Il controverso editoriale del Washington Post su Snowden spiegato

Ha destato reazioni contrastanti l’editoriale del Washington Post che – in forma abbastanza diretta – ha in qualche modo “scaricato” Snowden. Nonostante proprio le rivelazioni della gola profonda di Prism siano state la fonte di quel fiume di articoli noti come Datagate che sono valsi al quotidiano il premio Pulitzer.


Cosa dice la “colonna editoriale” in sostanza? Le rivelazioni di Snowden hanno permesso ai cittadini americani di conoscere per la prima volta le attività illecite della NSA, come per esempio la raccolta di metadati relativi alle telefonate compiute nel territorio nazionale e realizzata senza l’autorizzazione di alcun tribunale. Il Congresso e il governo, messi di fronte alle rivelazioni di Snowden, hanno risposto cambiando la legislazione per poter esercitare un controllo maggiore sulle attività di sorveglianza della NSA: «È giusto dire che dobbiamo queste necessarie riforme al signor Snowden». Egli ha però diffuso anche diverso materiale mettendo a rischio la sicurezza nazionale: per esempio il programma Prism– quello riguardante le attività di sorveglianza della NSA fuori dai confini nazionali – che «era legale e non minacciava in alcun modo la privacy» dei cittadini americani. Secondo il Washington Post, Snowden avrebbe fatto ancora peggio rivelando i dettagli di alcune operazioni di intelligence molto importanti, come la cooperazione dei servizi segreti scandinavi contro la Russia, la sorveglianza sulla moglie di un collaboratore di Osama bin Laden e certe operazioni cybernetiche in Cina. E quello che gli americani meno di tutto perdonano a Snowden è di aver accettato – non si sa sino a che punto a “titolo gratuito” e senza contropartite – il temporaneo asilo di Putin.


L’editoriale dal titolo secco “No pardon for Edward Snowden” va però inquadrato in almeno tre cornici.
La prima è la fortissima campagna pro-grazia che soprattutto dal 16 settembre (data di uscita in Usa del film “Snowden” di Oliver Stone) sta animando il dibattito intellettuale americano, quasi totalmente a favore quanto meno di un “forte atto di clemenza”.
La seconda è innegabilmente la campagna per le presidenziali – siamo a circa quaranta giorni dal voto – e in questa chiave non sono state poche le posizioni “repubblicane” negli editoriali del Washington Post, soprattutto in politica estera, dalla Siria agli accordi sul nucleare in Iran alla soluzione del blocco su Cuba.
La terza – che però è più rilevante e centrale delle altre – è puramente giornalistica e va inquadrata sia nella tipicità del giornalismo americano, sia – soprattutto – nella struttura giornalistica di quotidiani come il Post e il New York Times.


Nel giornalismo americano i fatti – che sono quelli su cui lavora la redazione giornalistica – sono “separati” dalle opinioni. Questa separazione è netta, anche a livello di organigramma. Ciascuna redazione risponde al capo-redattore e la riunione dei capi-redattore “organizza” il giornale, alla presenza del direttore. Gli editorialisti rispondono invece all'”editorial board”, anche fisicamente staccato dalla redazione, e rispondono alla direzione, e in qualche modo anche all’editore. Ed è l’editorial bard che valuta anche i “pezzi di opinione contraria” da pubblicare.
Questa separazione – spesso anche troppo netta, e certamente per noi poco comprensibile – va nella direzione di evitare che gli editorialisti siano influenzati nell’opinione da offrire al lettore dai giornalisti, e che i giornalisti non vengano influenzati nella redazione del giornale dagli editoriali di commento e approfondimento.


Questo fa si – nelle intenzioni e molto spesso anche in concreto – che il lettore trovi le notizie, e editoriali anche di opinione molto diversa. Lo scopo è triplice: dare informazione, contestualizzare i fatti con approfondimenti ed opinioni, rendere il lettore un cittadino consapevole offrendo punti di vista differenti sui fatti più rilevanti.
Dal punto di vista del Washington Post, in sostanza, ai lettori vanno riferite le notizie, e compete al giornale, se la maggior parte delle altre testate si schiera in una direzione (qualsiasi), offrire un editoriale “contro corrente”, per dare una chiave di lettura differente, su cui, anche sulla base dei fatti, il lettore si costruirà la propria convinzione.
Che l’editoriale del Post faccia così tanto discutere è un buon segno. A cos’altro dovrebbero servire gli editoriali, di opinione e di approfondimento?

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi