Andrea Berton, il maestro del gusto

Interview Miriam De Nicolò
Photography Marco Onofri

Se la fisiognomica, la pseudoscienza di origine antichissima a cui Platone e Aristotele si interessarono, fa delle sue deduzioni una verità alla prima vista di un individuo, allora Andrea Berton fa certamente parte di quegli esseri la cui capacità di analisi e fedeltà ai princìpi, riflettono su una personalità creativa e leader. Un naso aristocratico, un’altezza imponente e fiera, stridono con un sorriso sincero e benevolo, anche se tutto, nel suo portamento, lascia pensare ad una persona per cui la disciplina sia la regola assoluta.
Andrea Berton, chef stellato del ristorante che porta il suo cognome, è il più noto dei Marchesi Boy, colui che regalò le due stelle Michelin a Trussardi alla Scala, i cui primi passi iniziarono proprio con il maestro Gualtiero Marchesi al Bonvesin della Riva nel lontano ’77.
Da Londra al Mossiman’s volò poi a Firenze, presso il Ristorante Enoteca Pinchiorri, dal Louis XV di Montecarlo sotto la guida di Alain Ducasse, alla Taverna di Colloredo a Monte Albano, oggi la casa di Andrea Berton si trova in via Mike Bongiorno 13, nel quartiere di Porta Nuova a Milano e porta la stella Michelin dal 2013. Dal 2016 è socio fondatore dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto.
Ha nobilitato il brodo, sua passione da quando, bambino, il padre lo coccolava con pranzi gourmet nei migliori ristoranti d’Italia; sceglie, per la sua cucina, un ingrediente fondamentale e imprescindibile: il gusto.

Quali sono gli ingredienti della sua personalità?
La solidità è il lato più presente.

Se fosse un alimento
Una verdura con radici molto solide e profonde, come il cardo gobbo, originario del Piemonte.

Che rapporto ha con il cibo?
Quando prendevo dei bei voti a scuola, mio padre, anziché comprarmi un regalo mi portava a mangiare nei ristoranti. All’età di 10 anni mi portò l’Excelsior di Venezia, ricordo che allora mi alzai da tavola e curiosai davanti alla porta della cucina, guardavo i cuochi che si muovevano, come in una danza. Era un’immagine già affascinante, che porto dentro tuttora.
Certo la cucina, negli anni, mi ha dato molte lezioni, come quella volta in Francia in cui mi sporcai un poco la manica e lo chef mi disse, con l’aria storta perchè ero oltretutto italiano “Se sapessi lavorare bene, non ti sporcheresti”. Da allora la mia divisa è sempre stata linda e immacolata.

Che cosa rende un piatto indimenticabile?
Il gusto.
C’è un luogo del cuore, in Sardegna, dove torno spesso e dove fanno il pane sulla brace con olio extra vergine di oliva e bottarga. Una roba da star male. Questo è il piatto che non si dimentica.
Altro punto fermo è far vivere a chi ci sceglie, un’ esperienza più intensa, sempre in fatto di gusto, diversa da quella che si può incontrare sulla propria tavola nella quotidianità. Ma saranno sempre il gusto e la passione a fare la differenza.

Com’è cambiato il ruolo dello chef in Italia dai suoi inizi ad oggi?
Diciamo la verità, un tempo lo chef nell’immaginario collettivo era quell’omone sudato, ignorante, e con la canotta macchiata di pomodoro, sarà poi Gualtiero Marchesi negli anni ’90, i miei inizi, che rivoluzionerà la figura dello chef, portandolo fuori dalla cucina, aggiungendo al piatto cultura e valore alla tradizione culinaria, oltre a quella della persona.
Oggi un cuoco deve necessariamente essere imprenditore, manager, psicologo, conoscere dinamiche amministrative e sociologiche; l’approccio alla cucina è migliorato perchè si è elevata la qualità insieme all’offerta.

Secondo lei la televisione ha comunicato in maniera positiva il ruolo dello Chef?
Le trasmissioni sulla cucina hanno certamente reso “pubblico” un mestiere che rimaneva dietro i fornelli, prima di Masterchef ad esempio.
Quando Jannik Singer ha vinto agli Australian Open, c’è stata una corsa alle scuole di tennis, così come durante le prime edizioni di Masterchef, gli Istituti alberghieri hanno avuto un’impennata di iscritti, una conseguenza positiva, ma manca l’essenza della comunicazione. Perchè ancora si va dicendo che in cucina sfruttiamo i dipendenti, ma che sciocchezze, questi ragazzi lavorano in un ambiente sano, pulito, hanno i loro 40 minuti per il pranzo, vengono pagati 1400 euro al mese (quando ancora non sanno far nulla), gli vengono consegnati tutti gli strumenti per imparare un mestiere, e la possibilità di rapportarsi con un pubblico colto e preparato. Ne usciamo sempre come truffatori o schiavisti, quando ci sono mestieranti che lavorano 16 ore al giorno per 700 euro al mese. Nessuno ne parla?

Lei è Associato ad Ambasciatori del Gusto, perchè far parte di questa organizzazione?
Sono stato uno dei primi sostenitori di AdG, fiducioso che l’Associazione potesse dare grande forza e sostegno al nostro settore. AdG è portavoce delle eccellenze gastronomiche italiane verso le politiche e le istituzioni, e possiede un sistema di comunicazione efficace che ha finalmente ridato autorevolezza e la giusta importanza al nostro settore, che dovrebbe essere meglio tutelato dal proprio Paese.
L’Italia offre la più ampia gamma di eccellenze dell’ospitalità e del food, è utile supportare e finanziare questi aspetti, affinché si possa finalmente avere il valore che meritiamo.

Cosa cambierebbe nella comunicazione del settore food?
Eviterei il folklore e approfondirei la filiera, parlerei di professionalità, di qualità delle materie prime, di ricerca e studio del territorio, parlerei dello studio e della fatica, non mostrerei solo il risultato, ma tutto quel che lo precede.

E cosa lo precede?
La fiducia che un produttore conserva nei miei confronti, che è il motivo per cui da anni mi permette di acquistare la stessa materia prima, quella che propongo nei piatti ai miei clienti, agli affezionati che vogliono lo stesso gusto, la stessa qualità.
Mantenere un livello altissimo di cucina pur nei momenti di difficoltà, come quelli che abbiamo subìto tutti, nella ristorazione, durante il Covid.
Abbiamo bisogno di aiuto da chi se ne occupa, di questa comunicazione, perchè non si tratta di un fatto individuale, ma è un problema di sistema; se guardiamo a Massimo Bottura, Chef n.1 dei World’s 50 Best Restaurants, quanto rilievo ha avuto in Italia? Vince uno sportivo e diventa leader del momento, vince uno chef e scompare nel dimenticatoio.

Sostenibilità in cucina, lei che approccio ha?
La prima volta che iniziai a lavorare in cucina da Gualtiero Marchesi, la prima cosa che mi fece fare ovviamente è pelare le patate. E non mi hanno fatto buttare le bucce. Era l’89 e il riutilizzo degli scarti era già una priorità. Questo pensiero lo riportiamo tutti i giorni nella mia cucina, ma io credo piuttosto che sostenibilità sia uno stile di vita, e comprenda mettere nelle giuste condizioni le risorse, ottimizzare un sistema, avere un’organizzazione ordinata, un aspetto economico funzionale.

Lei ha ideato tutto un menu sul brodo. Perché valorizzarlo?
A Modena c’era un ristorante due stelle Michelin, Fini, dove mi recavo spesso la domenica a mangiare bolliti e tortellini in brodo; prendevo da solo il treno, spendevo quasi tutto il mio stipendio, ma era diventato un rito a cui non riuscivo a rinunciare.
L’ossessione si intensificò poi in Giappone, durante un viaggio del ’94, paese che ha in cucina la cultura di quest’ingrediente; quando ho aperto il mio ristorante Berton, a Milano in piazza Mike Bongiorno, quasi 10 anni fa, ho iniziato a valorizzarlo e a presentarlo in abbinamento al piatto o da bere in un bicchiere, o per esaltarne i sapori, ma sempre rendendolo protagonista.
L’obiettivo era riassumere l’essenza del gusto, e portarla alla dimensione liquida.
Sono felice che altri miei colleghi abbiano poi iniziato a proporre in tavola il brodo, valorizzandolo.

Le soddisfazioni più grandi
Qualche giorno fa ha chiamato una famiglia chiedendo se la settimana successiva sarei stato presente in cucina. Arrivavano dalla Calabria, moglie marito e figli, e avevano il piacere di incontrarmi e provare i miei piatti.

E’ la loro gioia, la sua soddisfazione?
E’ qualcosa di naturale, un passaggio forse già scritto per me, arriva da lontano il piacere che io per primo sento nei confronti dell’ingrediente e della sua trasformazione, da quando a 12 anni passavo accanto alla panetteria vicino casa e mi fermavo per sentire l’odore della fragranza, del pane appena sfornato. Un giorno chiesi al proprietario se potessi passarci le vacanze estive per imparare (allora ancora era possibile anche se minorenni), mi alzavo alle 2 e portavo i miei panini a casa, era faticoso perchè in quel periodo facevo gare di sci a livello agonistico, ero molto impegnato, ma ho dovuto accettare che ero scarso e a 17 anni abbandonai lo sport per dedicarmi totalmente alla cucina.

Domanda di rito, quanto è Snob a Andrea Berton in cucina?
Se intendiamo ricercatore dell’eccellenza e della qualità, snobissimo.