Non è la prima volta che questi due pilastri della real-politik si scontrano.
La prima, soggetta spesso agli umori del momento, agli effetti della propaganda, della retorica, del populismo. Talvolta a maggioranze non sempre consapevoli della scelta che vanno a compiere, e su temi su cui non sono adeguatamente preparate. La seconda non sempre chiara ed efficace, spesso lontana dai desideri e dalle ambizioni dei popoli, tesa a raggiungere “il bene” della nazione in una logica ed una prospettiva che va oltre il momento, il ciclo elettorale, li umori.
Senza escludere le volte in cui la seconda – la cd. realpolitik – ha usato la prima – la democrazia – per raggiungere i suoi obiettivi.
Ed allora succede che sia necessario scavare nei meandri delle pieghe del diritto a che la real-politik trovi qualcosa, per il bene della nazione in una prospettiva più ampia e lungimirante – che limiti gli effetti devastanti che una democrazia, usata male, manipolata, e gestita peggio, può generare.
È il caso della GranBretagna, che certo nessuno – piaccia o meno – può tacciare di “mancanza di democrazia”.
E lo è – a ben vedere – nelle pieghe del day-after tra i tanti commenti giunti dalle “periferie del regno”. Da quella Scozia che ha votato sul filo di lana per separarsi dall’unione inglese ma che compatta ha votato per restare nell’Europa. O da quella Gibilterra che al 93% si è espressa per restare in UE. O da quell’Irlanda del Nord che non ne vuol sapere di lasciare l’UE.
Tutti ad affermare di “stare in Gran Bretagna perché sino a ieri era Europa, ma se cambiano le condizioni…”.
E allora spunta, dal cilindro della real-politik, che non considera “una cosa buona per il paese nel lungo periodo” un crollo verticale di sterlina, conti e commercio, che non considera salutare isolarsi dal mondo, nell’era del mondo globalizzato, una piccola grande legge. Che oggi assurge a monumento democratico.
Una petizione per chiedere un secondo referendum.
La petizione, sul sito parliament.uk, chiede modifiche al processo referendario e potrebbe trasformarsi in un secondo referendum sull’adesione del Regno Unito all’Unione europea.
È stata già superata la soglia delle 100 mila firme necessarie per avviare un dibattito in Parlamento, come è avvenuto in precedenza per la cannabis.
La petizione infatti ha raccolto il consenso di oltre 150mila firmatari in meno di dieci ore e il numero continua a crescere rapidamente.
In Gran Bretagna un secondo referendum può essere richiesto dai cittadini se il risultato del quesito vincente alla prima votazione è inferiore al 60% oppure se l’affluenza non ha superato il 75%. Requisiti soddisfatti in questo caso. Hanno partecipato infatti il 72% degli elettori e il “leave” ha vinto per un soffio: il 51,9% dei voti mentre il “remain” ha ottenuto il 48,1%.
Ogni volta che in questa campagna sono stati dati scenari preoccupanti, il fronte del “leave” ha risposto che era solo terrorismo mediatico e fandonie, e c’era da star certi che invece non ci sarebbero state ripercussioni negative.
In un solo giorno la GranBretagna è stata impoverita del 20% e mai come oggi, nell’ultimo secolo gli inglesi si sono sentiti “odiati” da tutti e lontani dal mondo.
Ecco, l’Europa non ha “scenari da immaginare”, ma grazie alla Brexit ha certezze su cosa può accadere in caso di uscita dall’Unione.
Siamo tutti avvisati sul cosa succede a dar credito ai populismi, e per una volta c’èra sperare che la ragion di Stato trionfi sul lato debole della forza della democrazia.