ha prodotto oltre 250 spot televisivi. Nel 1999 è stato insignito della Medaglia del Centenario della Royal Photographic Society, di cui è anche socio onorario. Tra i volumi da lui pubblicati Retrospettiva (2002), Parigi+Klein (2006), Contacts (2008), Roma+Klein (2009), Brooklyn (2014).
(In copertina: Marie-Lise Grès davanti al Teatro dell’Opera, Parigi, Vogue, 1963)
Nessuna come lei: un corpo statuario, un volto entrato nella storia ed impresso indelebilmente nella moda del Novecento. Veruschka è considerata la prima supermodella della storia: la nobildonna prussiana ha incarnato infatti una vera e propria rivoluzione, modificando gli standard di bellezza dell’epoca ed aprendo la strada ai canoni attualmente vigenti nel fashion biz.
Celebre top model e attrice, simbolo della moda a cavallo tra anni Sessanta e Settanta e vero e proprio mito vivente: lunghissimi capelli biondi, volto perfetto ed altezza svettante (le fonti dichiarano 184 cm), Veruschka era molto diversa dall’ideale femminile che aveva caratterizzato la moda fino ai primi anni Sessanta. Le donne erano minute e formose. Nulla a che vedere con lei, che faceva fatica anche a trovare le scarpe della sua misura (calzava un 44). Camaleontica, poliedrica, espressiva come poche, Veruschka von Lendorff è entrata nel mito ed ancora oggi la sua stella risplende nella storia della moda mondiale.
All’anagrafe Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, la modella è nata a Königsberg, nella regione dei laghi Masuri, il 14 maggio 1939. Nelle sue vene scorre sangue blu: la bellissima Veruschka è infatti la secondogenita del conte Heinrich von Lehndorff-Steinort e della contessa Gottliebe von Kalnein, esponenti della nobiltà prussiana. Il padre, ufficiale della riserva, divenne uno degli uomini chiave della resistenza tedesca antinazista. Vera è solo una bambina quando quest’ultimo, accusato di aver fatto parte del complotto del 20 luglio, viene impiccato: è il 4 settembre 1944, e la piccola ha appena 6 anni. La madre, incinta della quarta figlia al momento dell’attentato, viene internata in un campo di lavoro. Vera e le sorelle vengono portate a Bad Sachsa insieme con i figli degli altri congiurati. L’infanzia della futura modella è ricca di traumi e zone grigie: costretta a vagabondare e a chiedere ospitalità a lontani parenti, la giovane nasconde dentro di sé una grande malinconia, la stessa che la porterà, anni dopo, anche a tentare il suicidio.
La bellissima Veruschka studiò ad Amburgo e Firenze. Nel 1959 fu fermata per le strade del capoluogo toscano da un giovane fotografo, colpito dall’altezza vertiginosa della ragazza: si trattava di Ugo Mulas. A lui si deve l’inizio di una carriera unica nel panorama della moda. Tante volte la bionda Veruschka tornerà in Italia: dal suo legame sentimentale, sconfinato in proficuo sodalizio artistico con il fotografo Franco Rubartelli, autore degli scatti più belli della modella, fino a Michelangelo Antonioni, che la diresse in Blow up, manifesto della moda negli Swinging Sixties.
Intanto, dopo essere stata scoperta da Mulas, la teutonica modella si trasferisce a Parigi e a New York, nel 1961: qui però non riscuote il successo sperato. Il mondo della moda non sembra pronto a vedere le potenzialità di quella bellezza mastodontica, che incute quasi timore. Tornata a Monaco di Baviera, Vera tenta di trasformare la propria identità e inizia a fingersi russa. Inoltre in questo periodo cambia il proprio nome in Veruschka. Finalmente la moda sembra improvvisamente accorgersi di lei: Veruschka riesce ad affermarsi, collezionando cover e posando per i più grandi, da Richard Avedon a Bert Stern, da Horst P. Horst ad Henry Clarke, da Gian Paolo Barbieri fino a Peter Beard. Ma è in buona parte grazie agli splendidi scatti realizzati dal suo compagno, il fotografo Franco Rubartelli, che la top model entra nel mito. Lui le dedica anche un lungometraggio, intitolato Veruschka, poesia di una donna (1971).
SFOGLIA LA GALLERY:
Una foto in bianco e nero di Veruschka
La supermodella Veruschka
Foto di Bert Stern, 1970
Veruschka, foto di Johnny Moncada, Firenze 1964
Uno scatto del 1965
Veruschka in “Blow up” (1966)
Zigomi alti e labbra carnose
Veruschka ritratta da Richard Avedon, 1972
Foto Franco Rubartelli, Vogue aprile 1967
Foto di Franco Rubartelli
Veruschka
Foto di Johnny Moncada, Vogue 1962
Foto di Johnny Moncada
Veruschka in una foto di Johnny Moncada, Vogue, 1962
Veruschka in Libano, abito Yves Saint Laurent, foto Franco Rubartelli, Vogue Paris, giugno-luglio 1969
Veruschka, maggio 1970 (Photo by Keystone Features/Getty Images)
Veruschka e il compagno Franco Rubartelli, gennaio 1968
Veruschka, settembre 1970 (Photo by Keystone Features/Getty Images)
Veruschka in una foto di Irving Penn per Vogue, 1965
La modella in una foto che ne esalta il fisico statuario
La modella in una foto simbolo degli anni Sessanta
Veruschka con turbante
Uno scatto dal mood wild
Icona di stile e simbolo degli anni Sessanta
La modella in uno scatto del 1962
Veruschka, foto di Franco Rubartelli per Vogue Paris, 1970
Uno scatto nel deserto dell’Arizona
Veruschka in un tutta la sua bellezza
Indimenticabili i paesaggi esotici che la vedono come una dea pagana, sacerdotessa di un nuovo mondo e di una nuova bellezza: Veruschka è un camaleonte, sempre pronta a modificare la propria immagine per entrare nel ruolo. Arriva anche a svenire per il caldo, nel deserto dell’Arizona, durante la celebre sessione fotografica fortemente voluta da Diana Vreeland, con Rubartelli dietro l’obiettivo fotografico e Giorgio di Sant’Angelo nei panni di uno stylist ante litteram. Come una dea, novella Venere, la vediamo uscire dalle acque anche negli scatti iconici, rimasti a lungo inediti, realizzati da Johnny Moncada. La Vreeland la etichetta come una “diva dallo sguardo freddo e dall’irraggiungibile volto”; gli scatti che vedono protagonista Veruschka sono diversi dalle foto che da decenni comparivano sulle riviste patinate. Per la prima volta nella storia della fotografia, si trattava di scatti d’azione, che ritraevano le modelle in movimento. Insieme a volti come quello di Twiggy, Marisa Berenson, Penelope Tree e Jean Shrimpton, Veruschka diverrà presenza fissa su Vogue e sarà la modella più pagata al mondo.
Nel 1966 arriva la svolta cinematografica con Blow up di Michelangelo Antonioni e Salomè di Carmelo Bene. Poche attrici possono vantare tale fama con una sola battuta prevista sul copione: la splendida Veruschka ci riesce e la sua danza conturbante davanti alla macchina da presa, nel tentativo di sedurre l’obiettivo fotografico, sdogana la pellicola di Antonioni come un vero manifesto fashion, in cui moda e costume si intersecano mirabilmente, sullo sfondo di una Swinging London psichedelica ed alienante.
Intanto la modella sviluppa una passione per il body painting: e saranno forse stati gli scatti che la vedono protagonista, camaleontica come poche, a farle amare quest’arte, a cui la modella si dedicherà assiduamente, in un rinnovato amore universale che le fa abbracciare una nuova visione del mondo, in cui il connubio con la natura diviene quasi primordiale.
Nel 1975 arriva l’addio alla moda per dedicarsi alla fotografia, alla pittura e al cinema. Un piccolo cameo in Agente 007-Casino Royale, nel 1006, la riporta sul grande schermo. Ancora bellissima, Veruschka si è più volte apertamente schierata contro la chirurgia estetica. In una biografia lunga ben 330 pagine, scritta a quattro mani con Jorn Jacob Rohwer ed edita da Barbès Editore, la modella rivela molti aneddoti della sua brillante esistenza, costellata spesso da luci ed ombre, a partire da un’infanzia solitaria. Inoltre è stato anche realizzato un documentario che la vede protagonista, dal titolo Veruschka, una vita per la macchina fotografica, opera di Böhm e Morrissey.
Nasceva oggi Edie Sedgwick, musa storica di Andy Warhol e incarnazione più emblematica dello stile Swinging Sixties. Una vita dai risvolti tragici, segnata da un’infanzia traumatica e dall’abuso di sostanze stupefacenti, l’ereditiera Edie Sedgwick è stata una socialite, modella e attrice statunitense, icona della Pop Art. Viso angelico e bellezza da copertina, grandi occhi da cerbiatto spaurito e fisico esile, Edie Sedgwick era per tutti la It Girl per antonomasia. Diana Vreeland, celebre direttrice di Vogue, coniò per lei il termine “Youthquaker”: e la socialite era effettivamente molto simile ad un terremoto giovanile. Il suo stile, così originale e lontano da ogni schema, ma anche la cifra della sua intera esistenza, vissuta all’insegna dell’edonismo, entrarono profondamente nell’immaginario collettivo di un’epoca.
All’anagrafe Edith Minturn Sedgwick, detta Edie, la giovane nacque a Santa Barbara il 20 aprile 1943 da una famiglia ricchissima. Settima di otto figli, suo padre era Francis Minturn Sedgwick, filantropo e scultore, e sua madre Alice Delano De Forest. Alla piccola venne dato il nome della zia del padre, Lady Edith Minturn, ritratta col marito Isaac Newton Phelps-Stokes in numerosi quadri di John Singer Sargent.
La sua famiglia vantava un impressionante albero genealogico: originari del Massachusetts, uno dei suoi avi era l’anglosassone Robert Sedgwick, primo Generale Maggiore della Massachusetts Bay Colony. Uno dei bisnonni era William Ellery, tra i firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. La madre di Edie era figlia di Henry Wheeler de Forest, Presidente del consiglio di amministrazione della Southern Pacific Railroad e diretta discendente di Jessé de Forest, della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali. Il nonno paterno di Edie era lo storico Henry Dwight Sedgwick III; sua bisnonna era Susanna Shaw, sorella di Robert Gould Shaw, colonnello della Guerra Civile Americana. Inoltre Edie era cugina prima dell’attrice Kyra Sedgwick.
Nonostante l’agiatezza della famiglia, i figli dei Sedgwick erano profondamente infelici. Allevati nei numerosi ranch che la famiglia possedeva in California, i ragazzi vennero istruiti privatamente e costretti a vivere sotto il rigido controllo dei genitori, isolati dal resto del mondo. La giovane Edie già durante l’adolescenza sviluppò dei disturbi del comportamento alimentare, tra anoressia e fame nervosa. All’età di 13 anni iniziò a frequentare la Branson School di San Francisco, ma ben presto fu costretta a lasciare la scuola a causa del suo disturbo alimentare. I piccoli di casa Sedgwick avevano rapporti conflittuali con la figura paterna. Il padre era un narcisista maniaco-depressivo ed era solito intrattenere numerose relazioni extraconiugali. Pare che Edie lo abbia anche colto in fragrante, trovandolo a letto con una delle sue amanti. Per tutta risposta lui le disse che doveva aver immaginato tutto e chiamò un medico affinché le somministrasse dei tranquillanti. Secondo diverse fonti la giovane venne anche molestata sessualmente dal padre, come lei stessa ammise nell’ultimo degli undici film che la vedono protagonista, l’autobiografico Ciao! Manhattan. Nel 1958 Edie si iscrisse alla St. Timothy’s School, nel Maryland, ma ben presto dovette lasciare l’istituto a causa dell’anoressia.
Nell’autunno 1962, su insistenza del padre, venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico Silver Hill Hospital di New Canaan, Connecticut. Nonostante il ricovero, il suo peso corporeo continuava a scendere drammaticamente. Fu mandata quindi a Bloomingdale, New York, dove la sua anoressia diede finalmente segni di miglioramento. Dimessa dall’ospedale, ebbe una breve relazione con uno studente di Harvard: rimasta incinta, abortì, aiutata dalla madre, motivando il gesto con i problemi psicologici che da tempo la attanagliavano. Nell’autunno 1963 si trasferì a Cambridge, Massachusetts, per studiare scultura, insieme alla cugina, l’artista Lily Saarinen, che disse di lei: “Era molto insicura con gli uomini, sebbene tutti la amassero”. In questo periodo divenne amica di un gruppo di bohémien della scena politica di Harvard, che includeva molti gay.
SFOGLIA LA GALLERY:
Edie Sedgwick nel film postumo Ciao! Manhattan, diretto da John Palmer e David Weisman, 1972
Edie Sedgwick in uno scatto di Stephen Shore, 1965
Edie Sedgwick ritratta da Bob Adelman nel giardino dell’appartamento di Andy Warhol, 1965
1965
Edie Sedgwick, Andy Warhol e Chuck Wein ritratti da Burt Glinn a New York nel 1965
Edie Sedgwick e Pat Hartley nel film postumo Ciao! Manhattan, diretto da John Palmer e David Weisman, 1972
1967
Edie Sedgwick e Andy Warhol, 1965
Edie Sedgwick e Andy Warhol in uno scatto di Steve Schapiro, 1965
Edie Sedgwick e Andy Warhol ritratti da Jean-Jacques Bugat, 1965
Edie Sedgwick in body e calze Givenchy, foto di Gianni Penati per Vogue, 1966
Edie Sedgwick, foto di Nat Finkelstein
Edie Sedgwick in uno scatto di Nat Finkelstein, ca. 1965-1966
Edie Sedgwick e Kevin McCarthy in una foto di Bob Adelman, 1965
Edie Sedgwick nell’appartamento di Bud Wirtschafter, foto di David McCabe, 1965
Edie Sedgwick nell’appartamento di Bud Wirtschafter, foto di David McCabe, 1965
Edie Sedgwick per Paraphernalia, foto di Gianni Penati, 1966
Edie Sedgwick a Fisher Island, 1964
Edie Sedgwick a Fisher Island, 1964
Edie Sedgwick ad una festa di Andy Warhol, foto di Bob Adelman, 1965
Edie danzante immortalata ad un party alla Factory, foto di Bob Adelman, 1965
Edie Sedgwick, Chuck Wein e Andy Warhol a New York, foto di Burt Glinn, 1965
Edie Sedgwick, Chuck Wein e Andy Warhol a New York, foto di Burt Glinn, 1965
Edie Sedgwick, foto di David McCabe, 1965
Edie Sedgwick in una foto di Jerry Schatzberg, 1966
Edie Sedgwick in una foto di Jerry Schatzberg, 1966
Edie Sedgwick in una foto di Jerry Schatzberg, 1966
Edie Sedgwick immortalata da Fred Eberstadt per Life, 1965
Edie Sedgwick immortalata da Fred Eberstadt per Life, 1965
Edie Sedgwick e Andy Warhol, foto di Walter Daran, 1965
Edie Sedgwick e Andy Warhol, foto di Steve Shapiro, 1965
Edie Sedgwick, Chuck Wein, Gerard Malanga e Andy Warhol, foto di David McCabe, 1965
Edie Sedgwick e Chuck Wein, 1965
Edie Sedgwick immortalata da Fred Eberstadt per Life, 1965
Edie Sedgwick, foto di Stephen Shore, ca. 1965
Edie Sedgwick, Chuck Wein e Andy Warhol a New York, foto di Burt Glinn, 1965
Edie Sedgwick, foto di Nat Finkelstein
Edie Sedgwick in una foto di Nat Finkelstein, ca.1966
Edie Sedgwick, foto di Nat Finkelstein, ca. 1965-1966
Edie Sedgwick e Gino Piserchio immortalati da Bob Adelman nel film Beauty No.2 di Andy Warhol, 1965
Edie conobbe presto la sofferenza, con la prematura scomparsa dei suoi due fratelli maggiori, Francis Jr., detto Minty, e Robert, detto Bobby, che morirono nel giro di 18 mesi l’uno dall’altro. Il primo, alcolizzato già a quindici anni, nel 1964 si suicidò impiccandosi mentre era ricoverato al Silver Hill Hospital. Bobby, anche lui sofferente di problemi di natura psichica, nel 1965 si schiantò contro un autobus con la sua moto, a New York. Ma secondo Edie anche in questo caso dovette trattarsi di suicidio. Poco prima della morte di Francis la ragazza si trasferì nella Grande Mela per tentare la carriera di modella. Iniziò in questo periodo ad assumere sostanze stupefacenti, tra cui LSD. Nel marzo 1965 l’incontro che segnò la sua vita, con l’artista Andy Warhol, che conobbe ad una cena nell’appartamento di Lester Persky. Warhol, rimasto affascinato dallo charme della giovane socialite, la invita nel suo studio, The Factory. In quel periodo l’artista stava girando Vinyl, basato sul romanzo Arancia Meccanica. Sebbene tutto il cast fosse maschile Warhol volle assolutamente inserirvi Edie, che fece un cameo anche in Horse. In breve la ragazza divenne musa di Wahrol e presenza fissa alla Factory e comparve in molti dei suoi film d’avanguardia, a partire da Poor Little Rich Girl, originariamente concepito come una saga di cui Edie doveva essere protagonista. Le riprese iniziarono nel marzo del 1965 nel suo appartamento. Tra le altre pellicole girate che vedevano protagonista la ragazza troviamo Kitchen, del 1965, scritto da Ronald Tavel, Beauty No.2, Outer and Inner Space, Prison, Lupe e Chelsea Girls. I film di Warhol non erano prodotti commerciali e raramente venivano proiettati fuori dalla Factory ma nonostante tutto la fama di Edie crebbe in modo esponenziale, e il suo senso innato per lo stile le permise di imporsi come una delle più grandi icone degli anni Sessanta.
Calzamaglia nera, mini abiti a righe, orecchini chandelier, pellicce animalier: questo era uno degli outfit più caratteristici della it girl. Capelli sbarazzini, il bianco e nero optical, il suo stile ha segnato un’epoca. Foto iconiche la immortalano su LIFE nel settembre 1965 e su Vogue nel marzo 1966. Divenuta la Superstar di Warhol, è la Girl of the Year nel 1965. Dal 1965 al 1967 il sodalizio artistico e l’amicizia che la lega a Warhol appaiono inossidabili. I due si assomigliano, l’affinità elettiva che li lega trascende qualsiasi confine, al punto che Warhol sembra essere la controparte maschile di Edie. Tantissime sono le foto che li ritraggono insieme: pose plastiche, tanta ironia, mise eccentriche, sguardi complici e arte allo stato puro. Ma alla fine del 1967 qualcosa si spezzò nel loro rapporto. Edie si trasferì al Chelsea Hotel, dove divenne amica di Bob Dylan. La ragazza prese una sbandata per il cantautore, convinta che si trattasse di un sentimento reciproco, e visse nell’illusione che una meravigliosa storia d’amore stesse per iniziare. Ma Dylan nel novembre 1965 sposò segretamente Sara Lownds. Secondo i rumours la povera Edie venne informata dell’accaduto da Warhol nel febbraio 1966. Per il già precario equilibrio della giovane, questo fu il colpo di grazia. Provò a consolarsi gettandosi in una relazione con Bob Neuwirth, amico di Dylan, e in questo periodo iniziò la sua dipendenza da barbiturici. All’inizio del 1967, incapace di gestire la dipendenza della ragazza, Neuwirth interruppe la relazione.
Figura controversa nel panorama artistico, amata e odiata in egual misura, l’ex stella della Factory ancora giovanissima stava già suo malgrado per avviarsi sul viale del tramonto: tanto per cominciare non riuscì mai a diventare la lead singer dei Velvet Underground, che le preferirono Nico, bellissima cantante di origine tedesca dalla voce roca. Nico spodestò Edie non solo nel mondo musicale, ma anche nel cuore di Warhol. Intanto parlavano di lei personaggi del calibro di John Cage, Truman Capote, Patti Smith, Lou Reed, Allen Ginsberg, Roy Lichtenstein, Gore Vidal.
Successivamente Edie tentò con altrettanta sfortuna la carriera di attrice, facendo dei provini anche per Norman Mailer. Nel marzo 1967 iniziò le riprese di Ciao! Manhattan, un film semi-autobiografico diretto da John Palmer e David Weisman. In questo periodo, presumibilmente in uno stato di coscienza alterato dalla droga, diede accidentalmente fuoco alla sua camera al Chelsea Hotel con una sigaretta e finì in ospedale per le ustioni riportate nel rogo. A causa del peggioramento delle sue condizioni fisiche, dovuto all’abuso di sostanze stupefacenti, le riprese del film furono sospese. Dopo frequenti ricoveri per droga e disturbi psichici, tra il 1968 e il 1969, Edie fece ritorno in California per trascorrere un periodo di riposo con la sua famiglia. Nell’agosto 1969 tuttavia venne nuovamente ricoverata dopo essere stata arrestata per possesso di droga. La vita di Edie Sedgwick, così straordinariamente fuori le righe, vide allora un nuovo colpo di scena: proprio nel nosocomio la bella attrice ebbe un colpo di fulmine per un paziente, Michael Breet Post. Con lui convolerà a nozze il 24 luglio 1971.
Seguì un nuovo ricovero nell’estate del 1970. Dimessa, la giovane era tenuta sotto controllo da uno psichiatra e dalle amorevoli cure del regista John Palmer e di sua moglie Janet. Determinata a finire le riprese di Ciao! Manhattan, in cui racconta se stessa e la sua storia, Edie si spostò a Santa Barbara. Il film venne finalmente terminato all’inizio del 1971 ma non sarà distribuito fino al febbraio dell’anno seguente. Dopo le nozze con Michael Post la ragazza limitò l’abuso di alcol e di droghe. Ma nell’ottobre 1971 cadde nuovamente nella dipendenza da alcol e barbiturici. La notte del 15 novembre 1971 Edie era invitata ad una sfilata di moda al museo di Santa Barbara. Dopo la sfilata seguì un party in cui la ragazza consumò diversi alcolici. Poi telefonò al marito perché la venisse a prendere. La mattina seguente quest’ultimo la trovò senza vita. Il medico legale stabilì che la morte era dovuta a causa indeterminata/incidente/suicidio. Il certificato di morte parla di probabile intossicazione acuta da barbiturici dovuta al mix con l’alcol. La giovane venne sepolta al cimitero di Oak Hill, a Ballard, California. Sua madre Alice fu sepolta accanto a lei nel 1988.
Edie Sedgwick continua ad ispirare intere generazioni che in tutte le arti, dal cinema alla musica alla moda, celebrano il suo stile e la sua vita. Il film Factory Girl di George Hickenlooper del 2006 si ispira a lei: nei panni della giovane icona una bravissima Sienna Miller. La pellicola ha destato scalpore a causa delle dichiarazioni rilasciate poco prima dell’uscita del film dal fratello maggiore di Edie Sedgwick, Jonathan, il quale ha affermato che la sorella gli avrebbe confidato di aver abortito un figlio che aspettava da Dylan. Il cantautore dopo la morte della ragazza aveva smentito più volte di aver mai intrattenuto una relazione di tipo sentimentale con lei. Ma secondo i rumours proprio all’eccentrica socialite sarebbero dedicate alcune delle sue canzoni più belle, da “Like a Rolling Stone” a “Just like a woman”. I Velvet Underground scrissero in sua memoria “Femme fatale”. Edie Sedgwick si aggiunge alla lista di giovani belli e dannati, scomparsi troppo presto, da Marilyn Monroe a James Dean, da Jim Morrison a Janis Joplin. Di lei restano le numerosissime foto, che immortalano una ragazza bellissima e fragile.
Si è spento ieri all’età di 92 anni André Courrèges, designer che rivoluzionò la moda degli anni Sessanta. Allievo di Cristobal Balenciaga, la sua è stata una carriera leggendaria che lo ha portato a brillare nel firmamento della moda internazionale, accanto a nomi del calibro di Pierre Cardin, Mary Quant, Paco Rabanne.
Pioniere dello stile spaziale che caratterizzò la moda degli Swinging Sixties, è considerato l’ideatore della minigonna, capo che rivoluzionò il guardaroba femminile, la cui paternità risulta ancora oggi contesa tra lui e Mary Quant. Visionario, rivoluzionario, audace, il suo stile era proiettato verso un futuro robotico e spaziale, tra suggestioni optical, arditi giochi geometrici e quel mood da space-oddities che trova in Courrèges sublime esponente. Amatissimo da Jackie Kennedy, Gianni e Marella Agnelli, vestì Audrey Hepburn e Françoise Hardy.
Nato a Pau il 9 marzo 1923, figlio di un maggiordomo, dopo aver conseguito una laurea in ingegneria civile prende parte alla Seconda Guerra Mondiale come pilota di aerei ma il suo sogno è la moda. Nel 1949 viene assunto da Balenciaga come tagliatore, lavoro che porta avanti per oltre 11 anni. Nel 1963 inaugura il proprio atelier insieme alla moglie Coqueline Barrière. La concorrenza è alta, e se porta il nome di Coco Chanel il gioco si fa davvero duro: mademoiselle Coco si erge a roccaforte di quella femminilità che a suo dire Courrèges sarebbe reo di aver sottratto alle donne. Lui dal canto suo si difende puntualizzando quanto il suo stile futurista ringiovanisca quelle stesse donne, liberandole da anni di costrizioni. In breve il couturier si afferma come uno dei nomi più amati dell’alta moda francese.
SFOGLIA LA GALLERY:
Foto di William Klein, 1965
Foto di F.C. Gundlach, 1965
Catherine Deneuve in Courrèges, 1965
Foto di Pierre Boulat, 1965
Simone d’Aillencourt in André Courrèges, 1964, foto di John French
Foto di F.C. Gundlach, 1965
André Courrèges 1965
1968
Il mood space-age caratterizzò le collezioni Courrèges
Astrid Schiller in Courrèges, Parigi 1965, foto di F.C. Gundlach
Foto di John French
Marisa Berenson in Courrèges, foto di Andre Carrara
Armelle Engel in Courrèges
Courrèges fu allievo di Balenciaga
Courrèges per Elle, 1965, foto di Peter Knapp
Foto di Peter Knapp, Courrèges su Elle, 1965
Lo stilista immortalato da Peter Knapp
Modelle in André Courrèges
Simone d’Aillencourt in Courrèges, Parigi 4 febbraio 1965, Eskimo Collection, foto di Richard Avedon
Tilly Tizzani in Courrèges, 1962, foto di William Klein
Lo stilista con i suoi celebri occhiali Lunettes
Cappotto Courrèges
Oblò su abiti a trapezio
Fiori e oblò
Collezione 1968/’69
Vogue 1972
Diana Ross in André Courrèges fotografata da Bert Stern
4.1.1
Life Magazine, 1965
Life Magazine, 1965
Ina Balke in Courrèges, 1965
Jean Shrimpton in Courrèges, Harper’s Bazaar Aprile 1965, foto di Avedon
Astrid Heeren in Courrèges, 1963, foto di Philippe Pottier
Foto di F.C. Gundlach, 1965
1965, foto di F.C. Gundlach
Melanie Hampshire in Courrèges, Harper’s Bazaar, 1965 foto di Melvin Sokolsky
Catherine Deneuve in André Courrèges, foto di David Bailey per Vogue Paris
1965, foto di F.C. Gundlach
Courrèges su L’Officiel Magazine 1969
Foto di John French, 1964
L’Officiel, 1969
L’Officiel, 1969
Il suo stile è inconfondibile: le linee essenziali e pulite, il minimalismo degli abitini a trapezio, le gonne in vinile, indossate con il pullover e i celebri go-go-boots, innovativi stivali con tacco basso, perfetti per slanciare le gambe. Il bianco, alternato alle stampe otpical e alle righe, il trionfo dell’argento, per una donna siderale. Le sue collezioni futuriste e ultramoderne non temono la sperimentazione più ardita e l’uso di materiali inusuali, come il PVC, il vinile, il crochet. Le sue mannequin incarnano il mito della conquista dello spazio, tra stelle e galassie stilizzate, mentre oblò fanno capolino da little dress. Uno stile che molti definiscono “automobilistico”, per le cromie e i materiali usati, ma anche per l’energia e lo sprint che lo caratterizza. Il mood dei défilé di Courrèges sembra preso in prestito direttamente da film come 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Filmati girati in location parigine con mannequin che sembrano quasi creature aliene.
Nel 1972 realizza le divise per le Olimpiadi di Monaco. Dagli anni Settanta firma anche accessori, tra cui i celebri occhiali da sole Lunettes Eskimo, lanciati sul mercato nel 1965, ma anche ombrelli, gioielli, profumi, capi per l’infanzia e abiti da sposa. Nel 1984 si trasferisce a Tokyo. Nel 1994 il ritiro, a cause della battaglia più dura, contro il morbo di Parkinson. Courrèges, ormai stanco e malato, cede il brand che porta il suo nome al gruppo giapponese Itokin. Ieri lo stilista si è spento nella sua abitazione di Parigi. Lo ha ricordato oggi il presidente francese François Hollande. Con lui sparisce un tassello fondamentale della storia del costume e uno dei designer più originali di sempre.
Spegne oggi 78 candeline Jane Fonda. Attrice di fama mondiale, icona di bellezza e guru dell’aerobica, una carriera sfolgorante che l’ha resa un vero e proprio mito: vincitrice di ben due Premi Oscar, 6 Golden Globe e innumerevoli altri riconoscimenti, protagonista di pellicole che sono entrate di diritto nella storia del cinema, Jane Fonda è stata attrice simbolo di almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La bellezza e la maliziosa sensualità, il glamour e le atmosfere spaziali di Barbarella, l’indimenticabile film che le diede la fama a livello internazionale, e poi l’impegno politico e il femminismo, di cui la diva è stata pasionaria.
Jane Seymour Fonda è nata a New York il 21 dicembre 1937, da Henry Fonda e Frances Seymour Brokaw. Nelle sue vene scorre sangue inglese, scozzese, francese e italiana; i suoi antenati per linea paterna emigrarono nel Cinquecento da Genova nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Seicento nelle colonie britanniche del Nord America, in una cittadina attualmente chiamata Fonda, nell’attuale stato di New York. La bella Jane vanta origine italiana anche dal ramo materno, in quanto discendente dell’aristocratico vicentino Giovanni Gualdo. Il matrimonio infelice dei suoi porta la madre di Jane a compiere un gesto disperato, togliendosi la vita; il padre, tolti i panni di divo cinematografico, nella vita domestica è un uomo freddo e distaccato, che non fa che ripeterle che è grassa e che dovrebbe dimagrire. Come la stessa Jane Fonda dichiarerà più avanti nel corso delle sue interviste, il sentirsi disprezzata da parte del padre fu la molla che la gettò nel baratro dei disturbi alimentari.
La giovane Jane non sembra inizialmente interessata alla carriera cinematografica. Dopo il diploma, conseguito presso il Vassar College, e dopo un periodo trascorso in Europa, fa ritorno negli States con l’intenzione di lavorare come modella. Il volto dai lineamenti vagamente infantili, i capelli biondi e la grande fotogenia colpiscono fotografi del calibro di Horst P. Horst, che la immortala su Vogue nel corso degli anni Cinquanta. Ma è l’incontro con Lee Strasberg ad aprirle le porte del cinema, convincendola a frequentare le lezioni di recitazione presso il celebre Actor’s Studio. Il debutto cinematografico avviene nel 1960 con In punta di piedi, dove Jane Fonda recita accanto ad Anthony Perkins. Nel corso degli anni Sessanta l’attrice prende parte a numerosi film di successo, alternando con disinvoltura il genere drammatico alla commedia. Ha come partner lavorativi attori celebri, da Marlon Brando a Robert Redford, con cui recita nell’indimenticabile A piedi nudi nel parco.
Sbarazzina e insieme sofisticata, nel 1964 Jane viene inserita dal regista Roger Vadim nel cast di Il piacere e l’amore. Tra i due nasce una relazione amorosa che sfocia in un matrimonio, celebrato l’anno successivo. Vadim intuisce fin da subito il potenziale erotico dell’attrice e la dirige in pellicole che la consacrano come sex symbol internazionale. La fama arriva con il celebre film Barbarella, del 1968, interamente incentrato sulla bellezza della protagonista, su uno sfondo fantascientifico. Ma a Jane Fonda l’etichetta sexy sta stretta: la diva è troppo intelligente per non capire quanto la sua strabordante sensualità possa essere un’arma a doppio taglio, che alla lunga rischia di comprometterne le capacità drammatiche. Icona femminista, la diva si ribella all’immagine di bella svampita che i media le attribuiscono e scende in politica, come attivista contro la guerra del Vietnam. La sua visita ad Hanoi assume portata quasi storica, come anche la sua propaganda filo-nord-vietnamita. L’opinione pubblica si schiera apertamente contro di lei e le affibbia il soprannome di “Hanoi Jane”. Solo molti anni più tardi l’attrice rivedrà le sue posizioni politiche, commentandole a posteriori con rinnovato senso critico.
Intanto indirizza la sua carriera verso ruoli di maggiore spessore drammatico: arriva così nel 1969 la prima delle sue sette candidature all’Oscar con il film Non si uccidono così anche i cavalli?, di Sydney Pollack; nel 1971 vince l’Oscar come miglior attrice protagonista con Una squillo per l’ispettore Klute, nel ruolo della prostituta Bree Daniel. La seconda statuetta arriva nel 1978 per Tornando a casa di Hal Ashby. Intanto il matrimonio con Vadim naufraga e Jane sposa in seconde nozze il politico Tom Hayden, che ha un passato da pacifista. Nei primi anni Ottanta prende parte al film Sul lago dorato, dove recita per la prima ed unica volta accanto al padre Henry. Successivamente accantona la carriera cinematografica per abbracciare la nuova passione per la fitness. I suoi video di esercizi di ginnastica aerobica divengono un vero e proprio fenomeno. L’attrice, dopo anni di lotta contro la bulimia, sdogana l’esercizio fisico come nuova moda, e neanche un infarto riesce a fermarla. Nei primi anni Novanta il terzo matrimonio con il magnate della comunicazione Ted Turner, che durerà un decennio.
SFOGLIA LA GALLERY:
La bellezza di Jane Fonda
La diva è nata a New York il 21 dicembre 1937
Jane Fonda nel 1962
Jane Fonda in uno scatto del 1964 realizzato da Virgil Apger
Jane Fonda ritratta da Mark Shaw
La diva è sex symbol di fama mondiale
Jane Fonda su Vogue, settembre 1959, foto di Karen Radkai
Bellezza spontanea per Jane Fonda
Uno scatto di Allan Grant per LIFE
Jane Fonda ritratta da Allan Grant
La diva si è ribellata all’immagine sexy affibbiatale dai media
L’incontro con Lee Strasberg le aprì le porte del cinema
Bomba sexy negli anni Sessanta
Jane Fonda in Chanel, foto di Willy Rizzo, 1964
Uno scatto degli anni Sessanta
Jane Fonda in “Barbarella”
L’attrice ha dichiarato di aver sofferto per anni di bulimia
Una giovanissima Jane Fonda
Jane Fonda a Venice Beach, Beverly Hills, foto di Willy Rizzo, 1962
Jane Fonda sul set di “Barbarella”
Uno scatto del 1962
Jane Fonda sul set in Costa Azzurra (Foto di Francois Pages/Paris Match via Getty Images)
Jane Fonda sul set di “Il piacere e l’amore” di Vadim
Jane Fonda sul set di “Barbarella”, foto di David Hurn, Roma, 1967
Ancora dal film “Barbarella.” Foto di Carlo Bavagnoli 1967
Bellissima nelle atmosfere fantascientifiche di “Barbarella”
L’attrice è attivista politica e femminista convinta
Negli anni Ottanta Jane Fonda divenne guru dell’aerobica
Jane Fonda su W Magazine, 2015
L’attrice è ancora bellissima anche con il passare degli anni
Icona femminista, Jane Fonda si è apertamente schierata contro l’emarginazione in cui vengono relegate le donne di una certa età ad Hollywood come anche nella vita comune. Celebre la sua presa di posizione al riguardo, per cui “se un uomo ha molte stagioni, una donna ha diritto solo alla primavera.” Attiva sul piano umanitario, la diva nel 2001 ha donato alla Scuola di Educazione dell’Università di Harvard la somma di 12.5 milioni di dollari, al fine di creare un “Centro per gli Studi educativi”: secondo l’attrice la cultura dominante darebbe messaggi sbagliati e diseducativi alle future generazioni che distorcerebbero i rapporti tra uomini e donne. Nel 2005 è stata pubblicata la sua autobiografia, intitolata La mia vita finora. Vulnerabile e insieme tagliente, la diva ha recentemente ammesso di essere ricorsa al bisturi, e che in virtù di tali interventi estetici avrebbe guadagnato un altro decennio di attività lavorativa, in un ambiente in cui invecchiare è considerato quasi uno scandalo. Il suo volto non ha perso fortunatamente la straordinaria espressività che ce l’ha fatta amare in film indimenticabili. Ancora splendida nonostante il passare del tempo, sagace ed ironica come di consueto, ha ammesso che il sesso costituisce oggi una parte fondamentale della sua vita. Attualmente residente ad Atlanta, in Georgia, la diva ha iniziato un percorso di rinascita per abbracciare la fede cristiana.
Spegne oggi 69 candeline Jane Birkin. Bellezza iconica degli anni Sessanta e Settanta, spregiudicata, maliziosa come nessuna, l’attrice e cantante britannica non ha perso assolutamente il suo celebre fascino.
La caratteristica frangetta, il sedere rotondo immortalato in foto scandalose al fianco di Serge Gainsbourg: non c’è dettaglio della vita di Jane Birkin che non sia divenuto iconico, dai suoi amori ai suoi film. Incarnazione dello stile fresco eppure sofisticato tipicamente anni Sessanta, l’attrice è uno dei volti più noti e più chiacchierati degli ultimi cinquant’anni.
Nata a Londra il 14 dicembre 1946, Jane Mallory Birkin discende da una famiglia che ha fatto fortuna con l’industria del merletto nel Nottinghamshire. Il fascino doveva essere nel DNA, dal momento che una sua prozia, Winifred (Freda) May Birkin, poi sposata con William Dudley Ward, fu amante del Principe di Galles (il futuro Edoardo VIII del Regno Unito, nonché Duca di Windsor). Il padre della bella Jane, il maggiore David Birkin, era stato comandante della Royal Navy ed eroe della seconda guerra mondiale e fu coinvolto anche in vicende di spionaggio; la madre era l’attrice e cantante Judy Campbell (pseudonimo di Judy Gamble), famosa per le sue interpretazioni nei musical di Noël Coward.
Occhi da cerbiatto e fascino torbido che fa capolino dietro l’aria innocente, Jane comincia la carriera di attrice teatrale all’età di 17 anni: siamo nella Swinging London e il suo stile ammalia un nome storico della moda made in UK del calibro di Ossie Clark. Successivamente Jane fa il suo esordio come cantante in un musical: è in questo contesto che conosce il compositore inglese John Barry (autore anche di alcune musiche per i film di James Bond): tra i due nasce una relazione che sfocia in un matrimonio celebrato quando Jane ha appena 19 anni. Dalle nozze nasce la prima figlia della futura icona di stile, Kate Barry, nata nel 1967 (scomparsa prematuramente a Parigi, probabilmente suicida, l’11 dicembre 2013, dopo essere precipitata dal quarto piano del suo appartamento nel XVI Arrondissement).
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L’esordio cinematografico di Jane Birkin avviene con il film “Non tutti ce l’hanno” (The Knack …and How to Get It) di Richard Lester, ma è con la pellicola successiva, l’indimenticabile Blow-up di Michelangelo Antonioni, che l’attrice ottiene la fama. Una scena la immortala in topless: la bellezza acqua e sapone la rende immediatamente un’icona della scena londinese. Nel 1968 l’attrice si trasferisce in Francia: qui avviene l’incontro della vita, con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, con cui intraprende una relazione che durerà fino al 1980. Una coppia inimitabile, il fascino di lui capace di sposarsi così bene con la bellezza di lei, musa quasi forgiata dalle mani esperte e dalla fantasia del grande cantautore francese. Nel 1969 arriva la canzone scandalo, con tanto di gemiti e sospiri, Je t’aime…moi non plus, originariamente incisa da Gainsbourg insieme a Brigitte Bardot e poi cantata invece con la Birkin. Due anni più tardi, nel 1971, nasce Charlotte Gainsbourg, che diventerà anche lei attrice e cantante.
Al termine della relazione con Gainsbourg, Jane Birkin ha continuato con grande successo la carriera di attrice. Inoltre la diva ha trovato un nuovo amore nel regista francese Jacques Doillon, da cui ha avuto la figlia Lou, nata nel 1982 e divenuta famosa come modella. Una carriera sfolgorante nel cinema e nel teatro, un’immagine che le ha permesso di divenire una vera e propria icona, un’esperienza anche come fashion designer al fianco della figlia Lou (le due hanno firmato insieme una collezione per il brand La Redoute), Jane Birkin ha anche una borsa a suo nome, la mitica Birkin firmata Hermès, che la diva ha recentemente rinnegato per motivi ambientalisti. Vero e proprio oggetto di culto, It Bag tra le più costose al mondo (il prezzo varia dai 6.000 ai 120.000 euro), la celebre borsa porta il nome dell’attrice, che però lo scorso luglio ne ha disconosciuto la paternità.
Oggi la diva compie 69 anni: bellezza naturale, fieramente contraria alla chirurgia estetica, gli anni non ne hanno minimamente scalfito la classe e il grande fascino.
Se ne andava quattro anni fa una delle più famose icone di stile del Novecento. Musa storica di Yves Saint Laurent e protagonista indiscussa della moda dagli anni Sessanta in poi, Loulou de la Falaise è stata l’icona fashion più famosa dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Musa per antonomasia della Rive Gauche di monsieur Yves, incarnò la quintessenza dello stile bohémien divenendo a sua volta una brillante designer di gioielli. All’anagrafe Louise Vava Lucia Henriette le Bailly de la Falaise, Loulou nacque in Inghilterra il 4 maggio 1948 dalla modella anglo-irlandese Maxime Birley, amata da Cecil Beaton, e dal marchese Alain de La Falaise, grande intellettuale.
Battezzata con il profumo Shoking di Elsa Schiaparelli anziché con l’acqua benedetta, come lei stessa dichiarò, Loulou ebbe un’infanzia travagliata: le numerose relazioni extraconiugali della madre portarono i genitori al divorzio e quest’ultima perse la custodia dei due figli, Loulou e Alexis, che furono affidati a delle case famiglia.
Nelle vene di Loulou scorreva sangue inglese, irlandese e francese: ribelle per natura, la piccola venne espulsa da ben tre scuole, in Sussex, a Gstaad e a New York. Ma è nella Grande Mela che inizia per la giovane una carriera che la porterà a divenire una delle maggiori icone di stile mai esistite. Le sue gambe chilometriche e il suo charme androgino incantano la celebre editor Diana Vreeland che la ingaggia come modella facendola ritrarre da nomi del calibro di Richard Avedon e Irving Penn. Tuttavia la personalità scoppiettante della giovane le rende presto odioso il lavoro di modella: Loulou ha troppo da dire per amare quella professione fatta di pura immagine. La giovane vola quindi alla volta di Londra, dove inizia a lavorare per Queen Magazine. Ad appena 18 anni convola a nozze con l’aristocratico irlandese esperto di storia dell’arte Desmond FitzGerald, da cui divorzierà nel 1970.
Nella cornice di Carnaby Street nel 1968, anno passato alla storia, sarebbe avvenuto secondo le fonti più attendibili il primo incontro tra Loulou de la Falaise e Yves Saint Laurent. Erano gli anni della Swinging London, e da lì in poi prese il via la più grande rivoluzione culturale del Novecento. “Più eri giovane e più autorità avevi, nella Londra di allora”, affermò più avanti l’icona di stile, ricordando quel periodo della sua vita.
Incoraggiato dal partner storico Pierre Bergé, Saint Laurent aveva iniziato a disegnare collezioni di prêt-à-porter e aveva da poco aperto la sua mitica boutique sulla Rive Gauche, seguita da un’altra boutique, inaugurata a Londra nel 1969. In quest’ultima impresa il couturier era appoggiato da Betty Catroux e da Loulou, entrambe sue modelle e muse. All’epoca Loulou aveva 21 anni e già un divorzio alle spalle.
Il suo stile rappresenta la quintessenza del boho-chic, con una predilezione per accessori vintage e gioielli etnici. Innamoratosi del suo charme, Yves la vuole al suo fianco a Parigi. Il ruolo che Loulou dovrà ricoprire è indefinito: è così che in breve l’icona di stile si ritrova a disegnare gli accessori e gioielli per le collezioni della celebre maison. Il suo look androgino avrebbe ispirato la collezione di Yves Saint Laurent del 1966, con protagonista il celebre smoking. Il genio creativo del couturier carpì a lungo ispirazioni dal guardaroba eclettico ed originale di Loulou. “Una settimana era una novella Desdemona in velluto porpora e corona di fiori e la settimana dopo era una Marlene Dietrich”: con queste parole monsieur Yves descriveva lo stile dell’amica. Un’amicizia che segnò per sempre le loro vite: sarà Yves a disegnare per Loulou l’abito da sposa per il suo secondo matrimonio con Thadée Klossowski de Rola, figlio del celebre pittore Balthus, celebrato nel 1977 con una cerimonia indiana organizzata dallo stesso couturier nella cornice di Chalet des île del bois de Boulogne, poco distante da Parigi. Loulou appariva raggiante in un turbante di piume, lunghe collane folk e pantofoline stile indiano. Dal matrimonio nacque la figlia Anna. Più che una musa, termine che l’icona non perse mai occasione di bistrattare apertamente, Loulou de la Falaise fu per oltre quarant’anni spalla destra e intima amica di Yves Saint Laurent.
Al ritiro di Saint Laurent, nel 2002, dopo oltre trent’anni trascorsi a disegnare accessori e gioielli per le sue collezioni, Loulou lanciò la propria linea di abbigliamento, che comprendeva prêt-à-porter, gioielli e accessori. Dettagli di stile per veri intenditori, nelle sue collezioni si trovava il migliore tweed inglese; i pantaloni ricordavano la linea di quelli usati dai marinai francesi, mentre completavano il look sofisticate bluse di seta e cappotti profilati di pelliccia. La sua è una clientela di élite, innamorata in primis del suo stile, che Loulou riesce magistralmente a traferire ai suoi gioielli. Loulou de la Falaise disegnò anche porcellane e vasi per Asiatides e gioielli per la boutique di Yves Saint Laurent ubicata nei Giardini di Majorelle a Marrakech, e aprì due negozi a Parigi, uno dei quali fu progettato dal fratello Alexis. Celebre il suo appartamento parigino e la sua casa in Normandia, arredati con gusto boho-chic. Lo charme parigino dell’icona di stile è stato celebrato nel libro Loulou de la Falaise (Ed. Rizzoli Usa), corredato da oltre 400 fotografie di nomi come Helmut Newton e Richard Avedon, Steven Meisel e Bettina Rheims. La designer si è spenta il 5 novembre 2011, ad appena 63 anni, nell’ospedale di Gisors, in Francia, a causa di un male incurabile. Tenuta segreta fino all’ultimo, la malattia ha posto fine prematuramente alla vita della più famosa icona della moda degli anni Settanta. Uno stile indimenticabile, che ancora oggi rivive nella Rive Gauche.
Ci sono nomi che, oltre ad aver reso la moda italiana famosa in tutto il mondo, le hanno conferito una magia ed uno charme talmente unici ed irripetibili da essere ricordati in eterno. La storia di Emilio Pucci è ricca di nobiltà e di avventura, sullo sfondo di una Firenze patrizia fino alla conquista degli States e all’affermazione della maison italiana nel mondo.
Emilio Pucci, marchese di Barsento, nacque a Napoli il 20 novembre 1914 dalla nobile famiglia fiorentina dei Pucci. Provetto sciatore, nel 1934 viene selezionato dalla squadra nazionale olimpica italiana di sci e partecipa alle Olimpiadi invernali del 1936.
Il giovane Emilio coltiva la passione per lo sci e per la pittura. Dopo aver vinto una borsa di studio presso il Reed College, nell’Oregon, dove avrebbe dovuto continuare i suoi allenamenti nello sci, sorprende tutti disegnando l’uniforme della squadra. I suoi primi bozzetti nascono così, in modo del tutto spontaneo e casuale, ma rivelano un genio ed un estro sorprendenti.
Dopo aver concluso un master in scienze sociali negli States, l’eclettico aristocratico non torna in Italia ma si imbarca su una vecchia nave e parte per un improvvisato giro del mondo, impresa che paga cara al suo rientro in patria, dove viene accusato dalle autorità militari di renitenza alla leva.
Prima di avvicinarsi alla moda il marchese fu un grande sportivo: dopo essersi arruolato nella Regia Aeronautica nel 1938, lavorò come istruttore di sci al Sestriere. Rientrato nella sua Firenze, avviene l’incontro che segna la sua vita, con la moda, di cui l’inconsapevole designer cambierà il corso. Anche in questo campo, la fortuna di Emilio Pucci proviene ancora una volta dal mondo dello sport, oltre che da un indescrivibile talento come disegnatore di bozzetti: dopo aver creato, quasi per gioco, una tenuta da sci per un’amica, nel 1947, viene immortalato con quest’ultima dalla fotografa di moda Toni Frissell sul numero di dicembre di Harper’s Bazaar. Quella tuta da sci improvvisata dai colori fluo colpisce l’attenzione dei media e diventa must have ante litteram della moda invernale.
L’aristocratico dal gusto innato viene incoraggiato dall’inaspettato successo a proseguire sulla strada della moda: è Capri la location scelta per aprire la sua prima boutique, nel 1950. La personalità e l’originalità pagano sempre, e quei colori brillanti su stampe dai motivi così particolari rappresentano fin da subito qualcosa di assolutamente inedito nel panorama della moda italiana e mondiale. Pioniere della moda italiana e perspicace trendsetter, il marchese partecipa l’anno seguente, nel febbraio del 1951, alla prima sfilata di moda mai organizzata in Italia, realizzata grazie a Giovanni Battista Giorgini a Firenze, nella mirabile location di Villa Torrigiani.
Emilio Pucci si impone in brevissimo tempo come uno dei protagonisti più amati delle passerelle fiorentine. Le sue creazioni, dalle fantasie optical e dalle cromie esplosive, unite alla cura nella scelta di tessuti pregiati, sdoganano in breve lo stilista anche all’estero: “The Prince of Prints”, il principe delle stampe, è il nome assegnatogli dalla stampa anglosassone. Nel 1954 avviene una prima consacrazione ufficiale in America, con l’assegnazione del prestigioso Neiman-Marcus Award. Mentre la moda guarda sempre più a Parigi, all’Haute Couture di nomi come Christian Dior e al suo New Look dal gusto classico, Emilio Pucci crea una nuova concezione dello stile, che privilegia la comodità e le stampe.
Capostipite di quello che oggi viene chiamato Sportswear, la libertà sembra essere ciò che più gli preme, per capi drappeggiati e morbidi in tessuti come la seta, l’organza, la gabardine e la mussoline. Definito da Giovanni Sartori “un grande cavaliere antico”, Pucci scglie come suo quartier generale per la sua casa di moda Palazzo Pucci in via de’ Pucci: è la sua Firenze ad ispirarlo, e l’antico palazzo nobiliare è ancora oggi sede della maison. Suggestive e pregne di un gusto indimenticabile, le foto scattate sul tetto del palazzo di famiglia, forse simbolo per antonomasia del gusto del marchese e della sua visione dell’eleganza. Innumerevoli saranno le modelle ad indossare capi Emilio Pucci: celebri le foto scattate da Henry Clarke e Gian Paolo Barbieri, con modelle del calibro di Marisa Berenson e Benedetta Barzini, solo per citarne alcune. Tute dal sapore etnico, pigiama palazzo che ricordano l’Oriente, e ancora turbanti e dettagli che profumano di terre lontane: lo stile Emilio Pucci affascina con un mix di storia e ricercatezza, per capi sofisticati come pochi.
Dopo aver brevettato nel 1960 “emilioform”, un tessuto leggero composto da helanca mixata a shantung di seta, nel 1966 Pucci lanciò il suo primo profumo, Vivara. Nel 1956 creò una delle sue collezioni più celebri, ispirata alla Sicilia, rappresentata mirabilmente da indimenticabili scatti ambientati a Monreale; l’anno seguente fu il Palio di Siena ad ispirarlo, e nel 1959 le opere del Botticelli. Nel 1967 portò le sue sfilate nel palazzo di famiglia, e nello stesso periodo disegnò le uniformi per le hostess della Braniff International Airways. Avanti rispetto ai tempi, la collezione, denominata Gemini 4, vede un mood da space oddity, ed è seguita dalla creazione del logo per la missione speciale della NASA denominata Apollo 15. In Italia disegnò le divise dei Vigli urbani, con i fatidici elmetti ovali sulla divisa blu dai lunghi guanti bianchi: inoltre si dilettò con la moda maschile, con la creazione di fragranze e con la produzione di ceramiche per la casa.
I capi colorati di Emilio Pucci andarono letteralmente a ruba nei grandi magazzini Saks, dando origine ad una vera e propria Puccimania. Un gusto innato per il colore ed una capacità unica come disegnatore, le sue creazioni avevano un quid che le differenziava da tutte le altre: l’allegria ed un approccio artistico alla moda, nella sua ricerca certosina per la creazione di stampe originali.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Emilio Pucci fu ufficiale dell’Aviazione, pluridecorato con tre Medaglie d’argento al valor militare, sette di Bronzo e tre Croci di guerra al valor militare. Personalità eclettica, negli Sessanta il marchese decise di entrare in politica, col partito liberale e fu nominato Sottosegretario al Ministero dei Trasporti. Il 4 giugno del 1982 fu nominato Cavaliere del Lavoro. Il 29 novembre del 1992 il marchese si spense nella sua amata Firenze, all’età di 78 anni.
Dopo la sua scomparsa la figlia Laudomia ha ereditato la direzione del marchio, di cui ancora oggi cura l’immagine generale. Nel 1996 una grande mostra in onore del marchese è stata allestita a Pitti, mentre il suo talento così unico è stato al centro di un volume edito da Taschen. Nel 2000 il gruppo francese LVMH (Louis Vuitton) ha acquistato i diritti sul logo Emilio Pucci e sulle creazioni storiche, rendendosi protagonista di un rilancio del brand gestito in modo sapiente: è solo dalla celebrazione del glorioso passato della maison che si può ripartire, rivisitandone modelli e motivi per declinarli in collezioni nuove facendo rivivere la magnificenza dello stile Pucci nella contemporaneità. La storica maison ha visto alternarsi alla sua direzione creativa numerosi designer, da Stephan Janson e Julio Espada a Christian Lacroix, da Matthew Williamson a Peter Dundas, fino all’attuale direttore creativo Massimo Giorgetti. Con oltre 50 boutique nelle località più esclusive del mondo e un fatturato calcolato tra Italia, Stati Uniti e Giappone, la maison è ancora oggi simbolo di un’incomparabile eleganza.
È la modella che ha rivoluzionato il concetto di bellezza. La più fotografata e la più amata in assoluto. Dopo aver segnato un’epoca col suo volto, Twiggy spegne 66 candeline. Una carriera sfavillante, iniziata per caso, fino a divenire icona quasi mitologica degli anni Sessanta. Figlia di quella Swinging London che ne ha forgiato lo stile, Twiggy ha incarnato lo spirito di quegli anni.
Nata a Neasden, un sobborgo di Londra, il 19 settembre del 1949, Lesley Hornby -questo il suo vero nome- è una ragazza gracile e dai lineamenti fanciulleschi. Assai diversa dallo standard allora vigente, che identifica la bellezza in donne dal fisico meno acerbo, l’appena sedicenne Lesley viene notata dal fotografo di moda Justin de Villeneuve, mentre lavora in un parrucchiere.
Tra i due nasce un rapporto sentimentale e lavorativo: Villeneuve ha fiuto e intuisce subito che quel viso così grazioso ha una marcia in più. Dopo esserne diventato il manager, è lui stesso a lanciare la ragazza e a scegliere per lei il soprannome di Twiggy, letteralmente “grissino”, un esplicito riferimento alla sua magrezza adolescenziale.
Basta fare circolare qualche foto della ragazza e tutto ha inizio: quel volto così particolare ben si addice al fermento rivoluzionario della Londra di quegli anni. Grandi occhi da cerbiatto, sguardo innocente e sorriso spontaneo su gambe nervose, Twiggy emana una freschezza che incanta tanto la gente comune quanto gli addetti ai lavori della moda. In appena un anno la modella grissino diviene una star. Le ciglia finte e il make up disegnato ad esaltare gli immensi occhioni, gli abitini a trapezio e le minigonne: il suo stile incarna l’anima più swing degli anni Sessanta. Idolatrata, imitata e ambita dai designer inglesi e non, viene nominata dal Daily Express“Il volto del ’66”.
Successivamente diventa il volto di brand del calibro di Biba e Mary Quant, che la sceglie come testimonial della sua celebre minigonna. Una rivoluzione dentro la rivoluzione: sullo sfondo della liberazione dei costumi si consuma un altro epocale cambiamento, per cui il concetto standard di bellezza e femminilità vigente viene completamente stravolto dal candore della nuova icona: Twiggy è la prima modella a rappresentare una nuova donna, giovane e gioiosa.
Compiuti i diciotto anni, Twiggy rompe la relazione sentimentale con Villeneuve. La sua fama è ormai mondiale, tutti la acclamano e nuove occasioni si profilano presto all’orizzonte. Parallelamente al lavoro di modella, Twiggy compare in alcuni film, come “Il Boyfriend”, di Ken Russell (1971). Per il suo ruolo vince due Golden Globe. Nello stesso tempo inizia ad incidere dei cd, con un discreto successo: tra i generi prediletti dalla nuova pop star troviamo il rock, il pop, la musica disco e country. Ormai divenuta un personaggio, posa accanto a David Bowie per la copertina del suo album “Pin Ups”, nel 1973. Dal celebre film “The Blues Brothers” fino ad un cameo all’interno del Muppet Show, il volto di Twiggy diviene emblema di un secolo.
La sua carriera, variegata e in continua evoluzione, la vede presentatrice televisiva negli anni Novanta, con un suo show, “Twiggy’s People”, dove intervista personalità del calibro di Dustin Hoffman, Lauren Bacall e Tom Jones. Nel 2005 torna a posare come modella e diviene il volto di Marks & Spencer. Inoltre è stata giudice di America’s Next Top Model dalla quinta alla nona stagione, celebre show televisivo condotto da Tyra Banks.
Tanti auguri ad un mito vivente.
Il nome di Biba rappresenta un tassello fondamentale nella moda, dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni. Simbolo di uno stile unico, portavoce di una rivoluzione che dalla Swinging London si è allargata a macchia d’olio fino ad entrare nei libri di storia, Biba è stato crocevia di tendenze e fucina artistica.
Biba è Barbara Hulanicki, brillante designer nata a Varsavia nel 1936, acuta osservatrice della realtà circostante. Barbara avverte il fermento culturale della Londra anni Sessanta, e in quest’ambito rientra un nuovo modo di approcciarsi alla moda. Biba nasce come un piccolo negozietto di moda, senza pretese, che viene inaugurato nel settembre 1964 ad Abingdon Road, Kensington, nel cuore di Londra. Da Biba si vendono capi a basso costo che le clienti possono prenotare tramite posta. Sembrerebbe un negozio ordinario, nulla inizialmente lascia supporre che quel brand entrerà invece nella storia della moda, attraversando indenne mezzo secolo.
Un primo traguardo è l’apparizione di un capo Biba sul Daily Mirror: è un abito rosa a quadretti vichy, molto simile ad un modello indossato in quel periodo da Brigitte Bardot. Ma il giorno dopo l’articolo, quello stesso capo riceve oltre 4.000 ordini, e complessivamente saranno venduti oltre 17.000 pezzi dello stesso.
Il primo incontro tra la proprietaria dello store e le clienti vede una coincidenza fortuita: incuriosite da un abito in gessato marrone, un gruppetto di ragazze si affolla davanti agli scatoloni che propongono quel modello ed abiti simili. In realtà il capo si trova lì dentro casualmente, solo perché quegli scatoloni non entrano più nell’abitazione della designer e del marito, Stephen Fitz-Simon. Innamorate di quel vestito, semplicemente perfetto per lo stile anni Sessanta, le clienti si affollano in attesa di un nuovo arrivo dello stesso modello. La prima rivoluzione Biba avviene quindi grazie allo stile della sua fondatrice: la lungimiranza della Hulanicki fece sì che un modello visto in tv il venerdì sera era già disponibile da Biba il sabato mattina. Una moda fruibile e a portata di mano, che andava a rivoluzionare il concetto elitario di stile, fino a quel momento vigente.
La donna di Biba è una donna bambola, dalle lunghe gambe sottili e gli occhi rotondi e dalle lunghe ciglia. D’altronde la donna dell’epoca è appena uscita dalla guerra, è spesso denutrita ma non meno affascinante agli occhi di una designer quale è Barbara Hulanicki. Perfetta testimonial del brand sarà Twiggy, che diventerà nel decennio successivo il volto di Biba. La clientela del negozio comprende teenager e ragazze poco più che ventenni, tra cui spicca una giovanissima Anna Wintour, futura direttrice di Vogue America.
Lo stile di Biba è cupo, quasi funereo, secondo le parole della stessa Barbara Hulanicki: i colori sono scuri, dai contrasti forti. Capo principe è la minigonna, ogni settimana più corta, ad indicare il nuovo trend. Niente è lasciato al caso: il negozio è arredato come un piccolo bazar delle meraviglie, dall’atmosfera particolare ed accattivante. Persino il logo viene studiato dalla Hulanicki, sapiente esperta di marketing, per attrarre: oro e nero si mixano mirabilmente nel progetto di Anthony Little.
Il secondo negozio di Biba apre nel 1965 al numero 19-21 di Kensington Church Street ed è seguito dalla creazione di cataloghi che permettono di ordinare i capi anche senza dover necessariamente recarsi a Londra. Possiamo definire Biba antesignana dello shopping via posta. Il successivo trasloco avviene nel 1969: Biba si sposta a Kensington High Street, in uno spazio precedentemente adibito alla vendita di tappeti. Lo store è già un piccolo capolavoro stilistico: un mix di Art Nouveau e di decadentismo Rock & Roll, con suggestioni glam e un tocco orientale. Biba continua ad ottenere consensi, e non ferma la sua clientela nemmeno un attentato ad opera del gruppo dell’Angry Brigade che si consuma proprio fuori dal negozio, il primo maggio 1971.
Nel 1974 Biba si sposta nuovamente all’interno del department store di Derry & Toms. La nuova sede diviene in breve tempo meta turistica di richiamo mondiale e tappa obbligata per chiunque visiti Londra. Anche questo locale si distingue per lo stile, con un interior design ispirato all’Art Deco che ricorda molto la Golden Age di Hollywood. Biba si estende ora su una superficie immensa e comprende il Biba Food Hall, con omaggi a Warhol, e il Rainbow Restaurant.
Tuttavia la gestione dell’impero Biba diviene ogni giorno più difficoltosa per Barbara Hulanicki e il marito, che riescono a malapena a districarsi tra le difficoltà economiche. Alla fine il marchio viene acquistato per il 75% da Dorothy Perkins e Dennis Day. Nasce in questo contesto Biba Ltd, compagnia che unisce i vecchi e i nuovi proprietari. Ma la Hulanicki non è soddisfatta della gestione del brand e lascia la compagnia poco dopo. Ciò determina la chiusura di Biba, nel 1975. Il marchio viene poi acquistato da un consorzio che non ha alcun legame con la designer: viene aperto un nuovo negozio a Londra, a Mayfair, il 27 novembre 1978. Ma il successo stenta ad arrivare e lo store chiude dopo soli due anni di attività.
Numerosi sono stati i tentativi di riportare in auge lo storico brand, a partire da quello ad opera di Monica Zipper, nella metà degli anni Novanta, fino all’ultimo, nel 2006, ad opera della designer Bella Freud. Tutti tentativi che nulla avevano a che fare con la Hulanicki, spesso all’oscuro di tutto. La prima collezione della Freud sfila nell’ambito della London Fashion Week per la stagione P/E 2007 ma viene aspramente criticata perché, secondo gli addetti ai lavori, di Biba c’è ben poco. Allontanandosi dallo stile originario del brand, che proponeva una moda democratica, la collezione disegnata dalla Freud sembra indirizzata ad un pubblico molto elitario. Biba -così come la conoscevano ed apprezzavano milioni di ragazze- sembra non esistere più e ciò porta ad un nuovo insuccesso: la Freud lascia la compagnia dopo appena due stagioni.
Nel 2009 è la volta di House of Fraser, che tenta di rilanciare il brand in grande stile, scegliendo come testimonial la modella britannica Daisy Lowe. Per tutta risposta la Hulanicki nello stesso anno disegna una linea per Topshop, marchio rivale. La designer si dice ancora una volta amareggiata per la politica scelta per il rilancio del suo storico brand, che si allontana nuovamente dal concetto primigenio che auspicava una moda democratica. Ma House of Fraser intuisce il segreto per far funzionare il marchio: Biba non può vivere senza la sua creatrice, forse l’unica nel corso degli anni e delle innumerevoli vicissitudini attraversate dal marchio, ad aver saputo conferirirgli un’identità forte e uno stile intramontabile.
Finalmente nel 2014 la Hulanicki torna a casa, in veste di consulente per House of Fraser. Il successo è clamoroso: ritornano le citazioni anni Sessanta nelle stampe, nelle linee e nella scelta dei tessuti. Cromie optical e suggestioni glam nei maxi dress per la sera. Nei pezzi di arredamento ritorna il mood boho-chic che ricorda da vicino i leggendari store di Biba, arredati come bazar in Art Nouveau. Una favola a lieto fine.
Suggestioni etniche e charme evergreen contraddistinguono un capo principe del guardaroba estivo (e non solo): il caftano.
Dietro a questa veste c’è una storia antichissima che ha origine nella Mesopotamia intorno al 600 a.C. Da qui il caftano si sarebbe poi diffuso in tutta la Persia.
Ampiamente utilizzato sotto l’Impero ottomano, divenne la veste classica dei sultani.
Presente in diverse culture e tramandato fino ai nostri giorni, il caftano è una lunga tunica, da indossare singolarmente o sopra ad altri capi. Di lunghezza variabile, la versione classica arriva fino ai piedi, ed è caratterizzata da una profonda scollatura e dalle maniche svasate che si aprono a pipistrello.
Per tutto l’Ottocento venne considerato un abito di corte, considerata anche l’opulenza di certi modelli, impreziositi da ricami o gioielli, che lo rendono ancora oggi un capo sfarzoso. I colori predominanti con cui veniva confezionata questa veste così particolare erano il rosso, il bordeaux, l’ocra e il viola, colori caldi e dal gusto mediterraneo. Di superba raffinatezza sono le stampe che vengono solitamente utilizzate nella creazione del capo: si tratta di stampe paisley, chiaro retaggio anni Settanta, o stampe floreali o psichedeliche, omaggio dei Sixties.
Inoltre fin dagli albori grande è la varietà dei tessuti usati. Stoffe finemente lavorate, come tessuti damascati, broccato di seta arricchito di inserti preziosi o ancora chiffon di seta, per un effetto fluido e svolazzante. Ma non solo: non di rado oltre al semplice cotone si adoperano cachemire o lana. Un capo fresco e leggero che dona libertà unendo in modo magistrale comfort e stile.
È solo a partire dagli anni Cinquanta che il caftano ha fatto la sua comparsa sulle riviste di moda e sulle passerelle. E fu ancora una volta Diana Vreeland, incontrastata regina della moda di quegli anni, la prima a intuirne la sofisticata eleganza. Dopo averlo notato durante un viaggio in Marocco, fu lei a sdoganarlo in Europa e in America, attraverso le pagine di Vogue.
Simbolo del mood boho-chic che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta ed emblema del decennio successivo, questa mise, così antica e pregiata, conferisce un appeal particolare ad ogni donna che lo indossi. La cultura hippie ma anche l’intellighenzia dell’epoca, furono caratterizzate da una massiccia riscoperta dell’Oriente, e fu allora che l’uso di lunghe tuniche divenne un must have del guardaroba, maschile e femminile.
Numerosissimi furono i designer che si cimentarono con la creazione di caftani, fin dalla metà degli anni Sessanta. Valentino Garavani fu uno dei primi a confezionare splendidi modelli dalle suggestioni optical, in perfetto stile Swinging Sixties; poi fu la volta di Emilio Pucci, che creò dei piccoli capolavori dalle stampe variopinte; e ancora Missoni, Yves Saint Laurent, Lanvin, Ossie Clark, Zandra Rhodes, Thea Porter, Biba e, nei primi anni Settanta, Halston. Oggi il caftano rappresenta un pezzo irrinunciabile delle collezioni di Roberto Cavalli, Issa London e di tanti altri nomi del panorama della moda internazionale.
Da usare per andare in spiaggia, con sandali rasoterra o allacciati alla schiava, o con tacchi o zeppe svettanti per la sera, vincente è l’uso di gioielli etnici, anche importanti. Fantastica è l’unione con il turbante, altro capo dalle seducenti atmosfere etniche, valida alternativa alle acconciature dal mood arabeggiante, con chignon e trecce.
Tantissime le celebrities che hanno adorato il caftano: da Liz Taylor a Jackie Kennedy, da Joan Baez a Mia Farrow. Talitha Getty, icona hippie chic, ne fece l’emblema del suo stile: celebri sono le sue foto a Marrakech nel 1960, in compagnia del marito Paul, anch’egli in total look boho-chic. Altrettanto suggestive sono le foto che ritraggono la socialiteLee Radziwill nella sua casa londinese arredata in perfetto stile ottomano: nulla è lasciato al caso e il caftano che indossa riprende le suggestive decorazioni delle pareti. Tutto il jet set internazionale di quegli anni si convertì al caftano, dalla designer Diane von Furstenberg all’attrice Jaqueline Bisset, da Marella Agnelli e Donna Allegra Caracciolo di Castagneto: celebri le foto scattate a quest’ultima da Henry Clarke per Vogue del 1965. Bellissimi anche alcuni scatti di Barry Lategan per Valentino.
Oggi questo capo è tornato prepotentemente alla ribalta, grazie anche ad alcuni festival musicali di ispirazione bohémien, come il celebre Coachella Festival, dove si è riscontrato un boom di caftani e capi in stile etnico.
Inoltre il mercato del vintage regna incontrastato: su siti come Etsy, portale web dedicato alla compravendita di capi vintage autentici, si trovano pezzi di brand come Thea Porter, Ossie Clark, Zandra Rhodes e Biba che possono arrivare a costare fino a 5.000€. Ma in questo caso vengono in aiuto i brand low cost, come H&M, che ha proposto una collezione estiva con caftani variopinti, Topshop o ancora Asos, che propone capi ispirati ai Seventies o capi vintage, nella sezione Marketplace.
Il caftano è un evergreen irrinunciabile, anche in tempo di crisi.