I suoni con Maninni

INTERVISTA A MANINNI

Talent Maninni
Agency Astarte Agency
Photography Emanuele Di Mare
Styling Diletta Pecchia
Grooming Martina Belletti

I ritornelli aperti, quelli da cantare negli stadi. Maninni ci racconta la freschezza della sua classe 1997, con una consapevolezza di chi il mestiere lo conosce, e annulla così ogni stereotipo di chi vorrebbe incasellarlo nel nuovo prodotto discografico del momento studiato a tavolino. Non lo è, né in quello che dice, né in quello che propone. La sicurezza se l’è conquistata nei palchi calcati con le rock band in giovane età, e in questa epoca di social risulta anticonformista e insolito. Interessato agli obiettivi raggiungibili, non segue le mode e nel suo fa tendenza con il plus di chi non se ne rende conto.

Nel sentirlo raccontarsi traspare pienamente la volontà di sentirsi completamente artefice del proprio destino, ed è perfettamente dentro tutto ciò che fa, dalla produzione in studio, al palco di Sanremo. Imprenditore romantico di se stesso, sogna ma con i piedi saldi sulle mattonelle della casa dove scrive, a Bari, con uno sguardo fisso nel futuro che vuole scriversi da autore della storia, circondato da fidati collaboratori che valorizza con l’umiltà giusta di chi gli obiettivi li raggiunge.

Vi portiamo dietro le quinte di SNOB, e più che un’intervista, sembra di respirare l’atmosfera da soundcheck, fra cavi da sciogliere, e suoni ancora da fare.

Nei tuoi testi si parla spesso di porte, di pareti, di appartamenti. Si respira la capacità di creare ritornelli aperti (da stadio) e cantabili anche in una area circoscritta. Come ti senti in questo periodo della tua vita: sei più in un loft dopo Sanremo, o ti piace ancora l’idea del monolocale?

<< Gli stadi? Ci spero, me lo auguro. Per unire tanti cuori dentro uno stadio, significa che qualcosa di importante è successo davvero. Passo molto tempo in casa, mi piace essere legato alle mie abitudini, ai piccoli gesti che nella vita fanno la differenza. Sono certamente ancora quello di “Monolocale”, tanto che ho deciso di rimanere a Bari e non trasferirmi in una città che magari poteva darmi più opportunità. Voglio restare dove tutto è partito, mi aiuta a ricordare quello che sono, quello che sono stato, e quello che vorrei essere. >>

I tuoi pezzi sembrano scritti chitarra e voce, e poi arrangiati in studio. In alcuni pezzi infatti sembra che l’arrangiamento lasci spazio a dei momenti proprio crudi chitarra e voce, come percepisco possa essere stato al momento in cui li hai scritti. Ci racconti come avviene la scelta degli arrangiamenti e se ti piace dire la tua anche su questo aspetto della composizione?

<< Nasco come musicista, chitarrista nello specifico, anche se mi sono poi avvicinato anche al piano, alla batteria e al basso. I miei pezzi nascono chitarra e voce, o piano e voce. Mi hanno detto tempo fa “Potresti iniziare a scrivere anche su dei beat”, ma preferisco creare da uno strumento. Nel disco ho infatti inserito la versione acustica di “Spettacolare”, mi piacerebbe che chi ascolta quel brano si potesse sentire all’interno di una stanza insieme a me, come se fossimo in studio. Quando scrivo inizio così, chitarra o piano e voce, e poi mando una pre-produzione a Enrico Bruno e Marco Paganelli, i miei produttori. Mi sento fortunato perché danno fiducia a quello che faccio, ho trovato davvero la mia dimensione con loro. Sono maniacale dal punto di vista del suono, e sentirmi circondato da persone che mi lasciano dire la mia è rassicurante; in passato mi sono trovato a dover accettare dei compromessi su quello che proponevo, ma si perdeva l’essenza. Oggi ho trovato la mia dimensione. >>

Rispetto alla proposta musicale attuale si può dire che, nella sua immediatezza, sia proprio la tua l’offerta musicale più anticonformista: non utilizzi auto-tune, e proponi un pop rock con qualche sequenza. Hai mai avuto paura di non essere “di moda”?

<< Ma sai, ho un concetto molto chiaro di quello che è la moda. Seguire le mode non ti porta ad essere di moda; mentre lo fai qualcuno le ste già cambiando. Non ho reference chiare, non voglio somigliare a nessuno. Ammetto però che, quando sei sotto i riflettori, la paura di non essere alla moda c’è. A Sanremo ho sentito dire di essere “OLD”: a dire il vero ho apprezzato questa caratteristica, mi piace essere diverso dagli altri. La moda è ciclica, certe cose poi ritornano, e se vuoi essere autentico devi anche prenderti il rischio di non essere a passo coi tempi. Di recente ho ascoltato l’ultima di Tananai, e ho apprezzato che abbia scelto un arrangiamento con tutti gli strumenti: sembra paradossale, ma pare sia percepita come una cosa “moderna”. >>

Quanto realmente di tuo può esserci in questo momento, sotto contratto con una major? Abbiamo tanto sentito parlare di scelte vincolate, di libertà espressiva ridotta una volta nel sistema. Quanto del Maninni di 5 anni fa c’è oggi? Riesci appunto a sentirti autentico?

<< Ai discografici che dettano le regole vorrei ricordare che la musica è di chi la fa e poi di chi la ascolta, non di chi la sponsorizza. Se esistono le radio, le labels, è perché c’è un artista che quelle cose le ha create. Da questo punto di vista mi sento fortunato perché il team con cui lavoro crede in quello che faccio, sono libero. Non potrei mai fare questo mestiere senza sentirmi libero: fare musica è l’unica cosa che mi appassiona davvero nella vita, e voglio sentirmi così. >>

Total look Noskra
Shoes Dr Martens
Jewelry Aneis

Il pop rock che ti caratterizza ha lasciato spazio ad una ballad a Sanremo quest’anno (anche questa scelta anacronistica, e rispettosa della tradizione Sanremese). Molti altri concorrenti hanno puntato su brani veloci, quasi scritti apposta per tik-tok. Oggi, con il senno di poi, pensi di aver portato il brano giusto?

<< Alle pagelle dei giornalisti questa cosa delle poche ballad venne detta. Sapevo con cosa mi stavo scontrando, ma se avessi portato un pezzo più “social” non sarei soddisfatto di quello che ho fatto a Sanremo. Ho portato me stesso al 100%, non ho avuto paura del confronto. Le canzoni con ritmi più incalzanti magari performano di più sugli streaming, ma la musica non si misura con i dischi di platino. La musica ti fa rivivere quel momento, magari dopo anni che non ascolti quel pezzo. Ha bisogno di tempo. Tempo che non abbiamo più, con questi ritornelli da 15 secondi da usare da Tik Tok, che magari oggi vanno e domani sono superati. >>

Insomma, punti sulle canzoni che restano.

<<Sì. Il tempo è fondamentale: serve a farci capire delle cose, a farci affezionare. Comunque Maninni non è solo ballad, ma anche pezzi movimentati. Sono cresciuto con la musica rock: Vasco ha scritto “Sally”, ma anche “Rewind”>>.

Nella tua storia c’è anche un talent, Amici, qualche anno fa. Oggi, dopo un po’ di esperienza in più ed una bella visibilità nazionale, consiglieresti ad un ragazzo giovane di prendere parte ad un talent ?

<< Ma piuttosto suggerirei a quel ragazzo di chiedersi se è davvero pronto per un talent >>. 

Sentirsi pronti è una percezione soggettiva, e anche un po’ falsata quando si è giovani. Come ci si sente pronti? 

<< Se sei pronto lo senti. Il talent è un contenitore incredibile, ma è il contenuto quello che conta. Ti espone ad un pubblico vastissimo e comporta dei rischi anche psicologici. Se sei troppo giovane, c’è il rischio di schiantarsi contro qualcosa. Se sei pronto invece il talent ti può dare qualcosa. Io ho fatto un tentativo, rimpiango solo di aver avuto 18 anni, ero troppo giovane. Forse avrei aspettato un paio di anni. Prima di arrivare a quello step lì devi aver mangiato tanta merda. Se non arrivano le delusioni non impari nulla. >>

Il tuo nome viene spesso associato alla terminologia “indie rock” online. Come definiresti la musica indie oggi?

<<Indie per me non dipende dall’etichetta discografica ma significa essere indipendenti, non seguire schemi precisi per scrivere canzoni, non imporsi determinati tipi di sound, sei indipendente da quello che c’è fuori. Io sono un cantautore POP. >>

Quindi il termine POP non ti spaventa. 

<< No, anche i Maneskin per me sono POP. La musica POP è popolare, i Pink Floyd sono POP. Se Gilmour avesse cantato con l’autotune avrebbe spaccato ugualmente. >>

Raccontaci come è accaduta la tua partecipazione a Sanremo. Siamo curiosi di capire i retroscena, e se ti va dacci qualche dietro le quinte. Siamo SNOB, e anche un po’ curiosi.

<<Serata cover del venerdì, abbiamo bucato col van. Siamo rimasti fermi per mezz’ora, interviste spostate, un delirio. Col van fermo per strada però, provavo a scrivere il nome della mia canzone sui vetri, mentre pioveva, al contrario, per farla leggere da fuori. >>

Insomma, marketing anche nella cattiva sorte!

<< Non sono bravo col marketing in realtà, mi dico sempre che dovrei essere più social. >> 

Sei un artista Pugliese di origine, quindi non posso non pensare a tutto quel filone più legato alla scrittura in dialetto. Nei tuoi brani sento più una tendenza milanese, anche nella pronuncia vocale. Un tentativo in pugliese?

<< I Negramaro non hanno avuto bisogno di cantare in leccese, ma tutti sanno che sono Salentini. Non ci ho mai pensato, anche se parlo in dialetto a volte con gli amici >>.  

Hai un piano B nella vita? Qual è?

<< La musica può coprire tutti i piani, A,B,C,D. Mi piace molto stare anche dietro le quinte. Ho prodotto anche altri artisti, se non dovessi essere protagonista potrei produrre altri. Male che vada, andrò a suonare ai matrimoni. >>




LATO B | Snob più del free jazz 

LATO B | Ho ascoltato per voi un disco Free Jazz, e non l’ho capito.

Forse dovrei dirvi che sì, ho ascoltato un disco che si autodefinisce Free Jazz, ma non so cosa sia davvero. Se per il pop esiste il pop, e basta, per il jazz non è così. 

Esiste il jazz delle origini, il New Orleans, il Dixieland, lo swing, il Bebop, il Free e la Fusion, tutto naturalmente, in ordine di tempo in termini di correnti stilistiche, e di comprensione dal più semplice al più difficile da comprendere.  

Se il jazz delle origini serviva per ballare, per vivere un momento di convivialità, il jazz della corrente Free allontana, divide, tende a non essere compreso, perché abbandona completamente ogni tipo di struttura, di regola, e si dice che necessiti di un ascolto “attivo” da parte dell’ascoltatore. Se lo comprendi è troppo pop per essere jazz, e troppo accessibile per far parte di un’elite. L’ oligarchia musicale dei colti non può permettersi di parlare una lingua di pubblico dominio, non può accettare di piacere ai troppi. Potrebbe essere un rischio. 

Ma se ci penso, è la regola a tenere l’ascoltatore e l’esecutore sullo stesso binario. Giusto?

E’ la regola a permettere uno scambio, a permettere un racconto a doppio senso di marcia, a riprodurre, a “ricantarsela” in testa, a ripensarci. Senza regola, come accade nel Free Jazz ad esempio, non esiste capacità di riproduzione. L’ esecutore rimane lì, da solo, ad eseguire qualcosa che forse un ascoltatore “attivo” proverà a capire, ma che per ovvi motivi non capirà fino in fondo, perché non potendola fare propria si troverà a sentirsi troppo lontano da quella cosa, per apprezzarne la bellezza in toto, qualora di bellezza si parli, ovvio. 

La cosa subdola degli esecutori, o auto-determinatisi, free-jazzisti, è quel sorriso di base che, davanti agli occhi dell’ascoltatore un po’ preoccupati che sembrano dire “io questa cosa non l’ho capita”, il loro sguardo saccente dice “non l’hai capita perché non sei colto abbastanza per capirla”. E allora, l’ascoltatore che, bhe se si trova lì ad ascoltare Free Jazz non è proprio un frequentatore abituale della sagra di paese, proverà a dirsi: l’ho capita. Cosa? Non è importante cosa. Lui l’ha capita, si è auto-determinato degno di accedere all’olimpo degli incompresi. 

Ma che cos’è un linguaggio senza comprensione? E’ uno strumento senza potere, senza forza sociale. Pensiamo alla musica Funky, utilizzata quasi come arma di distrazione di massa negli anni 70: il suo potere ipnotico, ripetibile, accessibile, riproducibile, era così essenziale da poter essere collegato agli istinti più primordiali dell’uomo.  

Naturalmente ci tengo a precisare che teniamo fuori da questo ragionamento le fasi ultrasperimentali di John Coltrane, Ayler o Taylor, che senz’altro hanno aperto le strade dell’avanguardia alle generazioni successive. Molto di questo ragionamento è piuttosto contemporaneo, è dedicato agli intellettuali vestiti bene, che non amano dire a voce troppo alta di aver ascoltato Stevie Wonder nella loro vita, e che sì, forse Coleman non è nella loro playlist quotidiana. 

Se da un lato il pop si fa paladino spesso della mancanza di valori umani, e dell’eccessiva importanza data all’immagine più che al contenuto, il jazz nelle sue forme più incomprensibili è portavoce della corrente intellettuale “per partito preso”, altrettanto pericolosa corrente umana. 

Anche la musica si fa spesso rappresentante di ciò che vogliamo essere, ciò che vorremmo essere, dei titoli che non abbiamo o di quelli che abbiamo ma che vogliamo far contare nella società. 

Del racconto del weekend il lunedì in ufficio, del cosa hai fatto tu, e di quelli che hanno fatto meglio di te, o che hanno percorso più km. L’ incessante competizione che porta il quotidiano ad una destinata infelicità, nel perseguire qualcosa di troppo distante dal proprio essere reale. 

Un Mare Fuori di gangster 

Un Mare Fuori di gangster 

Io non so voi, ma cari lettori di SNOB, sono un po’ preoccupata da questa necessità di sentirsi gangster.
Anni fa la voglia di chi usciva da quartieri disagiati grazie alla musica, al successo ottenuto a fatica portando fuori il proprio pensiero, la faceva da padrone nella Eight Miles di Eminem. 

Oggi invece, la necessità (lo dicono i grandi numeri) della generazione attuale è quella di sentirsi un gangster, anche se non si appartiene a contesti culturali difficili, di sentirsi parte di qualcosa di brutto per potersi autogiustificare forse. La musica della colonna sonora di Mare Fuori lascia a tratti un po’ basiti, con testi quasi mai chiari. Riconosco un aspetto interessante, ovvero quello di mischiare gli archi ad un parlato quasi trap local. Voci quasi mai intonate, l’intonazione è ormai un di più, e forse in questo grande contesto di gangster ci si può concedere di non esserlo no?
Perché è questo che fa quel tipo di storytelling no? Non sono preciso, non sono intonato, ma perdonamelo: forse non ho potuto studiare, non ho potuto fare di più. Apprezza di me quello che so dirti a modo mio, con quella veracità che mi contraddistingue, quella imperfezione che fa di me un artista. 

Mi ha stupito però, devo ammetterlo, leggere numeri importanti non solo nei pezzi cantati, che potrebbero essere un po’ falsati dal potere del personaggio,  ma anche in sole composizioni d’ambiente, che fanno alla serie TV un contorno inquietante, devo dire ben scritte e ben articolate nella loro inquietudine. Definiscono colori scuri, a tratti hanno del classico, ma non sono raffinate come Morricone, lasciano intravedere qualcosa di bello ogni tanto, per poi tornare in quel mood, molto disagiato. Ha una coerenza tutto questo, ma mi sono chiesta: l’ascoltatore perché lo ascolta? Vuole davvero sentirsi così, mentre cammina per strada? 

Vuole andare avanti, con quella faccia imbruttita, nella sua eterna adolescenza, nella sua eterna sofferenza da incompreso? Non credo che la società abbia bisogno di questo. O sì? 

E perché le generazioni attuali cercano questo mood? Che cosa vogliono provare, cosa vogliono sentire?

Che stiano cercando di dirci qualcosa? C’è una sofferenza nuova forse: un non ascolto che fa del dolore enfatizzato e colorato dal folklore napoletano una rappresentazione nuova di se stessi. Una generazione di gangster arrabbiati senza sapere perché, o perché soffocati troppo da poterlo trovare quel motivo. 

Ma quasi 40milioni di streaming devono pur dire qualcosa, e non ci si può girare dall’altra parte se non lo si capisce.