Giancarlo Siani. Il caso non è chiuso

È questo il titolo dell’ultimo libro di Roberto Paolo, caporedattore del Roma, e soprattutto giornalista che si è sempre occupato di inchieste, cronaca giudiziaria, ed ha seguito da sempre il caso Siani, un giovane cronista “precario” del Mattino di Napoli. Che scriveva su Torre Annunziata, e raccontando gli atti e i fatti del consiglio comunale – trent’anni fa – pagato poco e male e senza “tutele” – è finito col descrivere quell’intreccio tra politica, affari e criminalità che, in quegli anni, era ben più che regola. Era sistema. È bene ricordarli quegli anni, perché era il decennio precedente tangentopoli, e contestuale alla nascita del primo maxiprocesso di Palermo: quello in cui per la prima volta veniva scritta in atti giudiziari una tesi che all’epoca sembrava eresia: che la mafia era un’organizzazione piramidale e strutturata, e che operava in maniera sistematica, e che aveva rapporti e determinava in maniera diretta la vita politica non solo locale e regionale, ma anche nazionale. Oggi è un fatto. Ma la battaglia per renderlo tale è stata una vera e propria guerra, con morti e feriti, e ferite profonde nella società. Ed è ciò che è accaduto anche in Campania, in modo particolare nella provincia di Napoli. È bene ricordarlo, per chi era assente, e per chi forse dopo anni, in posizioni differenti, ricorda meno, spesso male, e spesso in maniera “diluita” cosa furono quegli anni.


Il caso Siani non è chiuso. Non lo dico io. E non lo dice nemmeno Roberto Paolo. È un fatto. Dopo numerosissimi articoli che ha scritto sul Roma, e dopo elementi e dichiarazioni nuove, la Procura della Repubblica di Napoli ha riaperto quel fascicolo di indagine. Il caso non è chiuso.
Quella che racconta Roberto Paolo è prima di tutto una storia di giornalismo, di ricerca della verità. Con tenacia, nei mesi, “un pezzo alla volta”. Che poi si intrecciano e incastrano come un puzzle. È un libro di buon giornalismo, di quello che in questo Paese manca un po’ troppo spesso, schiacciato da copincolla, da rubacchiamenti in giro per i blog minori, e dallo scoopismo, legato spesso al tema cogente del momento televisivo. Questa volta no. La ricerca è intensa, lunga, faticosa. Nelle pagine fitte sembra quasi di vedere i mal di testa, la ricerca di fonti, il confronto, il riscontro.
Ma questo caso, proprio sotto profilo giornalistico, non è decisamente chiuso, e riapre una ferita enorme della città di Napoli e della sua narrazione. Giancarlo “eroe del giorno dopo”, quello che è martire del suo lavoro, ma sino al giorno prima era uno dei tanti precari in un quotidiano immenso.



Giancarlo ammazzato sotto casa per “quello che aveva scritto”. Una verità forse troppo facile, e che non tiene conto di una lezione che è pietra angolare: la criminalità ammazza per quello che hai fatto “prima” solo i propri uomini, come punizione e monito, non ammazza mai “fuori da sé” per il passato, ma per quello che stai per fare. È questa – purtroppo – la verità tropo difficile da accertare e da dire, perché ci riporta ad altre ferite aperte. Davvero Giovanni Falcone è morto per il maxiprocesso, o non già perché stava per diventare capo della DIA? Davvero Paolo Borsellino è morto per lo stesso motivo, o perché stava per dire quello che aveva scoperto successivamente alla strage di Capaci ed ai fatti che oggi sappiamo essere descritti come “la trattativa Stato-Mafia”?
 È ricordando questa regola, e partendo da questo concetto, che Roberto Paolo va avanti nella sua ricerca, sulla morte di un suo collega, e praticamente suo coetaneo. 
La tesi del suo libro-inchiesta è questa: non furono i clan vesuviani ad ordinare il massacro di Giancarlo Siani, per “punirlo” per aver raccontato i rapporti tra i Gionta e la politica locale, ma i Giuliano di Forcella, perché il cronista napoletano stava per pubblicare una sua inchiesta in cui rivelava le mani del potente clan nella gestione delle cooperative di detenuti: i sicari partirono da Chiaia, dalla “città bene”, e non dalla provincia. E su questa tesi, prove e riscontri alla mano, la Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un fascicolo, affidato a due PM di tutto rispetto: Enrica Parascandolo e Henry J. Woodcock.


Nell’intervista-recensione di Repubblica Conchita Sannino scrive “«DI SICURO c’è solo che è morto», per citare la lezione di giornalismo del grande Besozzi sul bandito Salvatore Giuliano. Anche qui: c’è un delitto eccellente; una verità giudiziaria blindata, costruita con molta fatica tra mille trappole; e una nuova tesi che smonta quella passata in giudicato. Sono davvero i 2 killer condannati all’ergastolo quelli che uccisero Giancarlo Siani, il cronista (precario) de Il Mattino massacrato al Vomero il 23 settembre dell’85? Quasi tre decenni dopo, il giallo — e la ferita — si riaprono.” Secondo Roberto Paolo “alla pianificazione del delitto hanno partecipato tre clan, i Nuvoletta, i Gionta e i Giuliano: ognuno per un interesse e con un suo ruolo. Ma nelle indagini ci furono lati oscuri, lacune, poi lo scontro interno alla magistratura inquirente, mentre i Giuliano corrompono forze dell’ordine e operatori di Castel Capuano. In ogni caso: le cose scritte da Siani sul “modello” coop esplodono nello scandalo l’anno dopo. Lui però le scrisse un anno prima”.


Il giorno dopo l’articolo di Repubblica arriva un articolo su Il Mattino, a firma di Pietro Perone. Un articolo che attacca a testa bassa e con toni forti il libro. E poco conta che di fatto questo attacco non sia la la posizione ufficiale de Il Mattino che oggi corregge fortemente il tiro e a firma di Leandro Del Gaudio – giornalista di cronaca giudiziaria – corregge il tiro e conferma tutti i fatti riportati nel libro. Forse il cronista che per qualche anno seguì la vicenda giudiziaria del Caso Siani si è sentito chiamato in causa. Di Roberto Paolo, il fratello di Giancarlo, Paolo Siani dice “mi spiace che all’epoca non ci fosse un giornalista come lei a seguire questo caso”. Sarà questo, o sarà che forse questa inchiesta era doveroso che con forza la facesse proprio il giornale dove lavorava Giancarlo.
 Roberto Paolo ironizza “Forse è solo omonimo di quel Perone che scrisse diversi articoli sul processo Siani nei primi anni ’90. Perché se fosse lui non sarebbe incorso in così tanti errori uno dietro l’altro. Prima di scrivere una stroncatura avrebbe letto il libro in questione. Cosa che, evidentemente, non ha avuto il tempo di fare. Del resto, se fosse lo stesso Perone che si occupò del processo Siani, non avrebbe scritto che le condanne si fondano su «diversi pentiti del clan Gionta e Nuvoletta».


Infatti, nessun pentito del clan Nuvoletta ha mai parlato del delitto Siani. Non avrebbe affermato che le condanne si basano «sul Dna delle famose cicche di Merit lasciate dai killer sul luogo del delitto». Il Dna non fu mai trovato, fu invece trovato il gruppo sanguigno, che non corrisponde al gruppo sanguigno di nessuno dei condannati. Non avrebbe scritto che Pandora Castelli era la «fidanzata italo-americana del piacente Rubolino». La fidanzata di Rubolino era la sorella minore di Pandora, si chiama Josephine Castelli (e più che italo-americana è franco-americana). Non è vero infine che il mio libro «ripropone sotto forma di pamphlet il racconto di una serie di articoli già pubblicati». Il mio libro riferisce elementi nuovi, testimonianze e documenti inediti. Ma per saperlo il signor Perone doveva fare la fatica di leggersi il libro, e non tutti siamo abituati alla fatica. Inoltre, non è nemmeno vero che le persone che io indico come possibili co-autori, complici e co-mandanti sono tutti morti, e quindi un eventuale nuovo processo non potrebbe farsi: indico anche nomi di personaggi vivi e vegeti, alcuni dei quali pentiti, altri detenuti per omicidio, altri liberi. Ma anche per sapere questo bisognava almeno sfogliare il mio libro. Infine lascia intendere che non è vero che la Procura ha riaperto le indagini sull’omicidio Siani. E qui, certo, per verificare la cosa bastava andare a fare domande in giro. In alternativa, può chiedere agli ottimi colleghi di giudiziaria che lavorano (loro sì che lavorano, e anche molto bene) nella redazione del “Mattino”.


Il caso sulla morte di Giancarlo Siani non è chiuso. A quanto pare nemmeno giornalisticamente. E questo ragazzo ucciso ad appena ventisei anni continua a dare lezioni, in un modo o in un altro. Lo fa come esempio in questa città in cui si è sempre scavato poco e forse chiusi troppi occhi e troppo spesso. Lo fa però soprattutto quando qualcuno si pone la domanda sull’opportunità di continuare a cercare e scavare chiedendo retoricamente “a cosa serve mettere tutto in discussione”. Io rispondo che serve alla verità. E serve alla giustizia. E serve anche per dire qualcosa in più che forse lo rende ancora più grande: Siani non fu forse solo il giornalista che scoperchiò i rapporti tra i Gionta e la politica, né quello che ci disse che il boss di Marano si era riuscito addirittura ad affiliare a Cosa Nostra, svelando retroscena inquietanti negli intrecci mondiali della struttura della criminalità organizzata. Siani era anche quello che stava per rivelare come – attraverso la gestione delle cooperative per i detenuti – di fatto, il clan Giuliano aveva in mano l’anagrafe e il controllo delle famiglie di tutto l’esercito di camorra, che è bene ricordare che in quegli anni toccava i 10mila affiliati.


Giancarlo Siani non “appartiene” a nessuno. Non appartiene al giornale per cui lavorava da precario, ed in cui fu la redazione a ribellarsi quando il direttore dell’epoca, Pasquale Nonno, voleva liquidare la notizia della sua morte con un “taglio basso”. Non appartiene alla singola storia professionale di qualcuno, che sia magistrato o giornalista che se ne sia occupato. Non appartiene nemmeno ai mandanti ed agli esecutori reali, presunti, condannati, ignoti, liberi. Questa storia appartiene a tutti gli uomini liberi di questa città. E la verità non ha alcuna data di scadenza. Sopratutto se contribuisce ancora oggi a renderci ancora più liberi.


p.s.
Vorrei sgombrare il campo da qualche retropensiero che purtroppo è sempre dietro l’angolo. 
Nel suo libro Roberto Paolo mi ringrazia per averlo incitato a scrivere e pubblicare.
 Da quando faccio inchieste ho sempre e solo avuto un indirizzo: spiegare i fenomeni complessivamente, andando oltre il singolo fatto e la singola storia. L’ho fatto parlando di camorra, di mafia, del datagate, di web, degli F35, di traffico d’armi, del caso Mattei e della morte di un altro giornalista Mauro De Mauro, l’ho fatto sull’agroalimentare in Campania, sulle guerre per l’accaparramento della terra in Africa. L’ho fatto da uomo libero, sulle colonne che senza censure o tagli mi hanno ospitato. Sull’Unità, sul Roma, su Repubblica, sull’HuffingtonPost, su EUNews, a RaiNews24. Roberto non mi deve ringraziare, sono solo stato coerente con il perché io stesso faccio inchieste. Perché le verità qualsiasi siano vale sempre la pena che vengano raccontate. E questa dovrebbe essere la funzione e l’onere sociale di chi fa inchiesta e forse ancor più di chi fa cronaca.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi