Un libro prezioso quello di Giannicola Sinisi che ricostruisce i rapporti tra Falcone e i suoi colleghi americani, giudici e agenti del FBI, attraverso lo studio dei documenti finora secretati inviati a Washington dall’Ambasciata di Roma … gli americani avevano una stima sconfinata di Falcone non solo per quel che faceva a Palermo ma per il contributo decisivo che dava anche alla loro lotta contro Cosa Nostra … ed erano molto preoccupati che i magistrati italiani passassero più tempo a combattere Falcone che a combattere la mafia.
Le relazioni tra Italia e Stati Uniti, soprattutto nel periodo della guerra fredda e, dunque, fino alla caduta dei muri nel 1989, sono spesso circondate da un alone di mistero, da un’aura di sospetti e da una nebbia di pregiudizi che si ispessiscono e si oscurano o si schiariscono a seconda delle prospettive e delle interpretazioni. A questa regola non sfuggono neppure i rapporti tra Giovanni Falcone e le autorità americane impegnate sullo stesso fronte del contrasto alla criminalità organizzata che chiamano causa il FBI, il Dipartimento di giustizia e quello di Stato (equivalente del nostro Ministero degli Esteri) sul versante americano, Falcone, i suoi collaboratori e i suoi amici e nemici, che si tratti di politici, di magistrati e di giornalisti su quello italiano. Così, non sono mancati coloro che, da parte italiana, videro in questi rapporti di Falcone con le autorità americane uno dei tanti esempi di soggezione – se non di servilismo – nei confronti del principale e più forte alleato e coloro che, al contrario, vi scorsero motivi per una celebrazione della collaborazione giudiziaria e politica tra Italia e Stati Uniti.
Quantomai opportuna giunge perciò la pubblicazione del libro Un patriota siciliano di Giannicola Sinisi che di Falcone fu stretto collaboratore nel periodo in cui questi lavorò come direttore degli
affari penali al ministero della giustizia. L’autore, a suo tempo, potè giovarsi della fiducia e della familiarità professionale di Giovanni Falcone, mentre, di recente, ha potuto finalmente accedere a documenti a lungo secretati in quanto “classificati” nel lessico dei servizi di intelligence e del Dipartimento di Stato americano. Si tratta di cablogrammi e scambi epistolari che registrano le comunicazioni degli ambasciatori e dell’Ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato nel periodo in cui si succedettero gli ambasciatori Maxwell Raab e Peter Secchia, fino a lambire l’arrivo e l’avvicendamento con Donald Bartholemew.
Che Falcone godesse della stima di ambienti americani – funzionari del FBI e dirigenti del Dipartimento di Giustizia – come di singoli giudici e procuratori, era cosa abbastanza nota. Molto meno noto il fatto che gli americani considerassero Falcone non soltanto come il leader del Pool antimafia, dunque come il vero protagonista, motore e ispiratore della strategia antimafiosa impostata a Palermo, ma anche come un collaboratore fondamentale per la loro lotta alla Cosa Nostra americana, a partire dalla celebrata operazione detta “Pizza connection” all’altra, non meno importante ma meno celebre, detta “Iron Tower”. Sulla base di queste esperienze si sviluppò un rapporto di collaborazione e di fiducia concretatosi nello scambio continuo di informazioni e di aggiornamenti non solo su singole inchieste e su singoli personaggi, ma una vera e propria rete di conoscenze e di relazioni comuni, a diversi livelli. Rete fecondissima nel produrre azioni e risultati di contrasto alla Cosa Nostra che, purtroppo, per prima e da tempo agiva sulle due sponde dell’Atlantico, ricavando dalla sua internazionalità enormi possibilità criminali, vantaggi e profitti legati soprattutto al narco traffico. Ciò spiega non soltanto l’interesse, ma la vera e propria partecipazione con la quale gli americani seguivano i progressi delle indagini di Giovanni Falcone sulla Cosa Nostra siciliana. Non si trattava soltanto di adesione e di simpatia per un collega e per un amico. Il punto è che gli americani sapevano di poter ricavare dal lavoro di Falcone informazioni, notizie, stimoli utili anche alle loro indagini.
Agli esempi più noti di collaborazione “atlantica” narrati nel libro aggiungo i tratti essenziali di una vicenda che mi colpì molto e che mi fu raccontata dallo stesso Giovanni.
Intercettando conversazioni telefoniche tra boss palermitani e boss americani di New York e del New Jersey, Falcone apprese dalla loro viva voce che questi ultimi chiedevano agli amici, ai parenti, ai compari palermitani di inviare nuove reclute, “soldati di sangue nostro, sangue siciliano” per reagire all’inquinamento creato tra le fila della Cosa nostra americana dal reclutamento di criminali di scarso spessore e di scarso affidamento provenienti da etnie diverse con costumi e regole meno rigide di quelle proprie e comuni alla Cosa nostra americana e a quella siciliana. Ristabilire con il primato siculo americano le regole omertose e l’affidamento professionale alterati da troppe reclute di etnie diverse era l’intento dei boss americani e a loro i fratelli siciliani prontamente prestarono soccorso. Falcone informò i colleghi americani sicché le giovani reclute e i nuovi soldati che dovevano rinsanguare la Cosa Nostra americana, imbarcati a Palermo, appena sbarcati negli aeroporti americani trovarono ad attenderli i confratelli mafiosi, e gli uni e gli altri vennero immediatamente presi in cura dal FBI.
La fiducia che si instaurò, fortificata da tante prove affrontate insieme sui campi di battaglia, spiega come mai gli americani seguissero con tanto interesse non solo i progressi di Falcone nelle sue indagini a Palermo e in Sicilia, ma – e si tratta di uno dei contributi più originali del libro di Sinisi – la partecipazione con cui analizzarono e commentarono anche le vicende interne alla magistratura palermitana e i conflitti che insorsero tra Falcone e quelli tra i suoi colleghi che lo contrastavano o perché vittime di approcci giuridici obsoleti o perché animati da gelosie, da rivalità e da risentimenti spesso legati a questioni di carriera. E si comprende altresì – osserva Giannicola Sinisi – che in America l’assassinio di Giovanni Falcone venne avvertito “come un attacco interno, una lesione e una minaccia agli sforzi che in quegli anni gli Stati Uniti stavano compiendo con notevoli risultati sul fronte del contrasto al crimine organizzato”.
La preziosa ricostruzione di Un patriota siciliano, pur scontando l’indisponibilità di una parte dei materiali ancora “classificati” cioè coperti da segreto, ci aiuta non solo a comprendere il punto di vista americano, ma a gettare nuova luce su ciò che effettivamente pensava Falcone circa alcune tra le più controverse e delicate vicende di casa nostra, e sul ruolo di diversi protagonisti.
Per esempio, gli avversari di Falcone, ma non solo loro, non gli perdonavano di aver accettato di lavorare al mio fianco al Ministero di Grazia e Giustizia nel governo Andreotti il più coriaceo e il più chiacchierato dei politici democristiani. Ebbene, ai suoi amici
americani Falcone dichiara la sua certezza circa “il sostegno senza riserve” di Martelli e quanto ai sospetti legami di Andreotti con la mafia replica: “ Andreotti può aver peccato per omissione non per commissione”.
Come è noto la guerra sul fronte dell’antimafia giudiziaria deflagra quando il Consiglio Superiore della Magistratura sceglie, come successore di Caponetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, anziché il candidato naturale, cioè Giovanni Falcone, il più anziano Antonino Meli. In questo modo – osservò Paolo Borsellino – diventava titolare della pubblica accusa nel maxi processo ormai alla prova di appello “ .. uno che al maxi-processo a Cosa Nostra non ci credeva”. Le conseguenze furono devastanti. E’ sempre Borsellino a commentare amaramente: “Cosa nostra si è riorganizzata come prima più di prima. La polizia non fa indagini, le iniziative sono frantumate in mille rivoli, il pool smantellato, non c’è più alcun coordinamento …”
In effetti, può sembrare incredibile ma la verità è che l’anno dopo la celebrazione del maxi processo – la prima grande sconfitta di Cosa nostra in un’aula di giustizia – il principale protagonista, Falcone appunto, anziché essere premiato veniva accantonato ed emarginato anche a seguito di “infami calunnie e di una campagna denigratoria di infinita bassezza” – si pensi in particolare alle lettere del cosiddetto “Corvo”. Falcone denuncia questo clima mefitico con una lettera al CSM e si dimette dall’Ufficio Istruzione.
Il 3 agosto di quello stesso 1988 l’ambasciatore americano a Roma,Maxwell Raab, in un cablogramma al Dipartimento di Stato americano lancia l’allarme: ”Se il comitato dell’antimafia del CSM ha sostenuto Meli nell’intento di abbandonare il metodo del pool per combattere la mafia, lo sforzo antimafia italiano potrebbe essere seriamente danneggiato e gli interessi degli Stati Uniti seriamente messi in pericolo”. Le stesse fonti diplomatiche riferiscono che nell’Ufficio palermitano pendevano numerose rogatorie per l’acquisizione di prove determinanti in processi importantissimi in corso di celebrazione a New York e a Washington. In particolare, “ .. nella più importante inchiesta avviata dai nostri due paesi l’allontanamento di Falcone potrebbe comportare la fine dell’inchiesta stessa .. Falcone è il giudice più esperto e più informato .. Falcone è il pool e il pool lo segue (is beyond him)”.
Viceversa “il piano Meli” veniva giudicato come un modo di smantellare il pool e di neutralizzare Falcone. Non dimentichiamoci che l’anno precedente, all’indomani del clamoroso successo dell’inchiesta congiunta sul narco traffico – la Pizza Connection -, Falcone era stato invitato a parlare al Congresso degli Stati Uniti. Onore senza precedenti mai riconosciutogli in Italia. Ma l’ambasciatore americano non si limita a informare i suoi superiori a Washington. Maxwell Raab, determinato a reagire, chiede udienza al Presidente della Repubblica italiano e gli manifesta la sua angoscia. Francesco Cossiga prende la questione a cuore, affronta il CSM di cui è presidente e ne contesta le scelte con tanta energia da costringerlo a una mezza retromarcia. Le dimissioni di Falcone vengono respinte e il presunto Corvo, cioè il magistrato Di Pisa, ma anche, con salomonica ipocrisia, Giuseppe Ayala stretto collaboratore di Falcone, vengono trasferiti da Palermo. In Italia la retromarcia del CSM dai più viene interpretata come una vittoria di Falcone. Molto più cauta e caustica l’interpretazione americana: “ .. i giudici antimafia italiani spendono più tempo a combattersi tra di loro che a combattere la mafia”. Del resto, ancor più severo fu il giudizio di Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia che, più unico che raro tra i comunisti ( ma i democristiani non erano da meno), non fece mai mancare il suo sostegno prima a Falcone e, poi, anche a me e al ministro degli interni Scotti. “Il CSM – scrive Chiaromonte – che ha pesanti responsabilità per la situazione del Palazzo di Giustizia di Palermo, assume una decisione che non esito a definire vergognosa. Un colpo al cerchio e uno alla botte .. A Palermo ho sentito dirigenti democristiani e comunisti dire su Falcone cose infami.”
In quello stesso periodo entrava in vigore il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli, che nelle intenzioni, superando il processo di tipo inquisitorio, intendeva introdurre in Italia il processo di tipo accusatorio, cioè il processo “all’americana, nello stile Perry Mason” come allora si diceva. A parte il divertito commento sulla circostanza che un serial televisivo diventava in Italia modello di una riforma della giustizia, l’ambasciata americana, evidentemente informata dell’impreparazione complessiva della nostra organizzazione legale e giudiziaria nell’imminenza di una riforma di tale portata, senza giri di parole, previde acutamente che “ne deriverà il caos”. Analogamente si era espresso Falcone preoccupato per i processi di mafia impostati col vecchio rito processuale che ora dovevano transitare al nuovo.
Anche la fase terminale dell’esperienza umana e professionale di Falcone, quella che lo impegnò come direttore degli affari penali al ministero della giustizia, trova precisi riscontri
nelle comunicazioni dell’ambasciata retta dal nuovo ambasciatore Peter Secchia. L’autore ha qui potuto giovarsi non solo delle carte de- secretate, ma della sua diretta esperienza al fianco di Falcone che l’aveva voluto con se.
Ma veniamo a un altro punto. A differenza di quel che molti – compreso l’autore di questo prezioso libro – dissero e continuano a dire, Falcone non “inventò e ispirò il modello della super procura antimafia”. Né la inventammo io o Vincenzo Scotti al tempo, rispettivamente, Ministro della Giustizia e Ministro degli Interni. La verità, come ho sempre detto, è che ne trassi ispirazione da una vecchia proposta del senatore Leo Valiani trovata tra le carte della Commissione Parlamentare Antimafia e rimasta per anni nei cassetti di quella commissione. Leo Valiani si era ispirato al modello del FBI americano e, forse anche per questo, la sua idea rimase lettera morta. Naturalmente il lavoro di trasposizione da un ordinamento, come quello americano, in cui il Ministro della Giustizia è contemporaneamente Attorney General (Procuratore Generale) che dispone del Federal Bureau of Investigation con i suoi agenti e i suoi procuratori, a quello italiano fondato sulla più rigida separazione tra esecutivo e giudiziario fu tutt’altro che semplice. L’unica soluzione possibile, alla quale collaborò con la sua cultura giuridica un grande magistrato come Loris D’Ambrosio in servizio al ministero, fu quella di istituire due strutture parallele e cooperanti. Una struttura di coordinamento dell’intelligence delle tre diverse polizie italiane (Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza) che chiamammo Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e una struttura nazionale di coordinamento dei pool distrettuali antimafia denominata Direzione Nazionale Antimafia (DNA), la cosiddetta Super Procura.
Dopo l’agitazione dell’Associazione Nazionale Magistrati che pochi mesi prima aveva indetto uno sciopero nazionale contro l’istituzione della Superprocura anche il CSM, ancora una volta, si mise di traverso e, anziché Falcone che io avevo candidato al ruolo di Procuratore Nazionale, scelse Agostino Cordova, procuratore a Palmi. Con il potere di dare o negare il concerto del Ministro alle nomine del CSM – potere che mi derivava dalla Costituzione e dalle leggi – bloccai la procedura, convinto che alla fine l’avrei spuntata e Falcone sarebbe diventato Procuratore Nazionale Antimafia.
Invece ci fu la strage di Capaci.
Il massacro di Falcone e della sua scorta ebbe un’eco immensa e in tutto il mondo fu vissuto come la più spaventosa delle tragedie dell’ingiustizia. L’Italia era squarciata, squarciata come quell’autostrada. Mi strinsi accanto i magistrati che più direttamente lavoravano con me al ministero, quelli che avevamo scelto io e Falcone e quelli, da Ilda Boccassini a Sergio Turone, che si offrirono di impegnarsi concorrendo con la loro professionalità e la loro passione civile a dare sostanza investigativa alla reazione dello Stato. Dovevamo reagire e sapemmo reagire, guidando e organizzando la risposta dello Stato, decretando con urgenza misure straordinarie. Ai provvedimenti e alle iniziative che avevamo impostato con Falcone ne aggiungemmo di nuove a cominciare dal 41bis nelle carceri e dall’invio dell’esercito a presidiare gli obiettivi sensibili anche per liberare le forze di polizia da questi compiti di modo che si potessero dedicare totalmente alle indagini.
Già all’indomani della strage ci era stata offerta totale collaborazione dal FBI e dal suo direttore, William Sessions. Lui e i suoi uomini vennero a Palermo offrendo collaborazione totale alle indagini sull’assassinio di un giudice che in America era stimato senza riserve, dunque assai più che da molti suoi colleghi magistrati italiani come da tanti politici e giornalisti. Gli uomini del FBI furono prodighi di assistenza tecnica e di consigli, sia in merito alle indagini, sia in in ordine ai provvedimenti da adottare in analogia con il RICO, la legislazione antimafia USA che come quella italiana prevede l’isolamento in carcere dei detenuti mafiosi che costituiscano un pericolo.
Grazie a un’intuizione di Sergio Restelli, mio amico e mio collaboratore al Ministero della Giustizia, affidai al FBI il compito di ricostruire il DNA dei killer, analizzando le tracce organiche rinvenute sui mozziconi di sigarette abbandonati là dove si era appostato il commando dei mafiosi terroristi che azionò timer della deflagrazione. Al tempo gli uffici giudiziari italiani non erano attrezzati per questo genere di indagine scientifica. Gli americani intercettarono anche brandelli delle conversazioni tra uomini della Cosa Nostra americana e di quella siciliana che commentavano con lugubre euforia “l’attentatuni” di Capaci.
I siciliani e tutti gli italiani non devono dimenticare chi è stato Giovanni Falcone e cosa ha fatto per loro e per tutti, e non devono dimenticare chi, uccidendolo, ha rinnegato ogni umanità. Uomini e donne comuni, magistrati e poliziotti, politici e giornalisti in America e in Giappone, in Francia e in Germania come in Oceania lo ricordano per le prove del suo genio e del suo coraggio. Grazie a lui tanti si sono sentiti orgogliosi di essere italiani e tanti siciliani hanno riscattato, con l’amor proprio, l’orgoglio della propria identità.
Non è difficile capire perché: Giovanni Falcone ha reso la lotta alla mafia più popolare della mafia. Giovanni è l’anti-padrino, l’eroe vero, un patriota siciliano.
Il libro di Giannicola Sinisi, un magistrato che molto ha imparato dal suo maestro Falcone, contribuirà, ne sono certo, a ristabilire molte verità dimenticate perché scomode e a fondare una conoscenze più ampia e meglio documentata della sua opera e della sua figura.