Immigrazione: né isteria né buonismo

“Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di doverci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di cercare e praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Nel nostro interesse e in quello di un’umanità diseredata.”




Una settimana fa, di fronte all’ultima e più spaventosa tragedia del Mediterraneo costata la vita a più di settecento profughi, il Governo italiano ha ottenuto una riunione straordinaria del Consiglio europeo. Ebbene, erano giuste e che esito hanno avuto le richieste avanzate da Matteo Renzi di assumere un’iniziativa comune per fermare gli scafisti, per soccorrere in mare i boat people e per organizzare la distribuzione dei profughi in tutta l’Unione Europea?





Tutti i leaders convenuti, cogliendo il sentimento umanitario dell’opinione pubblica di fronte al disastro, hanno condiviso la necessità di triplicare i finanziamenti comunitari all’operazione Triton portandoli dagli attuali tre a nove milioni di euro. Bene, ma così siamo semplicemente tornati al punto di partenza, cioè al costo che in precedenza l’Italia, da sola, aveva sostenuto con l’operazione Mare Nostrum. Operazione che aveva consentito, nel solo 2014, il salvataggio di 170.000 esseri umani tra richiedenti asilo, profughi e clandestini, ma che non aveva mutato di una virgola gli elementi fondamentali del problema.


Viceversa, con toni e argomenti diversi, il primo ministro inglese David Cameron, e, subito dopo, la cancelliera Angela Merkel hanno respinto o accantonato sia la richiesta di distribuire i boat people su tutto il territorio europeo, sia le suggestioni, peraltro molto improvvisate e confuse, di fermare gli scafisti o con operazioni militari (sequestro o distruzione dei barconi degli scafisti affidati a raid aerei di droni), o con spedizioni di polizia internazionale nei porti e nelle spiagge.


In sostanza l’aiuto umanitario è stato incrementato (ma anche arretrato a sole trenta miglia dalle coste italiane con conseguenti maggiori rischi per i boat people), mentre, per ora, gli attori criminali restano liberi di agire e le conseguenze pratiche, cioè l’accoglienza dei salvati in mare, resta affidata a Italia e Malta, cioè ai paesi di primo transito dei migranti, esattamente come prevedono gli accordi di Dublino, (sottoscritti anche dall’Italia), tuttora in vigore.


Per quel che riguarda la richiesta italiana che il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzi interventi militari o di polizia contro scafisti e scafi circolano versioni molto diverse su come l’abbia accolta il segretario generale Ban Ki-moon.


Intanto, ancora una volta, politici, giornali e televisioni italiane hanno sollevato a gran voce proteste e accuse contro l’egoismo, l’indifferenza, il cinismo dell’Europa che lascia l’Italia sola a sbrigarsela con le ondate migratorie, anzi, con “le invasioni” come a molti piace chiamarle. Ma le cose stanno davvero così? No, non stanno così. E’ vero che il numero dei richiedenti asilo in Italia è molto aumentato negli ultimi anni, tuttavia, in rapporto alla popolazione, il nostro resta uno dei paesi europei con la minor presenza di rifugiati, mentre, in cima alle classifiche che misurano l’accoglienza svettano Svezia e Germania. D’altra parte, se è vero che Germania e Regno Unito non vogliono partecipare all’accoglienza dei rifugiati che sbarcano sulle nostre coste, è altrettanto vero che noi ci siamo ben guardati dal condividere l’accoglienza dei 400.000 slavi che negli anni ’90 si sono riversati al di là delle frontiere tedesche. Per non dire che, ancora nel 2013 e nel 2014, ci siamo esposti alle contestazioni, alle accuse, alle denunce delle autorità francesi, austriache e, soprattutto, tedesche per aver lasciato transitare decine di migliaia di clandestini e di profughi al di là delle nostre frontiere senza registrarne i documenti di identità e senza prenderne le impronte digitali. E’ questo un modo scorretto di aggirare l’obbligo di accoglienza che grava sul primo paese in cui transitano i richiedenti asilo, un modo di fare i furbi che ha reso i nostri partner europei poco propensi a condividere il peso delle nostre attuali difficoltà. Hanno già le loro e le affrontano organizzando tendopoli, requisendo e riadattando caserme e stabili dismessi. Di fronte alle nostre emergenze a noi tocca fare la nostra parte senza abbandonarci a quel misto d’isteria e di inconcludente buonismo che appartiene al peggio tanto delle nostre tradizioni politiche quanto del costume nazionale.




Soltanto nell’anno appena passato, il 2014, cinquanta milioni di esseri umani hanno lasciato i paesi di origine per trasferirsi, là dove speravano di poter vivere meglio o, almeno, di poter sopravvivere. Si tratta di un diritto umano inalienabile che tuttavia, non di rado, entra in conflitto con il diritto degli stati e dei loro cittadini di difendere le proprie frontiere anche respingendo ospiti indesiderati. Questo conflitto tra due diritti è ciò che rende l’immigrazione una materia calda, caldissima, in tutta Europa – e non solo in Europa. Nel Mediterraneo poi, ad aggravare tensioni, paure, minacce, si teme la combinazione potenziale tra la bomba demografica innescata nel continente africano e la disseminazione del terrorismo islamico che usa anche le ondate migratorie come veicolo della sua proliferazione omicida. L’intreccio di queste diverse circostanze può raggiungere un’imprevedibile, micidiale incandescenza.




L’annunciato incombere di un milione di fuggiaschi dall’ Africa subsahariana – già oggi il 50% di profughi e di clandestini salvati nel Mediterraneo proviene dal Mali, dal Niger, dal Ciad e dalla Nigeria – impongono una strategia lungimirante e globale di cooperazione allo sviluppo e di sostegno al controllo demografico in paesi che versano in condizioni disumane; consigliano un impegno e un sostegno coerenti per contenere le ondate migratorie attraverso la stabilizzazione dei paesi arabi nord africani che sono i nostri e i loro vicini, i nostri e i loro interlocutori; esigono una diversa politica di sicurezza delle frontiere che sono certo frontiere dell’Unione Europea, ma anche, e innanzitutto frontiere italiane; una nuova politica sulle migrazioni legali per attirare i giusti talenti e per giustificare meglio il respingimento di quelle illegali. Reclamare l’aiuto europeo e la “copertura” giuridica delle Nazioni Unite è giusto e corretto, ma non ci esime dal dovere di fare, noi per primi, tutto ciò che è necessario e che finora non abbiamo fatto per difendere noi stessi mentre affrontiamo le emergenze umanitarie.


Quando un problema, per le sue stesse dimensioni, appare insolubile è buona regola cercare di scomporlo nei suoi fattori e di diluirlo, guadagnando tempo, per allontanare il rischio che deflagri.


Anche ripassare le lezioni della storia può rivelarsi utile.


Gli Stati Uniti, nazione di emigranti, che gli emigranti li volevano per popolare un paese immenso, quando le ondate migratorie dagli stati europei più poveri, come l’Italia e l’Irlanda, raggiunsero dimensioni massicce decisero di adibire Ellis Island, un isolotto nella baia di New York, a luogo di temporaneo internamento. I nuovi arrivati venivano sottoposti ad esami sanitari, giudiziari, professionali per accertarne l’idoneità a risiedere negli USA. Si calcola che da Ellis Island siano transitati, in mezzo secolo, quasi trenta milioni d’immigrati toccando il picco di un milione nel solo anno 1907. La stragrande maggioranza dei richiedenti vennero accolti e furono liberi di scegliere dove risiedere in base alle opportunità del mercato del lavoro. Solo una piccola percentuale – tra il 2 e il 3% – vennero rimpatriati. Possibile che un secolo dopo l’Italia non sia in grado di governare il suo problema con l’immigrazione?


Certo le differenze sono grandi e numerose, ma non così tanto da inibire ogni approccio razionale e da oscurare gli insegnamenti che sprigionano dalle esperienze del passato. Le principali differenze rispetto a quel precedente di Ellis Island sono che l’Italia è piccola e densamente abitata, che quella verso gli States era un’immigrazione legale e non illegale, che di mezzo c’erano 5.000 miglia di Oceano Atlantico e non le poche centinaia di miglia che separano le due sponde del Mediterraneo.


Mentre spingiamo i negoziati per pacificare la Libia in fiamme e nell’attesa di poter ottenere là la collaborazione necessaria, è mai possibile che l’Italia, sesta o settima potenza mondiale, non sia in grado di organizzare due, tre o quante Ellis Island occorrono pretendendo senza titubanze e senza sconti il concorso economico, professionale e culturale dell’Unione Europea e dell’ONU?


Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di poterci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di provarci, di cercare e di praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Sì, possiamo e dobbiamo farlo nel nostro interesse e per quello di un’umanità diseredata.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi