Nell’esperienza dell’alimentazione, s’intrecciano diverse esigenze. Tra gli studiosi si notano due tendenze principali.
La prima mette in risalto il fatto che le abitudini alimentari si spiegano non tanto per i loro valori materiali o per le necessità legate alla sopravvivenza, ma per un bisogno di appartenenza a una collettività. Il cibo, in tal modo, è un segno di condivisione della vita che un gruppo sociale mette in moto: in quest’ottica, il grande antropologo Claude Lévi Strauss dice che «il cibo deve essere “buono da pensare” o, meglio, “buono da comunicare” più che “buono da mangiare”». Perciò attraverso il cibo si comunicano valori quali il potere, la ricchezza, la spiritualità, l’incontro con la divinità; oppure, al contrario, miseria, povertà, malattia, solitudine.
La seconda interpretazione vede nelle scelte alimentari anzitutto una motivazione pratica e un’esigenza gustativa. Infatti il riconoscimento del cibo, anche negli animali, avviene mediante i sensi: anzitutto il gusto, poi l’odorato, la vista, il tatto e, in misura minore, l’udito. Ciò accade anche nell’uomo, che, inoltre, vi aggiunge l’importantissima funzione della memoria.
Il sistema alimentare è un complesso sistema di valori, formato da bisogni e da simboli. Un esempio illuminante è il simbolo del pane, come elemento primario che dà nutrimento. “Guadagnarsi il pane” significa svolgere una vita dignitosa.
A tale proposito, va notato lo stretto rapporto tra alimentazione e psicologia. Prendiamo il caso di un ragazzo sovrappeso. Questi, di solito, a tavola assume molte calorie durante i pasti principali, tende a mangiare fuori pasto durante tutto il giorno e assume molte bevande zuccherate e fa poca attività fisica. L’eccessivo apporto calorico non viene smaltito dall’organismo e si accumula sotto forma di grasso.
Bisogna domandarsi anzitutto se il sovrappeso può dipendere da fattori ereditari o da disfunzioni dell’organismo. Ma ci possono essere anche delle cause di natura personale o ambientale che potrebbero influire sul comportamento del ragazzo: per esempio se il ragazzo si sente soddisfatto di sé o presenta delle insicurezze, se ha un buon rapporto con i coetanei, se ama stare in compagnia o preferisce isolarsi, se si sente accolto ben voluto a scuola, se ritiene di essere apprezzato dai professori e dai compagni oppure vive con frustrazione il contesto scolastico, se parla facilmente anche delle cose che lo preoccupano o si chiude in se stesso di fronte al dolore, se le abitudini alimentari della famiglia sono abbastanza corrette, se in casa c’è un clima di cordialità e così via.
Spesso il comportamento dei genitori è all’origine di molte disfunzioni alimentari. Quando ciò accade è perché essi rifiutano di esercitare un controllo sui figli, avendo paura di vederli tristi o temendo di essere percepiti negativamente da loro.
Se le motivazioni sono psicologiche, bisogna agire a livello di psicologia più che di numero di calorie. Si tratta di incoraggiare l’esercizio fisico: spesso i ragazzi in sovrappeso sono più lenti e goffi dei loro coetanei, per questo si rifiutano di gareggiare in competizioni sportive e ciò li conferma ancora di più in uno stile di vita sedentario. Bisogna reagire con calma, invitando il ragazzo ad attività sportive non competitive, come passeggiare in bici o nuotare. Poi indicare degli obiettivi realisticamente raggiungibili, ma in graduale progressione. Il loro superamento non solo farà bene alla forma fisica, ma contribuirà ad aumentare l’autostima, che è un fattore importantissimo per il benessere. Egli deve stare bene con se stesso per poter star bene anche con l’ambiente in cui vive. Si tratta, insomma, di prestare attenzione alla globalità della persona interessata e non solo ai chili in eccesso.
Lo stesso vale per un ragazzo che, al contrario, è troppo magro. Anche in questo caso, molte volte le ragioni di un peso inferiore alla norma sono di tipo psicologico, oltre che fisiologico o ereditario: i disagi legati alla propria immagine corporea possono determinare una profonda frustrazione. I maschi si vedono meno robusti, le ragazze meno attraenti. Le fasi d’inappetenza sono un fenomeno comune nell’età evolutiva, ma diventano preoccupanti quando si trasforma in un rifiuto consistente del cibo. Il non mangiare può diventare un modo di affermare la propria autonomia e sottrarsi almeno momentaneamente a un controllo da parte dei genitori ritenuto esagerato.
Naturalmente anche il temperamento individuale svolge la sua parte nell’assunzione del cibo. Bambini o ragazzi molto vivaci e in movimento possono mangiare di meno rispetto a coetanei placidi e tranquilli. Inoltre la quantità di energia consumata varia molto da persona a persona.
Il cibo ha un grande rapporto con tutta la sfera emozionale dell’uomo. È un’esperienza che facciamo tutti: quando abbiamo un’emozione molto forte, non riusciamo a mangiare o, al contrario, mangiamo in eccesso. Lo cantava Gianni Morandi in una canzone di alcuni anni fa, Belinda. «Bella Belinda innamorata, parla da sola con l’insalata. Non bada al piatto, ma alla finestra, scende una lacrima nella minestra»: Belinda non è attenta al piatto, cioè non riesce a mangiare, perché la sua attenzione è attratta dalla finestra in attesa di guardare il ragazzo che ama e che purtroppo sta ritardando. Durante particolari stati di tensione o di tristezza sentiamo “chiudersi lo stomaco” o, ancora, rifiutiamo certi cibi perché li leghiamo al ricordo di momenti spiacevoli della nostra vita. Altre volte mangiamo perché siamo nervosi o pieni di rabbia, o annoiati e tristi. Molte particolarità alimentari, dunque, si spiegano non solo su base biologica e fisiologica, ma anche per esperienze emotive. Quando un uomo, per motivi diversi, entra nel circolo vizioso dell’uso del cibo per esprimere degli stati emozionali, allora il meccanismo della fame e della sete subisce un forte condizionamento. Bisogna, perciò, imparare a riconoscere i segni che queste situazioni fanno emergere e a gestire con efficacia il rapporto con il cibo.