Si fa un gran parlare di “popolo della rete”, riferendosi ad un qualcosa che sarebbe altro e altrove rispetto ai comuni luoghi della società, della collettività. Lo fanno spesso i politici, giornalisti, opinionisti, persone del mondo dello spettacolo, riferendosi ad un seguito virtuale come se corrispondesse ad altrettanto consenso reale. Riferirsi al “popolo della rete” è di per sé una finzione. In rete ci siamo bene o male tutti – chi con un proprio profilo ed una identità virtuale, chi citato, chi attraverso riferimenti o citazioni altrui – e siamo gli stessi che fanno parte di quella “società civile” che a sua volta è altrettanto astratta e indefinita da essere strattonata di qua e di là alla stessa stregua del “popolo della rete”. Le due dimensioni non sono però sinonime; nella pubblicistica comune “il popolo della rete” ha una fisionomia “più radicale”, una maggiore partecipazione, una maggiore identità critica, mentre la “società civile” ha una connotazione più moderata, spesso generica, finendo con l’essere il tutto (e anche il nulla) che sta più o meno bene sempre.
Queste due astratte definizioni hanno una loro precisa necessità di essere nella società cd. post-consumistica, laddove alla massa (di per sé da convincere e manipolare) viene (di necessità virtù) riconosciuta una partecipazione più o meno attiva, al massimo da “direzionare” da parte dei mass-media. Riconoscere una qualche forma di partecipazione e di condivisione ha portato a queste due nuove identità: la prima, la società civile, nasce con i primi sistemi di comunicazione individuale soggettiva (web 1.0, telefonia mobile, messaggistica) che consentivano comunque una comunicazione diretta e non verticalmente “subita”; la seconda (quasi evoluzione cronologica), “il popolo della rete” nasce con il web 2.0 ed in particolare dal 2004 quando cominciano a essere diffuse e largamente disponibili le “stanze di comunità virtuale” che diverranno poi i cd. social-network, in cui è dominante la capacità soggettiva di diventare soggetti della comunicazione.
Comprendere tutto questo – che potrebbe apparire accademico, asettico e schematico – in realtà ci aiuta a spiegare che da un lato queste definizioni sono strumentali a “dare un nome” ad un fenomeno nuovo, e che dall’altro, queste entità, semplicemente non esistono, o meglio, altro non sono che un diverso modo di chiamare ciò che sono e come interagiscono le stesse persone di prima e che tutti i giorni incontriamo nella realtà.
Ho letto di recente questa sorta di decalogo – riportato da Peppe Civati in un suo articolo – e ve lo ripropongo (fonte http://mafedebaggis.it/hello-world)
1. Internet non esiste: è un luogo perfettamente coincidente con la realtà fisica, ci andiamo come andiamo in ufficio, al bar o in camera da letto. L’unica vera differenza rispetto agli ambienti fisici è che ci permette di essere ubiqui e/o invisibili.
2. In Rete non ci sono conversazioni diverse, è che ascolti le conversazioni di persone molto diverse da te.
3. Le relazioni online sono come le relazioni offline: poche sono profonde, moltissime sono superficiali, altrettante sono opportunistiche, di maniera o false.
4. La tecnologia rende possibile il cambiamento, non lo genera: una persona che non ha niente da dire o da dare non diventa attiva e generosa solo perché può farlo. Spiegarglielo un’altra volta e un’altra volta è come spiegare una barzelletta se uno non ha riso la prima volta che l’hai raccontata.
5. La tecnologia abilita il talento dove c’è, non lo crea.
6. I nativi digitali sono abituati alla tecnologia, non consapevoli delle sue potenzialità e in quanto tali nati miracolati sulla via di Damasco: meravigliarsi o dispiacersi che usino Facebook per commentare X-Factor e non per fare la rivoluzione è come darmi un’asta e meravigliarsi se non salto da un palazzo all’altro.
7. La consapevolezza dei significati di un medium (di qualunque medium) appartiene a una minoranza di professionisti. Colmare il digital divide non vuol dire far diventare tutti professionisti.
8. In quanto abilitatore e non causa del cambiamento, i media digitali in quanto tali non sono belli o brutti, giusti o sbagliati, utili o pericolosi. Il tecnodeterminismo (di qualunque segno) è solo un escamotage per guadagnare il palcoscenico.
9. Se qualcuno – anche competente – ti spiega con dovizia di particolari i problemi di Internet, ti sta raccontando i suoi problemi con Internet.
10. Internet è un medium in cui prevale la scrittura parlata o, ancora meglio, il pensiero trascritto. Serve una nuova sintassi.
11. Gran parte degli scambi che avvengono online hanno natura fàtica, non di trasmissione di informazioni.
12. È la storia, non il libro.
Esaustivo? Onnicomprensivo? Indeclinabile? Assolutamente no – e credo che non fosse la definitività lo scopo ultimo dell’autore – e ciascuno di noi, a seconda della propria esperienza – sia della rete, che nella rete, che nella e della vita reale – può soffermarsi sul declinare, argomentare, dire, aggiungere, togliere, specificare…
Certo, procedendo punto per punto, potremmo aggiungere che internet non è un luogo perfettamente coincidente con la vita reale, se solo consideriamo la possibilità di declinare la nostra identità virtuale (cosa che difficilmente può avvenire nella vita vera); forse nel web non ci sono “conversazioni diverse” ma spesso l’uso di un sistema di comunicazione prevalentemente scritto aiuta ad una riflessione differente; le relazioni online sono diverse da quelle offline se consideriamo la mancanza di molti elementi comunicativi (tatto, olfatto, gusto, relazione chimica interpersonale); molti cambiamenti resi possibili ne generano altri, e questi sono generati dallo strumento, non è detto il contrario; la tecnologia non crea il talento, ma di certo può stimolarlo; chi è abituato alla tecnologia non sempre la usa nella massima potenzialità, ma di certo con la sua interazione inevitabilmente la trasforma e la potenzia; colmare il digital divide non vuol dire far diventare tutti professionisti, ma di certo avvicina, e rende accessibili prodotti e servizi e risponde ad esigenze prima non immaginabili…e potremmo continuare…
Ma anche dicendo ed argomentando su tutto, resta un nodo centrale: resta la persona, che usa uno strumento, e quella persona è la stessa della società di massa, parte della società civile e interattore del popolo della rete. Di questi strumenti può essere interprete/cittadino attivo e protagonista, e può essere ancora una volta soggetto gestito dal facile populismo che la rete facilita.