Qualcosa di abbastanza semplice nell’evoluzione di un partito-coalizione che negli ultimi venticinque anni ha subito varie trasformazioni. Dalla mancanza di leader ereditata da Silvio Berlusconi, alla dicotomia con Gianfranco Fini, passando da Forza Italia al Pdl e di nuovo frammentato in vari partiti e partitini.
Ciò che oggi avviene è spiegabile partendo da questa storia, e da due collanti forti che sono venuti meno. Il primo è la sconfitta elettorale progressiva – nazionale, regionale e locale – che ha portato con sé la perdita del “potere”, che inevitabilmente allontana voti, consensi, persone. Il secondo il logoramento della leadership di Berlusconi, sino alla sua incandidabilità, in un tempo in cui non è riuscito (come da suo stile personale) a creare veri eredi politici.
La mancanza di questi collanti ha portato ad una nuova frammentazione, che sarebbe stata quantomeno limitabile se si fosse aperto un confronto aperto ed una successione attraverso primarie, per dare spazio alle nuove classi dirigenti: i Fitto quanto i Tosi, i Salvini, le Meloni, i Toti, gli Alfano, le De Girolamo e via discorrendo. Tutto questo è mancato “al momento giusto”, e l’implosione ha generato una frammentazione ancora più personalistica per cui praticamente ognuno ha il proprio partitino di riferimento.
Da una parte Forza Italia appare schiacciata al di sotto del 15% – incapace di garantire l’elezione nemmeno agli uscenti, figuriamoci allargare a nuove leve. Surclassata – moltissimo al nord – dalla Lega di Salvini, è minacciata anche al sud da “noi con Salvini” (la lista personale nazionale del segretario leghista, in una logica di sdoganamento dal regionalismo).
La vicenda se vogliamo nuova è la possibile alleanza con Fratelli d’Italia, con una base più solida al centro sud, alleata di Salvini e della Le Pen in Europa, in grado – in cambio di ampi spazi e garanzie – di dare quel contributo determinante a dare la definitiva spallata a Forza Italia per la leadership di tutto il centrodestra.
Per riequilibrare i giochi servirebbe una nuova “iniezione di centrismo”, riportando a casa – in forme varie e tempi diversi – quell’UDC e NCD (e semmai i verdiniani) che oggi appoggiano il governo, in un’eterno bisogno di stare nella maggioranza del momento.
Qualcosa che potrebbe avvenire e che è fisiologico che accada, ma a patto e solo nel momento in cui il centro destra offrirà concrete chance di vittoria.
Che la partita fosse per la leadership dell’intero centrodestra sembra che l’unica che l’abbia ben compreso ed esternato sia Francesca Pascale. Che non a caso spara a zero sula scelta della Meloni.
L’occasione delle elezioni amministrative, e ancor prima la scelta del candidato sindaco, diventano quindi – in un periodo di sconfitte elettorali in cui appare credibile a stento raggiungere concretamente un ballottaggio o un terzo posto – anche l’occasione per misurare se stessi e il proprio consenso personale per accampare diritti sui partiti di tutta l’area.
Si spiega così ad esempio che Meloni e Salvini a Torino appoggino un candidato diverso da Osvaldo Napoli, esattamente come a Roma la neo candidatura di Giorgia Meloni, spinta e sostenuta da Salvini, contro quella anche qui berlusconiana di Bertolaso.
A Torino come a Roma candidature in grado non solo di battere quelle di Forza Italia, ma di spaccarne anche l’elettorato interno.
Ciò che on avviene invece a Milano, dove in vista di una possibilità di vittoria, questa spaccatura non c’è stata.
E tuttavia quello che si intravede è un gioco sottile che ancora una volta vede Salvini primeggiare su tutti. Non scende in campo a Milano in prima persona, cosa che fa fare a Giorgia Meloni, evitando di portare a casa nel suo palmares una sconfitta. Non disperde le energie dal suo obiettivo unico: prendere il posto di Renzi, laddove per gli altri gli obiettivi sono molti, e spesso frammentari.
Di fatto annulla qualsiasi velleità possibili in seno a Forza Italia e ai centristi, obbligati da questo gioco a difendere il castello, ed arroccarsi ancora una volta sulle scelte di Berlusconi.