Da un po’ di anni a questa parte, quella che sembrava una “legge intoccabile”, cioè quella sulla fecondazione assistita (Legge 40), sta letteralmente perdendo un pezzo dietro l’altro, sotto l’azione di diverse sentenze della Corte Costituzionale.
La legge 40 può essere sintetizzata in 4 fondamentali punti:
- “divieto di fecondazione eterologa”;
- “obbligo di impiantare al massimo 3 embrioni , tutti insieme”;
- “divieto di accesso alle tecniche relative alla fecondazione assistita per le coppie fertili”;
- “divieto di selezionare embrioni in caso di patologie genetiche”.
Ma, quella che sembrava essere una piena insindacabilità di questi punti, si è trasformata in una serie di continue rivisitazioni giuridiche e nuove interpretazioni sorrette da numerose sentenze della Corte Costituzionale.
Basti pensare al divieto di fecondazione eterologa, definito in un primo momento come preludio a pratiche eugenetiche di selezione artificiale di gameti, per l’ottenimento di “bambini su misura”, poi definito come divieto incostituzionale.
Altre sentenze della Corte Costituzionale sono, poi, intervenute in merito al divieto di accesso alle tecniche di fecondazione assistita per le coppie fertili. In questo caso, sono due le sentenze che hanno sollevato una questione di illegittimità costituzionale sulla base della disparità che il predetto divieto sancisce a svantaggio delle coppie fertili, il tutto supportato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha definito tale principio come discriminatorio.
Una legge, quindi, che ha subito numerose modifiche.
Per ultima, a dare un calcio al punto della legge 40, relativo al divieto di selezionare gli embrioni in caso di patologie genetiche, è stata la recente sentenza 229/2015 redatta dal giudice Rosario Morelli, relativa alla questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Napoli, in merito allo specifico procedimento penale nei confronti di un gruppo di medici rinviati a giudizio, con l’accusa di produrre embrioni umani con fini diversi da quelli previsti dalla tanto discussa legge 40.
Tale sentenza abolisce il previgente divieto, sancendo l’ammissibilità di tutte le pratiche volte a selezionare gli embrioni da impiantare nell’utero della donna, nelle specifiche ipotesi in cui ci sia il rischio di impiantare embrioni affetti da gravi malattie trasmissibili, cioè quelle previste dalla Legge 194 sull’aborto.
Ovviamente, il tutto dovrà essere accertato da apposite strutture sanitarie.
La sentenza ha dichiarato illegittimo l’articolo 13, nello specifico comma 3, lettera b, e comma 4, della Legge 40.
Quindi, l’operatore medico che pone in essere specifiche azioni volte al trasferimento di soli embrioni sani, nell’utero della donna, non risulta più essere sanzionabile dal punto di vista penale.
Infatti, secondo i giudici della Consulta, l’appena citato articolo violerebbe sia l’articolo 3 della Costituzione (“uguaglianza dei cittadini“, in merito al profilo della ragionevolezza), sia l’articolo 32 della Costituzione (“ tutela della salute”).
In pratica, la sentenza dichiara ammissibile la selezione degli embrioni ma, allo stesso tempo, non intacca assolutamente il “divieto di distruzione degli stessi embrioni. Infatti, questi ultimi non possono essere assolutamente considerati come “semplice materiale biologico” e, quindi, devono continuare ad essere conservati tramite la specifica tecnica della crioconservazione.
Sorge un dubbio: ha senso conservare embrioni inutilizzati?
È questa la questione sollevata da coloro i quali si oppongono alla conservazione degli embrioni: il numero di questi ultimi sarà sempre maggiore e proporzionalmente al crescere del numero, ci sarà un incremento notevole dei relativi costi per il loro mantenimento. La crioconservazione, infatti, può essere effettuata solo da specializzati professionisti e solo grazie ad attrezzature “non proprio economiche”.
LA DOPPIA VISIONE DELLA SENTENZA 229/2015
L’ultima pronuncia della Consulta ha dato vita a due gruppi di soggetti: il primo assolutamente favorevole alla sentenza, il secondo, invece, non pienamente convinto della nuova strada intrapresa.
Quindi, da un lato vi è una visione basata sulla salute della donna: eliminando il reato di selezione, viene alla luce la legittimità della “diagnosi preimpianto”, fondamentale ai fini di evitare che una donna possa vedersi impiantato un embrione malato.
La diagnosi preimpianto consentirà di evitare potenziali aborti.
Una precisa diagnosi che dovrà essere garantita da qualsiasi struttura, pubblica o privata che sia, sperando nella non creazione di ostacoli burocratici da parte della politica.
Dall’altro lato, invece, si posizionano coloro i quali sono contrari alla selezione degli embrioni.
Il punto di vista è supportato da una domanda che fa davvero riflettere: “chi è malato non ha diritto di vivere?”.
Ciò che viene condannata, non è la richiesta da parte delle coppie di avere un figlio sano (assolutamente legittima), ma il metodo.
Non è del tutto corretto parlare di “embrioni malati”, poiché nell’embrione è possibile solo riscontrare un danno genetico e non una patologia conclamata.
A detta di molti, che rientrano in questo secondo gruppo di soggetti, si andrà verso una “cultura dello scarto“, dove l’embrione non sarà altro che un bene comune come tanti altri, pronto ad essere buttato via in caso di malfunzionamento.
SENTENZA 229/2015, GIUSTA O SBAGLIATA?
Impossibile definire la pronuncia della Consulta come giusta o sbagliata e di conseguenza è impensabile trovare un punto d’incontro tra le diverse linee di pensiero.
L’unica cosa certa è il consolidamento dell’idea che sta alla base del percorso intrapreso dalla Corte Costituzionale: un orientamento che è volto ad affievolire, per alcuni aspetti, la rilevanza giuridica dell’embrione ed i relativi diritti, al fine di incrementare quello che è il diritto, o meglio un “interesse” della coppia, cioè quello di avere un figlio (precedenti sentenze) e, ora, con la sentenza 229/2015 il funzionale interesse di un figlio sano.