La notizia riportata dal Roma di ieri va ben oltre un articolo di cronaca politica, semmai locale, e tocca aspetti profondi della società, della tecnologia e della politica.
Intanto la questione primarie.
Il centro destra non le fa, anche se sta comprendendo che forme come i gazebo possono essere quantomeno uno strumento utile per avvicinare i cittadini. Il centrosinistra le fa, come molti sostengono “sono elemento costitutivo del dna del partito democratico”. Semmai le fa in maniera confusa, con una regolamentazione interna spesso ballerina e discutibile. Ma le fa “in carne ed ossa”. E questo è molto importante per la democrazia, perché ad esempio consente quel controllo che la stampa – quando davvero indipendente – può esercitare nell’interesse comune: fare cronaca e documentazione, e nel caso denuncia. È un interesse di trasparenza collettivo, che non riguarda semplicemente “la vita interna e privata” di un partito – come taluni sostengono – perché poi i candidati e gli eventualmente eletti, e comunque “i selezionati”, toccano tutti noi, anche quelli che di quel partito non fanno parte e gli elettori di tutt’altro schieramento.
Questo principio di trasparenza, di possibilità di verifica, di denuncia, di controllo, di ricorsi se ve ne sono le condizioni, è alla base di qualsiasi consultazione elettorale tesa alla selezione delle classi dirigenti e degli eletti.
Il Movimento 5 Stelle, preso dal furore del cyber-utopismo più estremista, le sue consultazioni, iscrizioni, discussioni, le fa a mezzo web. Questo comporta certamente dei vantaggi, come rendere accessibile l’incontro e la partecipazione a distanza, poter avere libertà di orario e tempo di riflessione. Ma il delirio di onnipotenza del web è anche nella faciltà con cui enormi bufale assurgono a verità solo perché molto condivise o commentate, che se lo dice la rete sarà vero, nonché la sottile vigliaccheria di celarsi dietro l’anonimato di profili social falsi e blog amatoriali per diffamare, attaccare, inventare notizie. Peggio se tutte queste patologie della rete finiscono con entrare nel processo decisionale democratico. Peggio ancora se dalle votazioni online dipende chi viene candidato, espulso, eletto.
Quando le cose, in passato, sono andate male per evidenti errori di programmazione interni, Casaleggio parlò di “hackeraggio” esterno. Mai dimostrato. Era il tempo delle quirinarie. Prima era stata la volta delle parlamentarie (quasi condominarie) dove sono stati scelti per essere eletti (in liste bloccate) fratelli, figli e fidanzate di qualche attivista della prima ora vicino a Grillo. Anche con appena 17 voti. Oggi la somma non varia di molto, e si viene scelti per essere candidati sindaco, presidente di Regione, parlamentare, o espulso, con poche decine o qualche centinaia di voti. Ma possiamo davvero chiamarli tali? Chi e come può verificare se non ci siano doppi o tripli profili? Peggio, chi può dare la certezza che quei risultati “totali” siano effettivamente “i totali corretti”? Perché le schede – quelle vere – le puoi anche ricontare. I click di certo no.
E se il candidato sindaco viene scelto con 270 voti, e in poche decine si piazzano i competitor, allora quelle “espulsioni” di 38 persone a Napoli impedendo a militanti storici di votare e decise d’imperio da Milano (senza consultazioni online, senza streaming) pesano, e parecchio. Soprattutto se poi quel favoloso numero di 5.400 partecipanti al meet-up di Napoli in realtà sia costituito dall’80% di profili “falsi” o doppi o tripli. E poi, chi ha deciso che davvero sono solo 580 (circa) gli iscritti aventi diritto a Napoli?
Tutto questo riapre la questione ben più seria, meno “di parte” e meno legata alla cronaca, che riguarda quale modello di democrazia vogliamo, se davvero affidarsi senza limiti alla tecnologia senza possibilità di verifica esterna sia la forma migliore per i nuovi processi democratici. Soprattutto senza riflettere su forme di controllo autentico. Perché da questa considerazione dipenderà quale sarà la società del futuro.