Manca oltre un anno al voto presidenziale americano, e le primarie sono già cominciate qualche mese fa. Ufficialmente ad aprile, con le varie dichiarazioni di “discesa in campo”, a caccia di sostenitori e finanziatori. La prima sfida è esattamente questa: assicurarsi per tempo un certo numero di comitati, sedi, volontari, macchine organizzative, banche dati, e ovviamente cospicui fondi elettorali. Tutto questo è “la dote” che i candidati porteranno – alla fine – a ciascuno dei due candidati del proprio schieramento politico che risulteranno vincitori, e il peso politico di ciascuno si misurerà esattamente in questa forza e nelle risorse raccolte e disponibili per la “campagna vera”.
Ad oggi di sorprese ce ne sono almeno due.
La prima è in casa democratica. Prevedibile che la corsa di Biden fosse solo strategica, ma addirittura doppiato da Sanders nessuno se lo aspettava. Prevedibile che la Clinton, senza avversari veri, soprattutto a sinistra, battesse tutti, ma non addirittura che superasse il 50% delle preferenze nonostante una politica presidenziale che mese dopo mese le “sottrae” progressivamente molti argomenti: dall’Iran a Cuba ai diritti lgbt.
La seconda, vera, grande sorpresa è però in casa repubblicana, dove il miliardario Donald Trump sta letteralmente doppiando ovunque i due avversari diretti e “veri” di queste presidenziali: Jeb Bush e Marco Rubio. Il dato è straordinario anche perché entrambi gli sfidanti non hanno alcun problema di raccolta fondi o organizzativo, ed entrambi sono politici navigati, con una struttura solida e ottimi argomenti. Ed anche nei dibattiti televisivi, nonostante gli altri siano più preparati è sempre Trump a dominare la scena, nonostante evidenti gaffe.
Certo, non si è ancora votato in Stati popolosi e determinanti, né in quelli propriamente repubblicani, ma il dato va letto in molti modi. Intanto la classe media elettrice repubblicana non si fida più dei politici di professione. Quell’elettorato prematuramente stimolato da Ross Perot stavolta sembra maturo per una scelta “diretta”. Trump, da miliardario, appare meno “succube” e ricattato dai finanziamenti delle lobby, e questo alone di indipendenza fa gioco in questa fase.
Che voglia davvero arrivare alla fine della corsa non è dato sapere, di certo il segnale è politicamente chiaro: il mondo dei miliardari americani che fanno l’economia vogliono partecipare in maniera diretta e determinate alle scelte politiche, e non solo finanziare e pesare dietro le quinte per ottenere favori occasionalmente e quando politicamente la cosa non disturba.
Se questo è il messaggio politico che consegna al GOP la candidatura di Trump, la risposta dell’elettorato non si fa attendere: Trump può anche vincere le primarie interne ma è anche quello che con maggiore certezza perderebbe le elezioni vere contro i democratici, già a prescindere favoriti, mentre la Clinton avrebbe vita certamente più difficile con Bush e Rubio.
Questa la situazione ad oggi, a 360 giorni dalla chiusura delle primarie dei due partiti.
Un anno per ampliare e consolidare le proprie forze e risorse, e per decidere entro marzo a chi consegnare – in caso di ritiro – il proprio capitale politico, stringere alleanze, ottenere candidature e posizioni di potere in vista del novembre 2016.
E tutto questo a meno di sorprese e new entry che nella politica americana non mancano mai.