La comunicazione manichea

Una delle caratteristiche della comunicazione di massa è che funziona se è efficace. 
Molto spesso questa efficacia viene confusa con semplicità, e altrettanto spesso la semplicità (in sé positiva) viene confusa con semplificazione (che non è sempre positiva).
Il processo di semplificazione può portare alla banalizzazione, alla non argomentazione, e a quale processo fin troppo comune di manicheismo ed etichettamento che la rete ha amplificato.
In realtà questa caratteristica della comunicazione di massa ha origini lontane; è diventata fenomeno comune con i giornali, ed è mutuata da un modello specifico di comunicazione di massa che è quello della propaganda bellica.


Se ne consideriamo le origini e ci fermiamo qualche minuto a rifletterci, abbiamo già la spiegazione a molti fenomeni collaterali: la litigiosità dei dibattiti, la violenza lessicale, la struttura di “scontro” tipica dei luoghi del moderno dibattito, che sono oltre le piazze – i talk-show e i dibattiti, specie quando questi diventano televisivi e massmediali (come certi dibattiti parlamentari).
Quando parliamo di comunicazione bellica non dobbiamo considerare solo il nostro “vicino” novecento e l’età contemporanea, ma cercare di fare un lungo percorso ricco di costanti dai tempi dei romani passando per le crociate, alle prime guerre “tra stati” sino a Napoleone, al Congresso di Vienna (congresso di guerra, più che conferenza di pace) sino alle guerre mondiali e a tutti i conflitti del ‘900, guerra fredda inclusa.


Il principio base della comunicazione legata alla propaganda bellica è il manicheismo. 
Un processo di estrema semplificazione dei rapporti e delle ragioni spesso conditi di vere e proprie menzogne: la controparte deve essere il brutto, il cattivo, la causa della nostra rovina e responsabile dei nostrui mali. Ciò che in definitiva ci legittima ad attaccarlo, un attacco che in realtà è vendetta, giustizia per un torto, finanche legittima difesa, o la neo difesa preventiva.
L’espansione dell’Impero romano nasceva per: difendersi da possibili invasori, difendere le navi dai pirati, proteggere le frontiere, difendersi dalla minaccia al proprio stile di vita, sino a “portare la civiltà” ai popoli barbari.
Le crociate era necessarie per liberare i luoghi santi dagli apostati e infedeli.


La colonizzazione delle americhe era atto di evangelizzazione e civilizzazione.
Le campagne napoleoniche, guerre di liberazione ed esportazione dei valori della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza.
La questione si fa più sottile e la comunicazione si perfeziona con la diffusione della stampa come fenomeno di massa – almeno tra la popolazione scolarizzata (parliamo di una media del 4% della popolazione europea ad esempio e del 2% di quella americana) – che corrispondeva alla classe dirigente che “prendeva le decisioni”.
In Europa la prima guerra mondiale è stata infarcita di revanscismo su tutte le vere o presunte disattese dei popoli in ordine a confini e abbattimento delle monarchie.


La seconda guerra mondiale figlia della prima, con una anche maggiore sofisticazione del messaggio.

La Germania nazista ha creato il mito del “complotto giudaico” con il famoso falso dei saggi di Sion: il popolo ebreo era sostanzialmente la causa di tutti i mali tedeschi. Ma anche polacchi, slavi, nomadi, rom, disabili, neri, omosessuali non scherzavano. Il diverso – genericamente il “non ariano” – era il male, il cattivo, andava eliminato: letteralmente.
Il regime fascista non è stato da meno. In una società tuttavia molto più aperta di quella tedesca l’elemento razziale funzionava meno, meglio un generico “complotto dei poteri forti e delle nazioni plutocratiche” che negavano all’Italia il suo posto nella storia, e i suoi “posti al sole”.
Il regime sovietico – nelle varie vicende tra le interne fazioni che si alternarono in Russia – aleggiò lo spettro dei “padroni”, dello zar, dei capitalisti: ed ogni dissidente (di qualsiasi natura, forma, grado, genere, tipo) in sé era un servo del nemico e una minaccia per l’intero popolo.
La simbologia del “nemico” assume spesso la caratteristica razziale, sostanzialmente perché l’etnicità è un facile elemento di immediata identificazione del soggetto di cui si parla.


Il nero, ma anche l’albanese per la Lega Nord nel 1990. Poi divenne un generico “rom”. Seguì una fase “cinese”, dalla cui economia sregolata e dai prezzi bassi dovevamo difenderci: sono loro i colpevoli della perdita di posti di lavoro al nord. Col tempo un messaggio evolutosi in un generico extracomunitario, meglio se identificato da una caratteristica propria: lingua, colore della pelle, e oggi religione.
Con il web e la diffusione di massa dei social network – e soprattutto con la diffusione di pagine tematiche pubbliche e non e di gruppi aperti, semi aperti e segreti – si è diffuso un nuovo strumento per la diffusione del messaggio manicheo, che a sua volta viene amplificato perché sviluppato all’interno di comunità (irrilevante quando più o meno piccole) di soggetti che la pensano tutti allo steso modo.


Attraverso la mancanza di apertura e di confronto il messaggio, così costruito, è come se si trovasse in una sorta di “camera di implosione”, dove l’onda d’urto rimbalzando tra i membri che ne costituiscono “le pareti”, accelera ed aumenta di intensità.
Ecco che quando “esce all’esterno” i toni di un generico massimalismo, che potrebbero essere facilmente smontati da una corretta argomentazione, sfociano invece in eccessi, anche violenti, di dimensioni spropositate.
Per fortuna ciò è spesso solo limitato a una violenza digitale e verbale, attraverso parole scritte, commenti, cui difficilmente seguono azioni concrete. Ciò tuttavia non elimina il problema e la gravità del fenomeno.


Nel macro, anche il messaggio della comunicazione politica globale non aiuta.
Definizioni come “capo del mondo libero” piuttosto che “stato canaglia” o “alleanza del bene” hanno una origine coesiva di identificazione delle parti. E tuttavia generano le proprie antitesi anche nei luoghi più impensati seguendo lo stesso assioma.
Se il Presidente degli Stati Uniti è il “capo del mondo libero” e io sono un immigrato di terza generazione, ai margini del mondo e senza possibilità di “ascensore sociale” destinato a vivere in un futuro sempre peggiore, e quindi a me quel “mondo libero fa schifo”, allora è chiaro che il mio nemico sono gli Stati Uniti. Anche se vivo fuori Parigi. E se il nemico assoluto degli USA è l’ISIS, allora tendenzialmente ne vado a fare parte.


Certo, anche questo assioma è un manicheismo, e subisce l’effetto di questo eccesso di semplificazione, ma in definitiva nel mondo della comunicazione globalizzata ciò che avviene nella realtà non è molto distante da questo passaggio diretto.
La comunicazione tossica manichea, per quanto efficace, genera efficacia e consenso immediato, ma in definitiva rischia di creare consenso e di generare la sua stessa antitesi. Se da un lato è il colante di chi sta da una parte – che a noi sembra “dei buoni” – contribuisce a creare i luoghi di coesione della sua antitesi, “i cattivi”, anche laddove questi non erano stati altrettanto bravi ed efficaci da creare un proprio luogo di consenso specifico.

Francesco Iandola; Miriam De Nicolo; Max Papeschi