Ho per Ferzan Ozpetek una grande ammirazione e soprattutto devozione. I suoi film si legano a molti ricordi, alcuni condivisi con le mie amiche di sempre, le donne della mia vita, materne, a volte drammatiche, ironiche, pragmatiche, insostituibili.
Mi sono sempre circondato da varia ed eccentrica umanità e le pittoresche tavolate delle Fate Ignoranti, le ho vissute anch’io, anch’io ho condiviso con le mie anime fragili, lunghe cene intrise di drammi e melodrammi ma anche di spensierate chiacchiere che solo amici devoti possono regalarti.
Il tempo passa inesorabile, ma le amicizie vere, quelle allacciate in anni spensierati rimangono, sono quelle che aiutano a combattere i momenti difficili che spesso arrivano, lasciandoti smarrito di fronte al da farsi.
Con Ferzan il concetto di famiglia si allarga, non ha vincoli di sangue ma legami empatici intrisi di solidarietà e generosità.
Le sue storie lasciano il segno, non solo sullo schermo ma anche sulla carta: in questi giorni è uscito per Mondadori, la sua ultima fatica letteraria, Sei la mia vita, un vero e proprio memoir che ripercorre la sua vita, ma soprattutto il suo arrivo a Roma, negli anni ’70, quando era un giovane studente di cinema.
Il suo presente, il suo passato e il suo futuro hanno inizio in Via Ostiense, in un vecchio palazzo un po’ fané, all’ombra di un gasometro, abitato da un mondo variopinto di emarginati.
“Li ho nutrito i miei sogni, ho provato ogni tipo di emozione, ho capito chi ero davvero e che cosa desideravo fare della mia vita”.
La sua famiglia d’adozione romana, anime candide ma esperte di vita, ciascuna con la sua solitudine da offrire, è il fil rouge di questo tenero libro autobiografico che si legge tutto di un fiato per poter scoprire aneddoti e spunti che hanno reso immortali alcune delle scene dei suoi film.
Ed ecco che arriva, da subito, nella sua nitidezza il ricordo dei pranzi domenicali sulla terrazza che è entrato nell’immaginario collettivo grazie alle Fate Ignoranti.
“Non so nemmeno io quanto è cominciata. L’abbiamo organizzata una volta e poi, senza bisogno di darsi appuntamento o mettersi d’accordo, la domenica dopo eravamo di nuovo tutti qui”.
Regina indiscussa di quei convivi era Vera, la trans più estrosa e richiesta di Roma. La regina delle drag-queens capitata per sbaglio in un film neorealista.
Quel personaggio interpretato poi, nel film dalla mia straordinaria amica Lucrezia Valia, è pieno di tenerezza, esagerazione, drammaticità e divismo. Quel divismo vintage che raccoglie in sé l’allure di un tempo che non tornerà. Dive che lasciano, dietro di loro, scie voluttuose di Madame Rochas.
Come non ricordare gli altri commensali di quei convivi così pittoreschi: Bruno, soprannominato la postina di Monteverde, Ernesto, centralinista ed attore fallito in perenne contestazione con il mondo e soprattutto con una soubrette televisiva ai tempi sua compagna di studi al Centro Sperimentale di Cinema, Rossella, che cerca un figlio ma non vuole un compagno e che sceglierà un lungo e difficile percorso per coronare il suo sogno di madre e ancora la portinaia Rosita, una donna grassissima e molto gioviale e amante delle arie di Verdi e in modo particolare della Traviata e del Nabucco.
“Fra un boccone e l’altro, un sorso di vino, mi ero conquistato un po’ di spazio in quel magico circo, composto da checche, travestiti, donne di spirito, amanti infedeli e cacciatori di farfalle”.
Come non riconoscere, tra le pagine, il fantasma che ha dato vita al personaggio di Massimo Girotti nel film La finestra di fronte con Giovanna Mezzogiorno e Raoul Bova.
“Quando t’imbatti nel fantasma del tuo passato felice, la consapevolezza di quanto hai perduto ti sommerge con un’ondata quasi insopportabile di rimpianto. Allora vuoi solo nasconderti in un luogo sicuro a leccarti le ferite, perché la tua anima è come un animale domestico, che il dolore ha reso selvatico”
Massimo, era un signore anziano, molto distinto, indossava un cappotto dal buon taglio sartoriale e non ricordava nulla del suo passato e del suo presente; si aggirava su Ponte Sisto come un esule di una grande battaglia, nella fredda notte romana.
Ferzan e il suo compagno di allora lo ospitano a casa cercando di ricomporre il puzzle della sua vita ormai dimenticato e ricevono insieme ai loro amici la prima lezione sull’amore del libro: “Chi importa chi amiamo? Io ho amato, e questo deve bastare. Voi amate, e questo ci rende uguali. Uniti nell’amore. Abbiamo baciato, accarezzato, abbracciato, consolato, atteso con folle felicita un suo s’. Perché l’amore condiviso è la forza che ci rende migliori. Anche quando è sfiorito, anche quando ci ha lasciato, anche quando è un ricordo che brucia con la sua assenza. Noi viviamo d’amore”.
Sei la mia vita è soprattutto un libro che parla d’amore. Un racconto che la voce narrante dedica al suo compagno, ripercorrendo passo dopo passo la loro storia d’amore ma soprattutto del suo mondo prima di lui.
La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà la “nostra. Sono un sopravvissuto a un disastro: Il disastro che sarebbe potuta diventare la mia vita se non ti avessi incontrato”.
Ed ecco che arriva la seconda lezione sull’amore: ”Oggi so che l’amore ti cerca, spetta a te farti trovare. Per questo occorre lasciare aperte tutte le porte: non sai mai chi potrebbe entrare, cosa ti potrebbe portare. Amo i colpi di scena. Mi è sempre piaciuto sperimentare, avventurarmi lungo strade sconosciute. E poi ho incontrato te, il più inatteso degli imprevisti”
Intraprendiamo con Ferzan e il suo compagno, un lungo viaggio che permetterà al lettore di conoscereuna storia intrisa di tenerezza, confidenza, complicità ma anche di una Roma lontana, decadente e magica, libera e tollerante.
Rivediamo le scene più salienti della vita del regista come se fossimo seduti al buio di una sala cinematografica: la memoria non è in digitale, gira come una vecchia pellicola, si consuma. E le immagini troppo amate si bruciano.
In questo lungo Amarcord non possono mancare le estati, quasi tutte interamente trascorse al Buco, una spiaggia incontaminata, lungo il litorale di Ostia.
Il mare, la sabbia fine, le passeggiate sul bagnasciuga, le confidenze sotto all’ombrellone ascoltando Alan Sorrenti e le dive della musica italiana.
Capitava di far tardi guardando il tramonto con lo scrittore Goffredo Parise e la sua compagna, o di conversare con Piero Tosi, il costumista preferito di Luchino Visconti, premio Oscar alla carriera nel 2013.
“Quando ci incontravamo al Buco ed io ero ancora un ragazzo di belle speranze, Piero non mi spronava affatto a darmi da fare per costruire il mio futuro. Al contrario mi esortava a prendermela comoda. “Divertiti! Nella vita questo è l’importante!”
I pomeriggi passavano più in fretta ascoltando i suoi aneddoti come quello sulla leggendaria rivalità tra Visconti e Fellini, o ancora le storie del cinema di una volta di cui Ozpetek era e continua a essere un appassionato estimatore. E non ci meraviglia scoprire che tra i due sia nata una solidale amicizia e che lo stesso Tosi abbia suggerito una scena del film Magnifica presenza, che vedeva imprigionati dei fantasmi – una compagnia di attori tragicamente morti durante la seconda guerra mondiale, in una splendida casa a Monteverde.
Mai suggerimento fu più prezioso e nella scena finale del film, vediamo i fantasmi prendere il tram per andare a recitare la loro ultima pièce al Teatro Valle.
Su quel set Ferzan diviene amico di Anna Proclemer – icona del teatro e del cinema italiano, scomparsa nel 2013. Una vera diva che il regista avrebbe voluto dirigere di nuovo sul set del suo ultimo film Allacciate le cinture. Di lei, ammette qualche anno dopo, gli mancheranno per sempre le lunghe telefonate e le conversazioni intime tra amici.
Non mancano riflessioni profonde, come quelle legate all’Aids e sulla malattia.
“Dagli Stati uniti e dalla grande comunità gay Di San Francisco ci giungevano notizie allarmanti. Qualcuno stava giocando con noi alla roulette russa, decidendo il nostro futuro: Tu sei salvo, tu presto ti ammalerai, tu sei già morto..
Il virus si è insinuato nelle nostre vite a poco a poco. Ciò che sembrava una delle tante leggende metropolitane, è diventato una realtà”.
Arriva così come un pugno nello stomaco la vera storia che ha ispirato una delle scene cult della Fate ignoranti, quella che vede in primo piano Gabriel Garko nel ruolo di Ernesto, malato terminale di Aids. Per tutti gli amanti di quel film quella storia era una semplice finzione letteraria. Leggendo il libro si scopre, invece, la verità. Un uomo che vuole dal suo compagno malato, tutto di lui, compresa la malattia. “Perché l’amore non ubbidisce ad alcuna logica umana”.
Adriano, occhi dal taglio orientale e profondissimi, zigomi alti e labbra carnose. Sembrava un pirata. Bello da mozzare il fiato. Piaceva a tutti, uomini e donne. Pur conducendo una vita molto movimentata aveva una storia da molti anni con Sergio, un architetto, un po’ più vecchio di lui. Quando Sergio scopre di essere ammalato, Adriano si sente morire dentro. Teme di averlo infettato per colpa dei suoi numerosi incontri extra. Ma non è stato lui, il suo test risulta negativo. Da allora fa di tutto per condividere, il dolore, l’annichilimento, la morte del suo adorato compagno.
E quando il referto risulta positivo, diviene raggiante. E’ riuscito nel suo intento.
Per fortuna di fronte alla tragedia, il regista, col suo piglio da narratore navigato, sa riprendere in mano la situazione, e ci riporta nella commedia, raccontando il doppio coming out di Mine Vaganti, realmente accaduto ad un suo amico a San Paolo in Brasile.
Marcelo, interpretato poi da Riccardo Scamarcio al cinema,è figlio di un industriale in Brasile. Ama la musica e arriva in Italia per realizzare il suo sogno, ma soprattutto per vivere liberamente la sua omosessualità.
Torna poi nel suo paese per mettere ordine nella sua vita e soprattutto per dire tutta la verità ai suoi, ma viene preceduto dal fratello Ricardo che confessa di essere gay a dei parenti stralunati, durante un festoso pranzo della domenica.
I pranzi della domenica sono uguali nel mondo e nascondono sempre finali surreali alla “parenti serpenti”.
Da quel momento Marcelo rinuncia a se stesso per sempre e per non deludere la famiglia si sposa e allontana da sé la sua vita di prima.
“Ma è proprio necessario che ti sposi?
“Si perché devo avere dei figli, i miei ormai se lo aspettano…non parlano d’altro”.
Da ragazzo Marcelo aveva saputo aspettare l’onda giusta. Era riuscito a cogliere il momento più opportuno per prendere il largo dalla famiglia e realizzare i suoi sogni. Ma poi si era arenato.
“La vita non è mai esattamente come la vogliamo: ci offre sempre delle sorprese, più siamo capaci di adattarci ai cambiamenti di programma, meglio è. L’importante, però, e non tradire mai se stessi. Perché se ci intestardiamo a non ascoltare l’amore, siamo perduti”.
Ozpetek sa giocare con le emozioni, sa calibrare le sfumature dell’amore, e dell’amicizia. Nonostante sia diventato uno dei personaggi più importanti del nostro paese, è rimasto fedele a se stesso, a quel ragazzo innamorato del cinema italiano e dei grandi maestri come Francesco Rosi, Pietro Germi, Vittorio De Sica, Antonio Pietrangeli, quel ragazzo che cercava un posto nel mondo, lasciando intatta la sua voglia di emozionarsi e di emozionare.
Il successo non ha minimamente intaccato la sua integrità. Ed è per questo che continua a mietere consensi.
“Il successo segue leggi misteriose: non va mai dato per scontato. E’ proprio quando pensi di avere tutte le carte vincenti, che resti a mani vuote. Io credo che il segreto per riuscire in ciò che fai è continuare a coltivare fino all’ultimo quella naturale insicurezza che ti assale ogni volta che metti in gioco tutto te stesso e andare avanti, con i tuoi dubbi, gli attacchi d’ansia, i ripensamenti”.