Questione di stadi

In un articolo del febbraio 2014 il Sole24Ore chiarì, con una semplice classifica europea, la questione stadi.
“Il Manchester United ricava dal match-day (botteghino più servizi legati al giorno della partita) più di Juventus, Milan, Inter e Roma messe insieme: 127 milioni di euro contro poco più di 100 raggranellati dai 4 club italiani” secondo la classifica dei fatturati Deloitte sui bilanci 2013.
Introdotta dalla legge di Stabilità per il 2014 c’è una disciplina che dovrebbe incentivare la costruzione e/o l’ammodernamento degli impianti sportivi tagliando i tempi per l’approvazione dei progetti e attirando investimenti privati.


Sempre secondo i dati Deloitte “Real Madrid e Barcellona sfiorano i 120 milioni di incasso da partite, l’Arsenal 108, il Bayern Monaco e il Chelsea oltre 80 milioni. Rispettivamente il triplo e il doppio rispetto alla migliore delle italiane, la Juventus che pure con la realizzazione dello Juventus Stadium (l’unico di proprietà nella Penisola, a parte il caso della struttura di Reggio Emilia acquisita dal Sassuolo) ha portato questa voce del bilancio da poco più di 10 a quasi 40 milioni a stagione. Ma grazie a impianti di proprietà o comunque più attrezzati e decisamente più ospitali fanno meglio dei bianconeri anche Borussia Dortmund (60), Psg (53), Liverpool (52). Incassi che “doppiano” le entrate di Milan, Inter e Roma.”
Una questione innanzitutto di investimenti. In Gran Bretagna in vent’anni i team hanno investito circa 3,4 miliardi di sterline. In Spagna oltre un miliardo negli ultimi dieci anni. Così anche in Francia. E quasi il doppio in Germania.


Team che – anche attraverso sponsor – hanno investito su un asset patrimoniale capace in meno di dieci anni di ripagare l’intero investimento, rendere competitiva la squadra, e accrescere patrimonio e stabilità finanziaria.
Ecco innanzitutto che cos’è uno Stadio. Un affare che porta in bilancio un asset immobiliare che vale poco meno di 400 milioni di euro, e che può generare il triplo in dieci anni. Senza contare le attività extrasportive, primi tra tutti i concerti, o attività come Olimpiadi e Mondiali.
Esistono però alcune questioni, innanzitutto di logica e mentalità. 
Gli stadi italiani sono storicamente pubblici, e normalmente gli incassi della pubblica amministrazione bastano a malapena a garantirne i costi di gestione ed il mantenimento della struttura a “norma di legge”.


Aprire il business degli stadi ai club privati da un lato fa crescere il rischio della speculazione immobiliare, dall’altro garantisce una forma di reddito aggiuntivo enorme ai club che possono permettersi l’investimento (che non sono certo quelli che hanno bisogno di sostegno) accrescendo quindi il divario con le squadre minori ma che giocherebbero nello stesso campionato.
In più resta tutta da chiarire la questione del “cosa fare” dei vecchi stadi, su chi ricadrebbero oneri di abbattimento e conversione, e come gestire i costi – ad esempio di sicurezza ed accessibilità – che restano una prerogativa pubblica.


Che la “privatizzazione” degli stadi sia un bene per le sorti finanziarie e di competitività dei club è fuori discussione. Tuttavia – ancora una volta – il fenomeno va gestito e regolato, affinché non sia un’ennesima (e forse decisiva ed irreversibile) occasione di divario che dopi finanziariamente il campionato, e vada a discapito delle “squadre minori” o semplicemente di “città più piccole”. E va gestito e regolamentato anche per evitare che diventi un’occasione di speculazione immobiliare, semmai anche poco trasparente, i cui oneri (ad esempio per i vecchi stadi) ricadano, per l’ennesima volta, sul pubblico.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi