Renzi e la comunicazione referendaria

Sembrerebbe che – lentamente, e forse con ritardo – Matteo Renzi si sia reso conto che era necessario cambiare verso alla comunicazione politica verso il referendum costituzionale.


Commentando l’esito del referendum sulle trivelle scrissi:
“Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perché il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.
Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).”


Oggi il problema è duplice.
Da una parte i sondaggi non danno il suo Pd e la sua leadership ai livelli di quel 40%, e contemporaneamente la minoranza interna – che compattata non è poi così irrilevante – è pronta a votare no se non verrà messa mano alla legge elettorale.
Dall’altra c’è la presa d’atto che le opposizioni (che insieme non hanno i numeri per governare) compattate su un semplice quesito possono arrivare al 65%, praticamente doppiando i numeri del Si.
A questo calcolo, per ora solo numerico e “da scrivania”, se ne aggiunge un altro, e non di poco conto. Il fronte del No non ha neanche cominciato la sua campagna, mentre il governo ha speso mesi a dichiararla “la madre di tutte le battaglie”.
Finanche la normale, consueta, rituale alternanza dei direttori dei Tg è finita nel tritacarne referendario: consueti avvicendamenti sono diventati “rimosso perché non allineato”.
Nulla che ci allontano dalle vecchie dichiarazioni della vecchia politica, e stavolta il classico “lottizzazione” è stato lessicalmente surclassato dal “pro o contro al referendum”.
Ed anche se il comitato per il NO non ha raggiunto le 500mila firme fermandosi a 200mila, questa non è una buona notizia per il premier: va letta infatti come debolezza della sostanza ma solo come divisione interna delle opposizioni a costruire un comitato comune.


Oggi Renzi sembra aver compreso che qualcosa nella comunicazione sino ad oggi manichea del “o con me o contro di me”, del “o con il progresso o gufi”, a prescindere ed a qualunque costo, rischiava di essere un boomerang.
Il tono cambia nella ultima E-News in un più morbido: questo il passaggio della newsletter 437
“In tanti mi hanno detto: “Matteo, questa non è la tua sfida, non personalizzarla”. Vero, questa è la sfida di milioni di persone che vogliono ridurre gli sprechi della politica, rendere più semplici le istituzioni, evitare enti inutili e mantenere tutte le garanzie di pesi e contrappesi già presenti nella nostra Costituzione. Un’Italia più semplice e più forte sarà possibile se i cittadini lo vorranno.
Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo, dunque, ma da un popolo.”
Il cambiamento non è di poco conto, e sintatticamente punta quasi a costruire un diverso elettorato.
Il premier mira stavolta a presentare la riforma come “qualcosa di utile” all’Italia, al popolo italiano, ad una maggioranza di persone trasversale che – indipendentemente dalla propria soggettiva posizione politica – vuole un sistema legislativo più snello e moderno.
In questo senso anche il richiamo – anch’esso non di poco conto – a sottrarre dal dibattito referendario temi che le opposizioni vorrebbero strumentalmente trascinare dentro: legge elettorale, poteri del governo e nello specifico del premier.
Nella stessa e-news: “Il quesito infatti non riguarda la legge elettorale o i poteri del Governo, argomenti che non sono minimamente toccati dalla legge costituzionale, ma riguarda il numero dei politici, il tetto allo stipendio dei consiglieri regionali, il voto di fiducia, il Senato, il quorum per il referendum che viene abbassato, l’introduzione del referendum propositivo, l’abolizione degli enti inutili come il CNEL, le competenze delle Regioni.”


Non possiamo sapere se questo cambio di strategia sarà sufficiente e sufficientemente efficace a “cambiare verso” ad una comunicazione manichea, tossica, e spesso controproducente, che connotava un tono arrogante e spesso saccente.
Non possiamo prevedere se “gli altri” comprenderanno a loro volta che sarà necessario adeguare anche la loro risposta. Perché l’errore, stavolta, sarebbe continuare con quell’idea del “votate no per mandare a casa Renzi”.
Messaggio forte, chiaro, semplice, ma non sufficiente per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il no”. Mentre palazzo Chigi pare aver chiaro che serve una drastica sterzata e inversione di tendenza per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il si”.


Tra 60-70 giorni si voterà.
La campagna è lunga, ma quella vera dobbiamo ancora vederla.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi