ISIS e la strategia della guerra santa

Da sigla quasi sconosciuta, e relegata a costola di Al-Qaida, l’ISIS domina ormai la scena delle cronache non solo estere ma sempre più della cronaca di casa nostra. Le pagine di tutti i giornali del mondo sono “invase” – letteralmente – da notizie temi e immagini che sino a qualche mese fa erano prevalentemente diffuse attraverso il web, ponendo mille interrogativi e generando qualsiasi teoria complottista e retroscenista.
Nel mio ebook “Isis, la comunicazione globale del terrore” quello che ho analizzato e il “modello comunicativo”, ossia l’evoluzione del modo con cui i movimenti jihadisti e qaidisti avevano deciso di comunicare, la loro strategia di creazione del modulo-mito e gli obiettivi strategici di questa nuova forma comunicativa.


Per la prima volta infatti – salvo sporadici episodi marginali – la jihad era uscita dai confini territoriali e culturali di specifiche aree geopolitiche, e faceva proseliti in occidente, presso ragazzi occidentali: prendeva a piene mani da quelle esperienze e competenze comunicative per implementare e sviluppare maggiormente l’efficacia della sua strategia comunicativa.
La globalizzazione del terrore oggi ha il logo e il marchio dell’ISIS, e da pezzo primordiale della nuova forma della comunicazione globale dell’estremismo, che recluta in tutto il mondo, in tutte le fasce d’età ed in ogni lingua, e che diffonde il suo messaggio senza alcun limite e confine territoriale, senza fasce protette, senza distinzioni di sesso, razza, religione, colore, situazione, contesto, oggi compie un salto di qualità tutt’altro che indifferente.
Come ogni prodotto virale l’unica regola è che “ciò che viene dopo” dovrà essere “più bravo, più virale, più strutturato” per emergere, ma anche più crudo, più violento, più sanguinario e con ancora meno limiti, per emergere come “soggetto nuovo” per evitare che “per il pubblico” sia qualcosa di “vecchio e già visto”.
In questa logica va visto il “protagonismo terrorista” di questi ultimi mesi, a cavallo dell’estate e dei mesi di vacanza e di maggior turismo in occidente: cogliere il miglior momento possibile a livello comunicativo per generare ansia, terrore, indurre al cambiamento delle abitudini, gestire la vita e l’agenda dei cittadini (principalmente europei), dominare da protagonisti le pagine di cronaca.
Irrilevante che ciò riguardi il Bangladesh (basta colpire cittadini europei), Nizza durante una festa nazionale o un paese della provincia in un giorno qualunque in un momento qualsiasi della normale vita della comunità locale.


Isis – macabramente – si connota sempre più come un fenomeno mediatico, capace di polarizzare l’attenzione, la cronaca, i social network, la politica, collegandosi a qualsiasi momento mediatico.
Smette di essere – mediaticaente parlando – un fenomeno bellico, geolocalizzato, legato alla politica estera o ai temi della cronaca internazionale.
Interessante a tal proposito la critica, e in parte autocritica, del Le Monde, all’indomani dell’attaco di Saint-Entienne-du-Rouvray, nel quadro della più ampia – e seria discussione – se il pubblicare nomi, foto e dettagli sulle identità dei terroristi possa alimentare le più deliranti teorie del complotto, o se “anonimizzare” il terrorismo possa invece essere utile a ridurre il desiderio di emulazione lasciando i terroristi nell’oblio.
Un dibattito non senza fondamenti seri nel nuovo territorio del terrore globalizzato.
Da un lato il diritto di cronaca ed informazione, dall’altro la presa d’atto di un fenomeno globale emulativo.


L’Isis è sempre più solo un marchio, che compie essenzialmente due azioni coordinate: invitare e stimolare l’azione kamikaze, quanto più cruenta possibile, e ovunque, e rivendicare qualsiasi azione terroristica, anche se non direttamente collegata.
Un binomio relativamente economico e che sfrutta consapevolmente e scientificamente le nuove forme di comunicazione di un mondo mediaticamente globalizzato, in cui la cultura dello scandalo e della cronaca violenta diviene focalizzatore di pubblico e share.
Un tema su cui la stampa internazionale dovrebbe riflettere con maggiore consapevolezza, uscendo da semplice ruolo di “riportatrice di fatti di cronaca” e comprendendo che invece può essere soggetto attivo della diffusione di un messaggio e da stimolo – attraverso la spettacolarizzazione – di atti di emulazione.


L’estremizzazione del messaggio fondamentalista e jihadista non è efficace solo se “tu scegli di
combattere da quella parte”, ma raggiunge un risultato anche se tu semplicemente scegli di
combattere quella guerra, perché in fin dei conti raggiunge l’obiettivo di farti schierare in prima
persona sul campo, che significa legittimazione come avversario, unico e definitivo. Che poi è
l’obiettivo politico globale dell’ISIS.


Oggi appare chiaro che lo Stato Islamico, decisamente in difficoltà sui campi di battaglia e nelle aree geografiche in cui combatte militarmente, punta ad una sfida mediatica totale.
L’obiettivo è la “guerra totale” di religione. Identificare se stesso come “il vero Islam” e tutti quelli che non sono con l’Isis sono “infedeli che combattono una guerra religiosa”.
Riuscire in questo obiettivo sarebbe un suicidio politico, culturale e civile dell’intero occidente.
Ma in questa direzione vanno non solo “il messaggio” diretto dell’Isis, ma anche e soprattutto la simbolica degli attacchi, come l’uccisione in chiesa di un sacerdote.


E per questo l’occidente non può cadere nella provocazione di criminalizzare l’islam in quanto tale.
Non può cedere al facile manicheismo di chi vorrebbe una divisione del mondo e delle persone.
Sarebbe la vittoria dell’Isis che potrebbe concretizzare se stesso come “islam che difende gli islamici” contro “un mondo di infedeli che vogliono una guerra santa contro l’islam”.
In questo senso sono tutt’altro che simboliche le prese di posizione di molti imam, presenti a cerimonie inter-religiose, o come la presa di posizione della comunità islamica francese che ha rifiutato la sepoltura musulmana ai terroristi.
Un modo di non cadere nell’equivoco crociato, e di bilanciare il messaggio jihadista sul suo stesso terreno. Come a dire “se qualcuno vi promette che con il terrorismo avrete il paradiso, sappiate che non avrete nemmeno una sepoltura religiosa”.
E questo messaggio, e questa posizione forte, a ben vedere, possono essere davvero l’arma più potente contro questo nuovo terrorismo.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi