Lunga vita a Palmira, “la sposa del deserto”, per secoli crocevia tra Oriente e Occidente, punto d’incontro di civiltà differenti.
Palmira è viva e riluce sotto il sole, di lei restano alcune rovine preziosissime -le rovine sono a loro volta resti di opere d’arte – che si stagliano nel deserto e attraverso le quali possiamo immaginare la forma originaria della città all’apice dello splendore sotto la regina Zenobia nel terzo secolo dopo Cristo.
Freud nel Disagio della civiltà aveva evidenziato, parlando di Roma, l’importanza delle rovine e dei monumenti accanto alle opere più recenti, il passato che si riversa nel nostro presente arricchendolo, dando un valore alle varie trasformazioni. Nulla si dimentica, orribile è il tentativo di distruggere la traccia di un epoca, se ci si ostina a farlo, a cercare di cancellare quel che di bello si è creato nel tempo, si sprofonda in una rimozione che ci abbrutisce, causa prima di ogni pazzia. Per questo chi ha accusato che ci si commuove più per le rovine che per la morte di civili uccisi per mano dell’Isis, sbaglia; è un tentativo questo di evitare d’interrogarsi sul perché di una tale commozione.
La risposta è semplice: se Palmira andasse annientata sarebbe distrutta una parte di noi stessi, del percorso degli umani nel tempo. Risulta incomprensibile l’atteggiamento di coloro che accusano d’insensibilità chi piange sulle rovine profanate, esse stanno nel nostro cuore come ci stanno le vittime della barbarie, entrambi ci sono cari, entrambi hanno diritto di vivere, entrambi meritano il nostro indelebile ricordo.