Chiara Boni, vera rivoluzionaria della moda

INTERVIEW BY MIRIAM DE NICOLÒ

Vera rivoluzionaria della moda

Una donna dalla vita affascinante come quelle che si leggono nei libri di Giuseppe Scaraffia, un’esistenza sociale come solo nei salotti di Madame Verdurin, il personaggio proustiano de “La Recherche”, esempio di snobismo ottocentesco, fautrice di eventi mondani, finestre di importanti connessioni artistiche e politiche.

Lei è Chiara Boni, figlia dell’aristocrazia fiorentina e madre di una grande rivoluzione della moda: il jersey per gli abiti da sera. Dalla castità morale dell’Italia in cui è nata, vola in una Londra folle e irriverente; tornerà alla terra d’origine in minigonna e stivali in latex alti al ginocchio, un nuovo stile anticonformista e tante idee, compresa quella di aprire una boutique.

Tra amori intellettuali come quello con Vittorio Sgarbi che la portava nei Musei a notte fonda, a quelli più maturi con Angelo Rovati, politico e imprenditore italiano, allora consigliere di Romano Prodi, a cui Chiara Boni farà da infermiera fino alla fine dei suoi giorni, la stilista italiana fondatrice dell’omonima casa di moda, scrive un pezzo di storia e decide di imprimerla in un’autobiografia al compimento di 50 anni di carriera, “Io che nasco immaginaria”, un libro a cura di Daniela Fedi, sua carissima amica. Perchè le amicizie, per Chiara Boni, sono come le stelle comete, le indicano il cammino e l’accompagnano nei giorni più bui.

Oggi il brand Chiara Boni (La Petite Robe) veste Ophra Winfrey, prima grande fan degli abiti stretch che vestono e illuminano ogni tipo di corporatura femminile, dalle più magre alle più formose; lo abbiamo visto sui set di The Loudest Voice con Naomi Watts e Russell Crowe, sui red carpet più importanti, indossato agli eventi della NBA dall’ex cestista del Maryland Monica McNutt, scelto da figure politiche ed imprenditoriali, Chiara Boni non è solo il sogno di chi l’ha creato, l’abito del millennio, leggero, che occupasse poco spazio in valigia, da non stirare e iperfemminile, ma anche il desiderio di ogni donna, che regala grazia ed eleganza a qualunque taglia e qualunque età, una specie di bacchetta magica per ogni occasione.

La incontro nello showroom di Milano, dove disegna e crea le collezioni che portano il suo nome, inizia a raccontarmi di lei bambina, con ricordi così nitidi e dettagliati, che si fanno più cristallini quando parla dei tessuti che indossava e dei modelli che collezionava.

Chiara Boni and Eleonora Gardini in 1999

Cosa ricorda della sua infanzia?

Sono nata per scelta. Di una donna. Mia madre si sposò a vent’anni, vergine, continuando a rifiutare mio padre fino al giorno in cui s’accorse di desiderare una figlia. Tornò da lui, si fece mettere incinta, si separò nel ‘49, ed eccomi qui. Si risposò in seguito due volte.

Cosa indossava da bambina?

Solo il bianco era concesso, banditi i colori che mia madre trovava meno eleganti.
Nell’armadio solo cappottini color neve, vestitini di lana color batuffolo di cotone, ghette al massimo panna.

E sua madre come vestiva?

In sartoria, a Parigi da Balenciaga, da Givenchy, da Philippe Venet, il fidanzato di Givenchy che all’epoca aveva un atelier, e da Mila Schon a Milano. Anche io avevo tanti abiti firmati Mila Schon.

E i colori quando sono iniziati?

Sono passata dal bianco al blu allo scozzese; solo d’estate mi portava dal marchese Emilio Pucci nel suo palazzo a Firenze dove mi faceva confezionare completino in popeline turchesi o gialli.
Sarà poi Fiorucci a rivelarmi il mondo del colore, aveva un fantastico negozio a Milano, il paese dei balocchi dove acquistai dei cuissard in latex alti fino al ginocchio, che mia madre mi proibirà severamente d’indossare. Con la scusa di perfezionare le lingue partii per Londra, accompagnata dalla tata, una Mary Poppins in carne ed ossa che mi voleva molto bene, ma che facevo disperare perchè Londra mi si offriva in tutta la sua bellezza, perdizione, stranezza e soprattutto mi faceva scoprire le tendenze più strambe in ambito stilistico. Proprio qui, nel ‘67, frequentai Biba, il negozio di una donna polacca dallo stile Maleficent; le clienti sembravano tutte dei personaggi di Tim Burton, le commesse avevano gli occhi viola e grandi ciuffi di ciglia, la pelle diafana e la bocca dipinta di vino. Io, arrivata in kilt, gemello di cachemire, borsa di Gucci e foulard di Hermes, dopo tre giorni ebbi la trasformazione.

Il primo periodo di ribellione?

Sì, ribellione, ero irriconoscibile. Infatti al mio ritorno, boa in struzzo, minigonna, cappello a fiori, stivali sopra il ginocchio, mia madre si vergognava così tanto che mi camminava dietro, per poi riportarmi tutti i commenti dei passanti. A cui non facevo minimamente caso, per me era importante il messaggio di quel pezzo di stoffa che si era accorciato grazie a Mary Quant, cosa rappresentava realmente per la società: la libertà.

Cosa porta con sé di quel periodo?

Le cene a San Lorenzo, un ristorante italiano gestito da due bagnini di Forte dei Marmi, Mara e Lorenzo, i cui clienti erano i Rolling Stones, Marianne Faithfull, Twiggy, Gigi Rizzi che allora aveva un flirt con Brigitte Bardot, un parterre di playboy italiani e un gruppo di ragazze ancora vergini, quando ancora la verginità era un valore. Loro la notte andavano a caccia di inglesi, più spregiudicate, e noi italiane uscivamo con due amici gay fantastici, eravamo una compagnia affiatata e ci divertivamo moltissimo.

Chaira Boni with Roberto D’Agostino presenting her first fashion show

Com’ è cambiata la moda dagli anni ‘70 a oggi?

I veri cambiamenti non sono stati tanti.
Chanel ha liberato le donne dal busto e da tutti quegli ammennicoli sui cappelli, inserendo nella moda il tailleur con tessuti maschili; nei ‘70 Mary Quant si fa portavoce di un grande movimento femminista attraverso l’uso della minigonna, vera grande rivoluzione non solo stilistica ma politica; la prima vera passerella fu Kings Road di Londra, dove nel ‘67 gli stravaganti sfilavano per farsi fotografare dai turisti, e dove David Bowie prendeva ispirazione per i suoi look eccentrici. Erano davvero anni diversi, potevi scontrarti con Julie Christie che aveva appena vinto l’Oscar, vedere una Bentley con due enormi alani e uomini dai lunghi capelli vestiti di fiori.

Erano gli anni del fermento artistico intellettuale e culturale. Allora anche Milano poteva essere definita una città europea, dove alle feste a cui partecipavo con mio padre (anche se non ho mai avuto un grande legame affettivo con lui) potevo incontrare Gio’ Pomodoro, scultore e fratello minore di Arnaldo; Giorgio Bocca, grande scrittore e giornalista; dove al bar Oreste che stava in Piazza Verdi giocavamo a biliardo con Umberto Eco, chiacchieravamo con Tobia Scarpa e un gruppo di giovani architetti; dove incontrai un sessantottino rivoluzionario radicale, Vittorio Maschietto che sposai, con cui ingabbiai il Duomo di Firenze in un gonfiabile, prima ancora di Christo, insieme al gruppo di sperimentazione radicale Ufo, object di un momento irripetibile della storia culturale fiorentina e internazionale.
Milano cresceva ed aveva le braccia aperte.

Intende dire che oggi Milano è una città chiusa?

Molto di più. Oggi è diventato più importante il denaro, come a New York la prima volta che ci misi piede e la prima persona che incontrai mi chiese “Quanto guadagni al mese”?

Che volgarità.

In quella città non lo è, è un modo di presentarsi, e Milano ha preso un po’ la stessa brutta abitudine. Ci si frequenta per ceti sociali.

Quindi si è amici per interesse?

Secondo me sì.
Un tempo gli amici si riunivano ai Cafè des Artists, o a Firenze al Caffè Letterario Le Giubbe Rosse, luoghi di cultura dove autori diversi si impregnavano delle idee di altri artisti, per poi immergersi nella loro arte, con quel filo d’Arianna. Oggi gli artisti lavorano in solitaria e mancano i vasi comunicanti che hanno fatto di quei periodi, i più prolifici della storia dell’arte e del pensiero.

Perché ognuno pensa al proprio orticello?

Perchè i social network hanno sostituito il rapporto interpersonale. Mia nipote Bianca ha otto anni, una bambina molto intelligente a cui stiamo insegnando l’importanza delle relazioni, molti suoi coetanei però passano la giornata a guardare la tv o davanti ad un cellulare. Un giorno mi ha detto una cosa molto interessante sul futuro della moda “Nonna, la moda sarà sicuramente una seconda pelle, e ognuno di noi potrà ornarsi di tatuaggi e collane come nelle tribù africane”. Un senso di inversione causato dai disastri climatici che percepisce già anche lei.

Viviamo un periodo di grandi brutture culturali e la moda ne subisce le conseguenze?

Sì. Credo che nella moda ci sia una grande confusione in questo momento. Non ci sono vere rivoluzioni dopo la nascita del prèt-a- porter, che ha reso in un certo senso democratico un certo modo di vestire, prima destinato solo agli aristocratici. Ora la moda è per i narcotrafficanti, me lo raccontava un amico che ha fatto le vendite per tre giorni ai top clients di brand super loggati, gente che fa un poco paura.

E chi sono?

Un pò narco, personaggi dei cui denari non si conosce la provenienza, gente che spende 500 mila euro in due giorni per dimostrare di aver raggiunto un certo successo.

Fiction e Reality della moda.

La moda è un mondo che si frequenta molto poco. Ci si incontra alle grandi feste con i giornalisti, amici, addetti al settore, ma tra stilisti non si è mai fatto squadra. In passato sono stata una grande amica di Enrico Coveri e amica d’infanzia di Egon von Fürstenberg, ma oggi sembra una cosa impossibile. Una Milano disunita insomma, tanto è vero che non c’è più la Fiera, luogo perfetto per sfilare.

Me la ricordo molto bene, era così comodo dover solo salire e scendere le scale mobili e ritrovarsi tutti i brand nello stesso spazio, evitandoci così il traffico e i ritardi obbligati dei ping pong in Fashion Week.

Esattamente, le giornaliste sono stressate, non hanno il tempo di farti una domanda vera, i taxi sono pieni, si corre da una parte all’altra della città nelle solite dieci location. Noi quest’anno siamo tornati a sfilare alla Scuola Militare Teulié in Corso Italia, uno spazio che contiene mille persone, ma in questo modo si toglie il tempo agli addetti di confrontarsi, concentrarsi, elaborare pensieri su ciò che hanno appena visto. Si è un po’ perso il sapore di un tempo.

Chiara Boni

Per Gianni Berengo Gardin una buona foto è una foto che è riuscita a rappresentare la realtà, congelandola nel tempo. Per lei cosa rappresenta un buon abito?

Ho sempre pensato che un buon abito potesse essere più terapeutico di una seduta dallo psicologo. Quando ci si sente belle e confident, la vita risulta meno dura.

Cosa la rende veramente felice?

Il mio lavoro mi rende felice. Mi ha aiutato a superare momenti di grande dolore, la morte di mio marito, il fallimento di GTF (Gruppo Finanziario Tessile) da cui ho ricomprato il mio marchio, e la libertà di espressione, che ho portato in passerella già nei ‘90 facendo sfilare transessuali, ragazze curvy e una Moana Pozzi vestitissima.

Tiziano Terzani scrive “La natura ci dà spettacoli gratis meravigliosi”, come un bel tramonto e paesaggi fioriti. Mi rendono felici i miei cani, esseri dall’animo puro, come i bambini. Sono una donna senza pregiudizi, capace di guardare oltre l’apparenza delle cose, e per questo libera. Una libertà che devo a mia madre, che per me è stato un grande esempio di etica e dolcezza, fermezza ed educazione.

Quanto è SNOB Chiara Boni?

Snobbissima.
In questo le radici fiorentine sono assai profonde, come per l’usanza di non indossare niente che sia di tendenza, rimandi delle famiglie nobili che facevano portare le scarpe al cameriere perchè guai a metterle nuove. Se a Firenze si annuncia un regista internazionale, non importa a nessuno, lo snobismo lì è essere disinteressati ad ogni strabilia che fa gola a tutti gli altri, tranne allo snob, per l’appunto.