Tiziana Cantone e il web

Come abbiamo detto ieri Tiziana è vittima di reati veri e persone vere, a mezzo web.
Almeno tre volte.
La prima volta quando il suo video è stato pubblicato e diffuso in rete. E già in quel caso nessuno ha vigilato o controllato. Perché alle grandi compagnie del web interessano i contenuti: come e da dove provengano, se se ne abbiano i diritti conta poco o nulla. Tanto (pensano) poi si cancella, e nel frattempo noi guadagniamo (si perché quegli introiti nessuno glieli tocca mai, non li devono restituire).
La seconda volta da quelle persone in carne ed ossa che “convinte dal web”, da commenti ed editoriali che la descrivevano come “operazione per lanciare una porno attrice” hanno ritenuto di poterla appellare in qualsiasi modo, dentro e fuori la rete. Tanto, il mondo è virtuale, e le offese virtuali si ha l’illusione che non contino, non pesino, come le ferite in un videogame di guerra.
La terza volta dalla sentenza vera di una magistratura nel suo formalismo decisamente un po’ tropo virtuale: condannata al risarcimento delle spese legali verso quei soggetti chiamati in giudizio “sbagliando” la sede o la specifica ragione sociale (soldi più che bilanciati dai risarcimenti che le sarebbero spettati di qui a poco).


Perché il web non lo tocchiamo, sappiamo cos’è Facebook, ma se lo devi citare in giudizio “chi e dove chiami in giudizio”? Quale sede e quale tribunale è competente caso per caso?
Perché il gioco dei giganti del web è anche questo, che siano ragioni di evasione o elusione fiscale, quanto responsabilità civili e penali del caso. Loro ti raggiungono ovunque, purché tu gli dia dati e informazioni, finanche la tua localizzazione in tempo reale e la tua carta di credito, finanche sul telefonino, ma tu non sai mai, davvero, dove siano Facebook o Paypal, e chi risponde delle loro azioni.


Il web e i social network sono strumenti, per altro molto recenti. Sono progettati per essere semplici e immediati da usare e tendenzialmente alla portata di tutti. Ma queste caratteristiche non implicano necessariamente né che tutti li sappiamo usare, né che siamo preparati agli effetti collaterali e spesso indesiderati del loro utilizzo.
Pensiamo a Facebook o Instagram come quei luoghi innocenti in cui pubblicare qualche foto o frase simpatica ed in cui bearci per sorrisini e like degli amici. Invece dovremmo cominciare a immaginare che oltre a dare l’immagine che vogliamo (e quindi non sempre aderente con la realtà), quando pubblichiamo rendiamo disponibili le nostre foto, le nostre emozioni, i nostri corpi, il luogo dove ci troviamo, le foto dei nostri figli, a tutto il mondo: ladri, pedofili e malintenzionati di ogni genere. Che esistono in rete esattamente quanto nella vita reale.
Ma mentre stiamo attenti a chiudere la nostra casa, la nostra stanza, il nostro bagno, perché quella è una sorta di privacy e tutela tangibile, ignoriamo con troppa leggerezza le implicazioni di lasciare aperta ogni sorta di nostra informazione a tutto il mondo.
E come siamo forti ed esaltati per qualche “mi piace” in più, spesso siamo fragilissimi quando il commento è negativo, quando su twitter in apparente anonimato veniamo insultati, quando le nostre foto finiscono altrove rispetto a dove pensavamo di averle lasciate noi.


Il web finisce con l’essere un enorme tritacarne che in pochi minuti ci rende pubblici oltre ogni nostro controllo, e assolutamente oltre la direzione che volevamo noi. Ci disarma, ci rende impotenti, ci stritola con la rapidità di pochi click.
La nostra forza dipende dalla nostra maturità, dalla nostra cultura e formazione, dalla solidità dei nostri valori e delle nostre relazioni sociali, dalla consapevolezza delle nostre azioni e anche da quelle dei nostri amici, familiari e conoscenti.
Il nostro cervello, le nostre emozioni, in quanto esseri umani, non sono fatti per essere “tutto pubblico”, e quando ciò accade non siamo preparati a gestire con adeguata forza e maturità gli effetti indesiderati di queste situazioni. È umano, è reale. Tutto il contrario della macchina virtuale di una dimensione da social network.
E questa disumanizzazione non può esigere la nostra disumanizzazione in termini di risorse e capacità, semplicemente perché non le abbiamo.


Ai nostri ragazzi non possiamo insegnare o imporre di essere più forti. Abbiamo tuttavia il dovere di insegnargli ad essere più consapevoli, più attenti, più riflessivi nella scelta di quale web navigare, di quale social network scegliere, di come usarlo e di come spendere la propria privacy.
Metterli di fronte non più al rischio ma alla concreta realtà di quanto non “potrebbe accadere” ma di ciò che regolarmente accade.
E li possiamo rendere forse più forti ricordando anche che la velocità del web è un’amica, e che tutto passa, e anche la gogna mediatica può durare qualche giorno solamente. Perché poi, anche dinanzi alla morte, il popolo della rete dopo poche ore tornerà a occuparsi di calcio e serie tv.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi