La generazione dei quarantenni è cresciuta con le serie televisive. Non quelle prodotte in Italia, ma importate dagli Stati Uniti con la nascita delle televisioni commerciali. Una intera generazione di “maniaci” delle serie tv, immaginate, scritte, strutturate per creare seguito, e soprattutto diffondere un messaggio, ed ancor più per esportare una cultura ed un modello, anche sociale, politico e giuridico. Che “il cinema è l’arma più forte dello stato” lo affermava – e a buon diritto – già Mussolini. L’intera industria della comunicazione di massa al tempo della guerra fredda si è affinata non solo per promuovere le battaglie americane all’estero ma anche veri e propri modelli socio-economici interni.
Indimenticabili i film con Elvis soldato “contro i gialli” nell’epoca della guerra in Vietnam e in Corea, mentre nello stesso periodo i nostri “musicarelli” con Morandi, Little Tony, Celentano e Albano parlavano a un’Italia del boom economico di famiglia, lavoro e stabilità.
Dalla televisione commerciale degli anni ottanta le giovani generazioni hanno acquisito sempre più modelli sociali, politici ed economici made-in-usa. Se lo scopo di questa “invasione per immagini” era quello di rafforzare la collocazione del “blocco occidentale” dall’altro erano veri e propri mezzi di propaganda per “l’altro lato del muro”.
A quel modulo comunicativo e a quello story-telling ormai siamo assuefatti, tanto che anche la nostra produzione nazionale ed europea sono uniformate a quel modello, che diventa sempre più per temi, contenuti e forme narrative “il modulo” del format televisivo. Non stupisce che il cittadino telespettatore sia quindi appassionato a più serie televisive. Quando poi anche la narrazione politica è diventata “tv dello scandalo” e la politica si è raccontata attraverso “eventi mediatici”, anche le grandi istituzioni – in primis la Casa Bianca – sono diventate sempre più oggetto-soggetto dello spettacolo.
Da West Wing a House of Cards a Scandal, quasi tutti ci sentiamo “parte di quelle vicende”, ci sembra di conoscerle e talvolta vorremmo farne parte, e finiamo quasi acriticamente con il ritenere che “quella sia la politica”, così dovrebbe essere, o peggio che davvero anche in America la politica sia fatta in quel modo. Come se ci fossimo stati e l’avessimo vissuta in prima persona. Una comedy di successo, del resto, si misura esattamente sulla sua efficacia in termini di trasposizione ed immedesimazione del grande pubblico.
Non stupisce quindi che, come fenomeno generazionale, quelle vicende e quelle dinamiche, siano parte quasi normale della generazione che oggi “fa politica”. E non stupisce che di quelle serie sia fan anche Matteo Renzi e parte del suo staff. È un fenomeno sociale, e loro ne fanno parte.
Certo, se si guarda a quei modelli in termini di velocità, decisionismo, azione, capacità concreta di incidere sulla realtà, sono certamente elementi condivisibili. E tuttavia è importate ricordare come viene descritta la politica in queste serie. In House of Cards il democratico Francis Underwood è poco meno di Hannibal Lecter ed è chiaramente un sociopatico mentitore, corrotto, spregiudicato, pluriomicida. Non va meglio in Scandal dove il repubblicano Grant passa da brogli elettorali alla copertura di omicidi e stragi dinamitarde, fa scappare terroristi internazionali, è complice di un vero e proprio colpo di Stato, assolda e protegge agenti dei servizi segreti che torturano allegramente ed uccidono i suoi nemici. La politica, gli staff, le persone “attorno” a questi personaggi principali sono complici se non peggio.
Il grande non-protagonista della politica americana sono le lobby, che non sono quello che vediamo e quello che ci rappresentano. Nella realtà sono semplici “associazioni di interessi”. Andrebbe ad esempio ricordato che tra le prime dieci della politica americana vi sono quelle ambientaliste, quelle delle energie alternative, quelle degli insegnanti. Che normalmente raccolgono fondi e spostano voti anche maggiori rispetto ai lobbisti del petrolio o del “trio morte” (armi, alcool, tabacco).
Negli Stati Uniti, che tutti pensiamo di conoscere, esistono leggi severissime sui finanziamenti elettorali, per una tangente anche piccola si va in galera davvero (per evasione fiscale non ne parliamo, diventi un appestato con cui nessuno vuole più avere a che fare). Mentre da noi non si approva una legge sul lobbismo – anche se basterebbe estendere il codice etico presso il Parlamento Europeo – lì le lobby dichiarano in maniera trasparente chi finanziano e con quanto.
Nel paese delle primarie – aperte, per tutti, regolamentate per legge – si tengono elezioni politiche ogni due anni ed attraverso questo processo di “campagna elettorale permanente” il momento del voto coincide con l’approvazione o meno dell’operato dei membri del Congresso, e della politica in generale. Ci sono distretti (da noi li chiameremo collegi) in cui c’è un solo candidato (famoso il caso in cui il regista Michael Moore per “assicurare un’alternativa” candidò delle piante) ed altri in cui la corsa è addirittura con trenta candidati. In quelle elezioni l’unica vera “merce di scambio” è la capacità del politico di creare posti di lavoro: con appalti pubblici, con il mantenimento di una base militare, con una nuova sede di una grande azienda. Quegli elettori vogliono questo, e su questo la politica americana si misura con velocità, tanto che anche una presidenza quadriennale è attraversata da due rinnovi del congresso, un terzo del senato, almeno venti cambi di governatorato e svariate assemblee nazionali dei singoli stati.
Se nelle serie tv i politici sono tutti vittoriosi e di successo, la storia, quella vera, dai tempi di Roosevelt insegna che i presidenti davvero influenti e che hanno fatto la storia, almeno una volta nella loro carriera politica, hanno perso, sono usciti dalla vita politica, hanno imparato dai propri errori, e sono tornati. Obama incluso, che una volta non venne rieletto in Illinois.
Se scordiamo tutto questo, che è la parte che meno conosciamo, della politica americana conosciuta attraverso le serie tv ci restano un Grant di Scandal eletto presidente grazie a una serie impressionate di brogli, tanto che lui stesso ammette di non essere mai stato realmente eletto, e un Underwood di House of Card che si vanta, ad un certo punto, di essere riuscito a diventare presidente senza nemmeno passare per una votazione. Ma tutto questo, a ben vedere, è molto più simile alla nostra di politica.