Quest’estate il NewYork Times ha pubblicato un articolo molto ripreso dalle principali testate.
Il titolo dice tutto “come i troll stanno rovinando internet” spiegando che “stanno trasformando il web in un pozzo nero di aggressività e violenza”.
Il quotidiano americano ha citato anche alcuni casi di giornalisti importanti che hanno scelto di cancellare i propri profili proprio a causa di messaggi e critiche ricevuti in rete.
A supporto della tesi dell'”infestamento da disturbatori violenti seriali” (trolls nell’accezione del giornale) viene riportato un sondaggio del Pew Research Center pubblicato nel 2014 secondo il quale il 70% degli utenti compresi nella fascia 18-24-anni aveva avuto esperienze di molestie, e il 26% delle donne di quella fascia d’età ha detto che erano state stalkerate online.
Uno studio dello stesso anno sulla personalità pubblicato sulla rivista di psicologia Personality and Individual Differences ha scoperto che il 5% circa degli utenti di Internet che si sono auto-definiti come troll ha tratti della personalità quali narcisismo, psicopatia, e in particolare sadismo.
Il trolling funziona quasi letteralmente come la sua traduzione dall’inglese, ovvero “pesca a traino”, e vuole indicare quella particolare discussione sui social media che “parte” da un post, un tweet, e attraverso commenti violenti, fastidiosi, provocatori, continui, mira a “trascinare” con sé una quantità di persone, anche semplicemente riprovate per la risposta.
Il fenomeno è abbastanza noto, ed è quasi superfluo descriverne i meccanismi, che oltre ad essere di esperienza comune sono anche abbastanza banali.
Il problema semmai sorge quando questo genere di attività non è isolata, individuale, soggettiva, ma “organizzata” in una forma patologica e tossica che è complicato poter definire “attivismo digitale” – come qualcuno lascia spesso intendere – e finisce a tutti gli effetti per confluire in una parte della comunicazione politica vera e propria.
Organizzati o individualisti, i troll restano soggetti insicuri e insoddisfatti della propria vita reale, e cercano conferme e sostegno, quasi una nuova esistenza con tutte le caratteristiche in realtà non hanno come esseri umani, nella propria dimensione digitale.
Non sono realizzati né in famiglia né sul lavoro, dal momento che hanno tantissimo tempo da perdere online a caccia del vip o politico di turno da attaccare (lui e i suoi seguaci). Non hanno alcuna competenza specifica, e spesso i loro argomenti sono generici, per sentito dire, citando fonti a dir poco discutibili.
Esistono – anche nella loro identità digitale, spesso anonima e chiaramente coperta da account fake – solo “di luce riflessa”, perché qualcuno (ovviamente più noto di loro) cade nell’esca e gli risponde.
Eppure basterebbe leggere la cronistoria del loro tweet, o dare un’occhiata veloce alla loro pagina Facebook per eliminare alla radice il problema: bloccarli radicalmente o semplicemente non considerarli. E la storia finisce lì.
Il trolling online è in genere “attivato”. Stimolati da una frase di un politico o un influencer di qualsiasi genere– spesso indicante un colpevole per i nostri problemi o un complotto – i troll “se ne fanno una ragione” e da qui la “assumono a bandiera della propria crociata”.
I neri, gli ebrei, i cinesi, la massoneria, l’Europa e l’euro, la lobby dei banchieri, gli immigrati, i clandestini. È irrilevante: ditegli che la causa dei loro mali sono loro e partiranno a commentare ovunque. Tu puoi parlare del tempo, e loro ti rispondono “perché non parli dell’euro che ci affama?”. Puoi parlare della campagna americana, e loro si schierano (conoscenti profondi del tema e del paese) puntuali “dall’altra parte” rispetto a quella che percepiscono essere la tua.
Ecco che questa attivazione iniziale ne mette in gioco una seconda: l’effetto gruppo.
Attorno a quelle parole d’ordine si fa massa, e ciascun troll, solo nella sua solitudine e individualità, si fa forte del “gruppo che la pensa come lui”, che lo retwitta, lo spalleggia, gli dà forza.
Attraverso questo meccanismo – anch’esso di esperienza comune – il trolling è stato percepito come una forma di “attivismo digitale” ed è entrato prepotentemente (letteralmente) e violentemente nelle dinamiche della comunicazione politica.
Una “comunità di solitudini” fatta di vuote esistenze, di persone convinte di essere delle vittime, superate nel lavoro da colleghi raccomandati, disoccupati per colpa degli immigrati, sottopagati e sottostimati perché incompresi, lasciati da mogli e fidanzate perché “loro sono di facili costumi”.
Ai leader populisti digitali basta lanciare un paio di slogan e questa comunità si attiva. Loro non devono nemmeno replicare e rispondere delle proprie affermazioni, ci pensa da sola la rete.
I giornali, che sul web ci sono arrivati sul serio con una decina di anni di ritardo, lo vorrebbero a misura di editoriali, e scoprono oggi che invece la rete è popolata, semplicemente e banalmente, dalla parte peggiore della nostra società, da quella piccola costante vigliaccheria per cui di persona si abbassa la testa, ma in branco si è capace di uno stupro, di persona si chiede l’autografo mentre nell’anonimato si è pronti a parlar male del vip di turno.
Il web vive di una propria autonoma e diversa social reputation: puoi essere il mega direttore del più importante quotidiano del mondo, ma la rete che ci avvicina tutti e consente a tutti di commentare chiunque, è quel luogo in cui nonostante il tuo ruolo nella società potresti non contare nulla.
E questo fa infuriare spesso i giornalisti, abituati ad una comunicazione verticale per cui loro sono quelli che scrivono l’articolo, e dicono quello che pensano, e il lettore è colui che legge.
Ma il web è anche lo specchio della realtà che riproduce dal divano quell’odio e manicheismo spesso alimentato (talvolta inconsapevolmente) proprio dai media (incluse bufale e complottismi).
Il web 2.0 è nato forse troppo presto per qualcuno e tropo tardi per altri. È fatto di un “tutto pubblico” cui la nostra biologia e la nostra psicologia non è preparata, e di cui di certo i nostri meccanismi – sia di stimolo che di risposta – non sono sempre consapevoli.
Quando tutto questo diviene fenomeno di massa, poi, fa decisamente paura, perché finisce con l’essere incontrollabile, anche negli effetti.
I trolls sono il nuovo branco, ma con la vigliaccheria dell’anonimato e nella convinzione auto assolutoria che qualsiasi cosa fatta nel web sia virtuale. E come tutti i fenomeni di massa, spetta alla società intera comprenderne i meccanismi e porvi rimedio, senza attendere che qualcun altro provveda per legge (altro meccanismo auto assolvente, stavolta per la società).