“Essenziale, nardo e nasi” – L’esperienza dell’avere e l’avere esperienza

L’ESPERIENZA DELL’AVERE E L’AVERE ESPERIENZA

(da “Prima che il peggio accada” Angelo Orazio Pregoni)

La prima volta che compresi il concetto di proprietà avevo nove anni. Eravamo stati sfrattati, i miei genitori erano disperati perché avremmo dovuto lasciare quell’appartamento che era casa nostra, o forse no. Ma il dramma dello sfratto, pochi giorni dopo, si stava manifestando con cinica disumanità sull’unico mio vero patrimonio personale: la porta della cameretta. Mia madre stava tentando di ripristinare l’unica anta, raschiando via ogni figurina asimmetrica che avessi appiccicato: c’era Gimondi, l’uva e la mela di Fruit of the Loom, gli ammortizzatori Sachs, Jackie Stewart Wrangler, un apache con due piume bianche, San Marino, la Torre di Pisa… Questi mi ricordo. Ma ce n’erano centinaia di adesivi. Un secchio d’acqua, qualche lametta, l’alcol e vari porcogiuda, mi rubarono la prima cosa che sentissi davvero mia: la porta della mia cameretta, che senza quegli adesivi non era più la stessa. La fissavo per ore, prima di addormentarmi la notte, combattendo contro l’asma che solo cinque anni dopo scoprii essere dovuto alla collezione di pelouche di mia sorella e a quella poltrona (non mia, come vedete), a quella poltrona dei Ricchi e Poveri che mio padre aveva acquistato per dieci mila lire prima che la buttassero in discarica. Era una poltrona letto, con un tessuto optical di cerchi marrone, giallo e arancione che a me sembravano fiori dall’aroma di caffè e castagne. I Ricchi e Poveri avevano svuotato una sorta di studio prove, e a mio padre riuscì di aggiudicarsi l’unica cosa da poveri e non da ricchi, la poltrona in molle con materasso in gommapiuma spesso sette centimetri incorporato. Quella poltrona mi seguì e torturò ovunque. Un paio di anni dopo divenne marrone a scacchi bianchi, con odore di rovere e margherita, fino a quando, a quattordici anni compiuti, acari della polvere e graminacee furono l’esito ai test allergici, e mi fu regalato un letto. Un letto vero, sotto un armadio che definivano “a ponte”, forse perché rasentando la finestra sulla strada, convogliava i rumori delle auto e i fanali dentro i miei sogni. 

Mi capitò di rivedere una poltrona quasi identica, ma dall’odore di edera e birra, dentro l’appartamento di Susan, a Canterbury. Anche la mia porta era stranamente nella sua camera, uno specchio di due metri contornato dagli adesivi di Madonna, dei Bronski Beat, con in cima l’occhio tutelare di un triangolo con il marchio Triumph, e attorno tutti quelli prismatici dei Kiss che riflettevano la luce in tante micro-piramidi.  Lei era la mia professoressa di inglese, e quel giorno mi avrebbe consegnato l’attestato di frequenza estiva. Profumava di pane imburrato, aveva ventitré anni e la sua pelle spingeva fuori bianche note di latte e pallore. Io ne avevo quindici e i batteri lattici, tra le pieghe rosa della sua vagina, mi resero rosso, ma non di vergogna.

Lei se ne stava a letto mezza svestita, sventolando il mio diploma di frequenza con un sorriso che pareva suggerire “promosso”, tenendomi in bilico tra l’adolescenza del giorno prima e la frustrazione di ogni scelta da adulto del giorno successivo. “Qui, ora, tutto” sembrava la migliore delle lezioni che potesse darmi, sadicamente disposta a non vedermi mai più, insegnandomi che l’amore si sperimenta solo per abbandono. Quindi lei come faceva? Come poteva sopravvivere al giorno dopo, all’assenza? Perché gioiva? Forse non mi amava? 

Nella successiva settimana (adesso londinese) mi ritrovai ospite di due ragazze argentine appena più grandi di me, una delle due era maggiorenne da poco. Vivevano da sole con un pastore tedesco accampate in una minuscola abitazione con amici di vario genere ed etnia. Ero arrivato a Londra da solo, e, telefonando da una cabina vicino Trafalgar Square, mi autoinvitai a casa loro facendo in modo che l’iniziativa non fosse mia. Mia zia, che poi era una cugina di mio padre, spartana come solo gli esuli sanno essere, mi disse che sarei dovuto partire prima, perché lei, argentina di Reconquista, e suo marito, inglese con una riproduzione gigante in sala di un francobollo da mezzo penny del 1891 delle isole Falkland, aspettavano ospiti improvvisi. Decisi di andare a Londra e non tornare in Italia, forte di quel numero di telefono che mi avevano lasciato quelle due ragazze orfane, invitate da mia zia Paula ogni tanto per un thè a Canterbury in memoria e ipocrisia del ricordo della loro defunta madre, sua amica di gioventù: “La puta madre!”, la definiva così.

Per farla breve, con quelle due ragazze praticai altre forme di amore, imbarazzato sempre meno dai retaggi del seminario che avevo abbandonato un anno prima, e cominciando a pensare che se la salvezza dovesse essere figlia della sofferenza, quegli orgasmi gioiosi mi avrebbero dannato.

“Io e mia sorella non abbiamo mai conosciuto i nostri relativi padri! Sopravviviamo in questo buco più per debolezza che per egoismo!”, mi disse Sandra, la più grande, “Non pensiamo cosa faremo domani, ma perché non siamo morte ieri, in quell’auto con nostra madre. Scopare ci fa stare bene, non saprei… Forse per gli abbracci.” Ecco, quelle parole mi confortarono di un inferno futuro perlomeno condiviso con persone empatiche, e ridevo davvero con Sandra e Rafaela quando si scambiavano consigli su come si lascia un uomo dopo essere state scoperte con un amante: 

“Ti ho tradito, ma ho dormito solo con te!” diceva Rafaela con una matura femminilità tipica di un gentleman.

“…E comunque quando dormo è te che sogno!” concludeva Sandra con l’esperienza quasi virile di mille anni vissuti e diecimila uomini mammoni incontrati. 

E io ero invecchiato in quel mese di luglio, e se è vero che la vecchiaia ci rende saggi allora meritavo un ulteriore attestato, non di inglese, ma di vita.

CARA_PACE opera di Angelo Orazio Pregoni

(foto in copertina vintage.it)

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi