In occasione del suo discorso dopo l’esito del referendum sulle trivelle Matteo Renzi ha attaccato i Talk Show, e una parte dell’informazione.
In molti si sono risentiti ricordando a Renzi che proprio lui alla televisione e ai talk deve moltissimo, altrimenti sarebbe rimasto uno dei tanti sindaci di Firenze e non avrebbe avuto chance di diventare segretario e quindi premier.
Alcuni si sono anche soffermati sull’attacco che ha sferrato a Michele Emiliano, secondo il premier artefice di uno spreco di denaro pubblico che sarebbe stato meglio investire in trasporti per pendolari e in sistemi di depurazione.
Tutto questo fa ovviamente parte della pubblicistica e della comunicazione politica interna, perché il premier sa benissimo (e infatti lo ha detto in conferenza stampa senza contraddittorio) che ogni anno alle regioni arrivano meno fondi dal governo centrale, che quelle materie sono di parziale competenza dei bilanci di esercizio regionali, e che le due cose non possono certo essere mutuate.
Ma tutto ciò premesso, c’è qualcosa che va chiarito e che tiene insieme i due concetti: l’attacco a Michele Emiliano e quello ai talk show.
Sbaglia infatti chi dovesse pensare ad una sorta di attacco alla libertà di stampa, o peggio di un’idiosincrasia del premier/segretario alle critiche.
Renzi conosce bene – essendone un assiduo frequentatore – il potere dei talk show, anche per dare visibilità a tanti della sua generazione e dirigenti da lui voluti fino al ruolo di ministri, che senza quello strumento non esisterebbero, sia mediaticamente che politicamente.
Sa anche bene, essendo un intelligente comunicatore, che un governo sta in piedi mediaticamente e comunica cose fatte anche quando l’oggetto della decisione del governo è oggetto di dibattito e di opposizione: un intervento (qualsiasi) esiste (politicamente e mediaticamente) solo se è anche discusso.
Il problema di Renzi non sono i Talk né la discussione e il dibattito politico, meglio se incentrato sul governo, sui suoi provvedimenti, sulle riforme. Anche in sua assenza resta sempre una occasione di presenza indiretta.
Il vero “fastidio” per Renzi, che alle volte sfocia in fobia cui riserva risposte decisamente violente, è quando i talk show diventano occasione di visibilità di suoi antagonisti interni.
Perché come lui, grazie alla televisione, è riuscito a crescere efficacemente come antagonista e alternativa a Bersani, sa bene che la stessa cosa può accadere contro di lui.
È questo che spiega la “violenza” verbale di quella conferenza stampa, ed è anche questo che però ci induce ad un ragionamento più complesso, complessivo e articolato sulla comunicazione di Matteo Renzi.
Matteo Renzi è un’assoluta novità nel panorama della politica italiana. E questa novità – come fu quella di Berlusconi venticinque anni fa – lo ha portato alla vittoria.
Ancora una volta è la conoscenza e capacità di gestione del mezzo di comunicazione che fa la differenza. Venticinque anni fa, in un paese in cui la classe politica da poco aveva scoperto gli spot sulla televisione commerciale, legata ancora a formule di un dibattito politico statico e ingessato, Berlusconi travolse ogni improbabile avversario.
Oggi lo storytelling: la politica come racconto e narrazione.
Conta poco “il singolo mezzo”, quello che pesa è la capacità di raccordo multimediale: foto, video, televisione e condivisione social, che vuol dire anche capacità di entrare in contatto (reale o apparente conta poco) con gli elettori.
Per comprendere quanto la stessa classe dirigente del Partito Democratico sia stata travolta dal fenomeno Renzi basta ricordare una frase di Massimo D’Alema “secondo me dovrebbe farsi cinque anni come europarlamentare e poi proporsi”.
Pochi mesi dopo quella frase Renzi vinse le primarie, divenne segretario, stravolse le regole di costituzione della segreteria, ed è diventato premier: tutto in tre mesi.
Questo delta nella concezione dei tempi della politica è esattamente la cifra della consapevolezza del tempo in cui viviamo e di ciò che i media, e la loro integrazione, consente di fare alla politica. Se guardiamo “oltre” il fenomeno Renzi, contemporaneamente è la stessa parabola di Tsipras in Grecia, di Podemos in Spagna, ma anche la rigenerazione politica di Sarkozy in Francia, giusto per fare qualche esempio.
Con l’accelerazione dei tempi dei media, e della società, vengono stravolte anche le classi dirigenti incapaci di reggere il passo. Non solo la fine dei vecchi partiti tradizionali, in cui spesso le strutture organizzative da strumento utile e funzionale di radicamento diventano elemento di rallentamento e consevatorismo, ma anche la fine dei “vecchi percorsi” di crescita e formazione politica.
Non è un caso che Renzi al primo turno delle primarie vince ma non supera il 43% all’interno del partito, inteso come organizzazione ed iscritti. Esattamente come non è un caso che invece in primarie “aperte” – come è stato il secondo turno di votazioni – abbia superato il 66% delle preferenze in un popolo che ha superato i due milioni di votanti.
Anche in questo caso, questa differenza, marca la distanza tra la forma partito tradizionalmente intesa, e la formazione dei suoi leader, e la società reale, con i suoi tempi e le sue forme di comunicazione.
Se questa è la premessa, tuttavia, sono almeno atre due le considerazioni da fare sul percorso politico di Matteo Renzi.
La prima, è che la sua storia è il prodotto di una politica da laboratorio, sulla falsa riga di quanto avviene negli Stati Uniti: salvo rare eccezioni una classe dirigente fatta di figli nati, formati, cresciuti, per diventare classe politica. È la storia dei Bush, come lo fu dei Kennedy, ma non molto distante da quella dei Clinton e di tanti governatori e senatori.
Matteo Renzi non ha mai lavorato un giorno fuori dalla politica: segretario di sezione, segretario provinciale dei popolari, presidente della provincia, sindaco di Firenze. Proiettato e sostenuto nella sua carriera politica da un gruppo di famiglie legate tra loro, che i suoi detrattori chiamano “cerchio magico”, che vedono un ristretto gruppo di persone (tra cui Luca Lotti, Dario Nardella, Giuliano da Empoli, Marco Carrai e Maria Elena Boschi) molti dei quali con lui a Palazzo Chigi.
La seconda, è che in nessuna competizione elettorale Matteo Renzi ha preso preferenze personali. Il suo nome era sempre “in ballottaggio” e alternativa con qualcun altro per ciascuna delle cariche e posizioni ricoperte. Mai preso preferenze come consigliere comunale, mai fatto parlamentarie, mai partecipato ad un’elezione proporzionale. E questo gli ha garantito di potersi sempre presentare con un curriculum forte e unificante.
Queste premesse sono importanti perché tracciano il profilo di un politico nuovo: che non disperde risorse ed energie, che “mette insieme” un gruppo con cui costruisce una squadra ed un progetto politico, cui delega finanche l’allargamento del gruppo, ed in cui la costante è l’emersione unica e non discutibile di lui come leader, ma anche come dominus “capace di creare i nuovi leader” (come lui stesso ha detto nel suo discorso all’assemblea dei delegati del Pd).
La sua forza sta nella capacità di mettere insieme pezzi che difficilmente starebbero insieme in altre circostanze, ma anche nell’avere di fatto nelle sue mani il destino parlamentare: non solo non c’è alternativa numerica a lui come premier, ma la legge elettorale (quella vecchia ed ancor più quella nuova) mettono di fatto nelle mani della segreteria (lui stesso) la capacità di candidatura, ed anche di fatto la nomina della maggioranza parlamentare delle sue liste attraverso il meccanismo dei capolista bloccati.
L’elemento di debolezza risiede tuttavia in almeno due fattori distinti da lui indipendenti.
Il primo è la straordinaria arretratezza politica del centrodestra – che ha una base elettorale ampia, ma assolutamente orfana di leader in cui riconoscersi e da scegliere – soprattutto distante dai tempi della società.
Questo fattore è essenziale perché se Berlusconi è stato migliore di quanto non avrebbe potuto essere per il solo fatto di avere un’opposizione valida e solida, capace di un’alternanza e di offrire un’alternativa, Renzi è certamente peggiore di come avrebbe potuto in realtà essere, proprio perchè questa opposizione e questa alternativa non esiste.
Il secondo è la mancanza di una alternativa interna, di una “leadership di minoranza” capace di subentrare, di essere un domani maggioranza, e di pesare nelle scelte e nei programmi di partito, quanto meno per connotare un distacco tra la dimensione di segretario/premier detentore del potere esecutivo, e quello di partito/parlamentare, cui compete il potere legislativo e di controllo dell’operato del Governo.
La mancanza di queste due forme di opposizione ed alternativa – su cui spesso si sono giocate le sorti degli equilibri democratici dei sistemi parlamentari – possono apparire un elemento di forza e garanzia di imbattibilità. In realtà rischiano di essere un punto di estrema debolezza perché “se hai un potere assoluto, non hai alibi per ciò che accade”, e spesso in politica ciò che accade è indipendente da ciò che si fa e si decide al Governo.
Anche a bilanciamento di tutto questo, torna a suo favore una straordinaria dimestichezza dello strumento comunicativo diretto, come i social network che finiscono con l’essere il luogo di reperimento autentico delle dichiarazioni e delle intenzioni di Renzi, che non a caso, non solo a livello percettivo e ben oltre quello strettamente anagrafico, per tutti è semplicemente “Matteo”.
Qualcosa che non va confuso con l’apparente “uno di noi” proprio dei movimenti più populisti che diffusamente stanno popolando l’Europa con diverse declinazioni.
Matteo, per il popolo del centro sinistra, è una ventata di vicinanza a tempi e modi della comunicazione della società. E Matteo è familiare come un personale contatto di Facebook, e lo storytelling della sua politica è il racconto diretto e personale, non mediato, delle vicende di un governo che almeno appare dialogante.