La comunicazione politica in Italia

Rimaniamo spesso affascinati dalla politica anglosassone, e in particolar modo da quella made-in-usa. Primarie, competizione, serie tv che ci mostrano storie e professioni che possiamo solo immaginare. E ci facciamo un’idea – anche della società americana – che in realtà è molto diversa dalla realtà.
Da West Wing a House of Cards a Scandal, il cittadino spettatore “beve” quasi acriticamente quella realtà e finisce con il ritenere che “quella sia la politica”, così dovrebbe essere, o peggio che davvero anche in America la politica sia fatta in quel modo.
Torniamo a parlare della politica americana per vari motivi, e cogliendo almeno due occasioni.
La prima è la “lunga corsa” delle primarie che si esaurirà in estate, con le convention, e con la definizione di chi saranno i due candidati accreditati (in realtà sono molti di più, ma parliamo di quelli che hanno chance concrete di essere eletti) alla presidenza.


La seconda è un episodio passato un po’ in sordina e che ci riguarda direttamente: Matteo Renzi ha assunto come “stratega” per la campagna referendaria sulle riforme istituzionali Jim Messina.
Andiamo con ordine. Le primarie americane sono il long-show della politica americana. Cominciano con le elezioni di medio termine (in realtà in sordina ben prima, ed anche gli accordi per le mid-term sono da leggersi in questa proiezione) – due anni prima delle presidenziali – e tendono a definire prima tutte le possibili candidature, per poi assottigliare la schiera dei candidati, accorpare e mettere insieme le forze (e le risorse) in vista della sfida vera e finale, che tecnicamente dura tre mesi, da settembre al 4 novembre.


Ogni giorno arrivano da oltreoceano notizie, informazioni, spigolature, che fanno di quella campagna una vera e propria campagna elettorale globale.
Il sistema e il meccanismo sono anche voluti, dal momento che il presidente degli Stati Uniti è anche definito – più che altro giornalisticamente – “il capo del mondo libero”. Affermazione che nasce durante la guerra fredda, in contrapposizione con il blocco sovietico, e che oggi assume una dimensione se possibile anche più planetaria, con i nuovi e trasversali regimi, totalitarismi minori, e le numerose minacce terroristiche. Senza entrare nel merito, questa accezione si riferisce a questa visione del mondo.


La politica americana è costosissima, proprio perché professionale e fatta da professionisti.
Il grande non-protagonista della politica americana sono le lobby, che non sono quello che vediamo e quello che ci rappresentano. Nella realtà sono semplici “associazioni di interessi”. Tra le prime dieci della politica americana vi sono quelle ambientaliste, quelle delle energie alternative, quelle degli insegnanti. Che normalmente raccolgono fondi e spostano voti anche maggiori rispetto ai lobbisti del petrolio o del “trio morte” (armi, alcool, tabacco). Esistono leggi severissime sui finanziamenti elettorali, per una tangente anche piccola si va in galera davvero, mentre da noi non si approva una legge sul lobbismo – anche se basterebbe estendere il codice etico presso il Parlamento Europeo – lì le lobby dichiarano in maniera trasparente chi finanziano e con quanto.



Questo professionismo crea professionisti. Che si specializzano in quello che fanno.
Nella campagna per la rielezione del presidente Barack Obama, Stephanie Cutter, Jen O’Malley Dillon, e Teddy Goff hanno sperimentato nuovi sistemi e policy di costruzione del consenso che hanno consentito la costruzione e conduzione di una campagna senza precedenti per capire, raggiungere e collegarsi con il maggiorn numero di Americani mai raggiunto da una campagna.


Conclusa quell’esperienza hanno costruito una start-up del valore di 1,2 miliardi di dollari in 19 mesi e hanno creato creato nuovi strumenti di data-driven per raggiungere il pubblico giusto con i giusti messaggi: sono oggi la più efficace società di strategia e analisi di metadati sociali.
Stephany Cutter nasce come assistente del senatore Kennedy, per poi ricoprire vai incarichi sempre nel settore comunicazione sino a tutta la presidenza Clinton e la campagna Kerry, trasferendosi nel settore della comunicazione politica privata durante l’amministrazione Bush, e rientrare nell’amministrazione pubblica con Obama di cui è stata vice capo campagna.


Jean O’Malley Dillon ha lavorato come Vice Campaign Manager per la campagna di rielezione del presidente Obama, supervisionando la più grande organizzazione nella storia delle campagne presidenziali.
Teddy Goff era il direttore digitale per la campagna di rielezione del presidente Obama, ed era il coordinatore della squadra nazionale di 250 persone che si occupavano di social media, e-mail, web, pubblicità online, organizzazione on-line. Sotto la guida di Teddy, Obama per l’America ha raccolto più di 690 milioni di dollari e registrato più di un milione di elettori on linea, ha costruito un’identità digitale tra Facebook e Twitter seguita da circa 100milioni di persone, ha generato oltre 133 milioni di visualizzazioni video, e con oltre 100 milioni di dollari spesi in pubblicità online ha gestito il più grande programma del genere nella storia politica.



Perché raccontare queste storie. Perché quel grado di professionalizzazione nasce da due fattori.
Il primo, è dedicarsi a tempo pieno a questo tipo di attività, e il secondo, è farlo in un quadro normativo chiaro e trasparente.
Da noi invece va sempre più di moda la “collaborazione gratuita” o collaterale, che significa “tu fai la campagna a me e io ti faccio vincere quella gara e avere quel contratto”.
Questo approccio parte da un errore di fondo: non aver compreso – da parte di chi fa politica – in che era geologica della comunicazione siamo. Perché significa esportare quel modello che funzionava negli anni sessanta, settanta e ottanta per cui facevi l’addetto stampa gratis, e poi venivi assunto in Rai o in un determinato giornale. O altre volte eri giornalista formalmente presso una testata (spesso di partito) ma in realtà facevi il portavoce o il collaboratore di questo o quello.
Sono fatti noti, è inutile nascondersi dietro un dito.


Questo retaggio di metodo, che la politica si porta dietro, non tiene appunto conto del modo in cui è cambiato il mondo. E che in un certo professionalismo richiede specializzazione. E questa specializzazione richiede una dedizione specifica e full time alla conoscenza della nuova comunicazione politica che è fatta di analisi dei flussi e dei metadati.
E così avviene che quando hai poi bisogno di queste professionalità, da Monti a Renzi ti rivolgi a presunti onniscienti guru americani, “garanzia di successo” su un modello in cui loro hanno potuto specializzarsi, e che si ritiene che nessuno “da noi” sia altrettanto bravo.
E tuttavia non è così. Ciascuno è figlio della cultura sociale e politica del proprio paese.
Importare un sedicente guru – il caso Monti lo dimostra ampiamente – non solo non è garanzia di successo, ma anzi… perché non puoi importare una politica ed un approccio di comunicazione se di quella comunità e sintassi politica non fai parte in prima persona.


E ci sono tante realtà, piccole, medie, poco conosciute, che al di là e ben oltre la fuffa che spesso naviga in rete, sono veramente qualificate a fare comunicazione politica. Professionale e non improvvisata, e i metadati li sanno leggere sul serio.
Peccato poi si trovino sempre più spesso a lavorare ed essere valorizzati all’estero.
Anche questa è fuga di cervelli.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi