È in questi giorni – il 3, 4, 5 aprile – che sul grande schermo si sta proiettando il docs-film PERUGINO. RINASCIMENTO IMMORTALE parte dell’iniziativa La Grande Arte al Cinema – progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital – con la partecipazione straordinaria dell’attore Marco Bocci. Il documentario di 1 ora e 20 minuti è stato prodotto da Ballandi e diretto da Giovanni Piscaglia, regista di Van Gogh. Tra il grano e il cielo e Napoleone. Nel nome dell’arte, su soggetto dello stesso Piscaglia con Marco Pisoni e Filippo Nicosia. Accompagnano il racconto le musiche originali di Eraldo Bernocchi e Lorenzo Esposito Fornasari.
Abbiamo posto alcune domande al regista dopo aver guardato attentamente il film:
Perchè ha scelto di coinvolgere l’attore Marco Bocci?
Marco Bocci è di origini umbre, la scelta non è stata legata solo a questo dato biografico. Bocci è anche sceneggiatore e drammaturgo, doppiatore e regista (a breve uscirà il suo secondo film da regista). È un cineasta, non solo un interprete e ha saputo farsi carico del racconto in maniera generosa, spendendosi molto per la realizzazione del soggetto. Abbiamo girato per due giorni consecutivi a Perugia fino alle 4 di notte, abbiamo fatto delle riprese uniche all’Isola Polvese sul Trasimeno, luogo disabitato che nei mesi di gennaio non si poteva neanche raggiungere con un trasporto pubblico. Lui ha capito la necessità drammaturgica ed estetica che avevo, siamo così riusciti a trovare i giorni buoni col bel tempo e il sole per girare. Bocci risulta magnetico e coinvolto, ma soprattutto leggero e non pedante, come se raccontasse una favola.
Perché dopo Van Gogh e Napoleone ha scelto di investigare la figura di Perugino?
Il 2023 sapevamo che era il cinquecentenario della morte di Perugino, collaboro poi da anni con il Museo Nazionale dell’Umbria. Il direttore Marco Pierini mi ha chiesto di fare un documentario sul pittore. Mario Paloschi è stato coraggioso e ha sposato questo progetto, abbiamo realizzato un film su un personaggio che non è conosciuto come Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Sulla carta poteva non attrarre un pubblico vasto ma ho scoperto, in realtà, poi parlando con le persone con cui mi imbattevo durante la realizzazione, che moltissimi non solo lo conoscono ma lo amano. Sono un amante della cultura e dell’arte antica ed era molto tempo che volevo confrontarmi con una figura del Rinascimento nonostante dovendomi confrontare con un personaggio così antica si debba fare i conti con la mancanza di testimonianze vive e non solo documenti verbali lacunosi e dipinti.
Quali sono le scelte registiche su cui ha puntato maggiormente, le sue cifre stilistiche che considera più rappresentative del suo lavoro?
Nei film che ho realizzato, soprattutto se si tratta di biografie, ho cercato di puntare sulla verità dei personaggi, sulla loro personalità quando abbiamo delle tracce, sul loro pensiero quando ci sono documenti che lo attestano. Nel caso di Van Gogh ho cercato di rintracciare il suo carattere reale, i sentimenti al di là della leggenda e del mito che hanno ricamato i posteri; per Napoleone ho cercato cosa c’era sotto al culto della persona e al lato propagandistico. Per Perugino ho cercato di evitare subito i cliché, le nomee, le etichette: tutto ciò che si è stratificato sopra come una spessa coltre. Ho pensato che le etichette di artista monotono e ripetitivo fossero attribuzioni successive, dettate da un occhio moderno… altrimenti, non si sarebbe spiegato il motivo per cui Perugino per più di 20 anni si affermò e rimase il maestro più richiesto d’Italia. Quest’idea di trovare la verità si è rivelata la chiave di volta del film. La fonte maggiore, quella delle Vite del Vasari, è stata eloquente. Inizialmente ho pensato: “c’è solo Vasari, bisogna cercare altro”. Lo stesso lo addita come un esempio dell’arte che non deve più esistere, essendo un suo postero e guardando ai geni che arrivano dopo Vannucci… Vasari lo fa risultare obsoleto e lo bolla con la sua firma imponente, da cui non prescinde la critica successiva. L’unico merito che gli assegna è di essere stato il punto di partenza da cui è poi derivata la rivoluzione di Raffaello. Non mi sono fermato a queste considerazioni.
Come ribadito dalle parole del regista Giovanni Piscaglia, la data non è casuale: sono infatti passati 500 anni dalla morte del grande pittore (Città della Pieve, 1448 circa – Fontignano, febbraio 1523)… ma come mai si è aspettato tanto per rivalutare la sua figura? L’artista che ha voluto fare gli onori della città di Perugia, facendosi chiamare in questo modo non appena la sua fama iniziava a circolare a Firenze, è stato in parte oscurato da due giganti, figure a dir poco ingombranti: Raffaello, suo allievo e campione della nuova maniera; Giorgio Vasari che senza riserve lo disdegna, raccontando nella sua biografia raccolta nelle Vite aneddoti negativi ed esaltando i difetti caratteriali a discapito dei pregi. Emerge una figura avida, arrivista, opportunista e miscredente. Il docs-film ha il merito di mettere in luce le qualità del pittore e la sua personalità. Parte con una ripresa, prima a volo d’uccello poi rasente la superficie, sulla sua terra d’origine, l’Umbria, soffermandosi in particolare su specchio d’acqua e canneti del Lago Trasimeno. Pietro Vannucci nasce infatti in un borgo immerso in quei paesaggi, a Castel della Pieve, al confine con la Toscana e importante snodo tra le due regioni.
La superficie del lago contraddistingue i suoi dipinti armonici con le sue acque calmissime soprattutto perché ricorda i limpidi sfondi della pittura fiamminga, ne è vera e propria presenza costante. È infatti il paesaggio, non più mero fondale, il vero protagonista dei suoi quadri in cui “i monti si fondono con cieli tersi”. Il Geologo Franco Farinelli dell’Università di Bologna parla di un paesaggio “idealtipico” – che mescola elementi materiali e ideali – e simmetrico secondo la struttura già insita nelle valli umbre. La sua formula che congiunge all’unisono uomo e natura lo trasforma nell’artista più richiesto in Italia nel ventennio che va dal 1480 al 1500. Non solo… i volti dolci e l’abbraccio accogliente dei colori vivaci e arditi, la gestualità evocativa ed eloquente, la capacità di inventare nuove iconografie di successo fecero in modo di plasmare un nuovo linguaggio che si diffuse a raggio nazionale, fondamentale dopo la prima rivoluziona apportata da Giotto.
Il luogo dove si trova conservato il maggior numero di sue opere al mondo e la seconda meta dove ci portano le riprese è la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia nel Palazzo dei Priori. Tra le sale ci guidano Marco Pierini, direttore del Museo, e Veruska Picchiarelli, storica dell’arte. Il racconto ha inizio: Pietro Vannucci dovrebbe essere nato nel 1450 perché Giovanni Santi lo descrive come coetaneo di Leonardo. Il padre era stato priore, da lui riceve come eredità una posizione nella produzione del vino. Attorno ai vent’anni si trasferisce a Perugia, allora fermento esplosivo di orafi, pittori e architetti, con la famiglia Baglioni in testa come casata. Una delle questioni ancora irrisolte sul suo conto riguarda la misteriosa identità del suo maestro. Molti propendono per Bonfili o Caporali (artista eclettico che sembra prefigurare Perugino ma anche Pinturicchio), pochi altri per Piero della Francesca, con le sue ricerche avanzate sulla prospettiva.
Ci spostiamo nella Cattedrale di San Lorenzo dove tra le 8 tavolette con le storie di San Bernardino si riconosce la mano di Perugino, forse nelle prime due con architetture ardite e paesaggio atmosferico. Alla Sant’Assunta di Cerqueto troviamo invece la prima opera effettivamente firmata da Perugino, rimane il frammento con San Sebastiano trafitto dalle frecce. La prima grande impresa, come racconta Veruska Picchiarelli, consiste nell’Adorazione dei Magi. A soli 25 anni, Perugino si confronta così con una pala d’altare dove si riscontrano forze contrastanti: i fiamminghi, i fiorentini e Piero della Francesca.
Il pittore si sposta poi a Firenze ed entra nella bottega di Andrea del Verrocchio – sorta di Bauhaus del Quattrocento – dove sono passati i migliori: Leonardo, Ghirlandaio, Botticelli, Lorenzo Di Credi. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, ci mostra le tre tavole per San Giusto alle Mura. Se nella prima le figure risultano ancora legnose “alla Verrocchio”, è nella Pietà che avviene la svolta: viene introdotta una soluzione architettonica con sequenza di volte su pilastri come insegna l’Alberti.
Anche Lorenzo il Magnifico non si fa sfuggire Perugino che per lui realizza “Apollo e Dafni”.
Sempre Lorenzo – dopo la Congiura dei Pazzi e la morte del fratello Giuliano – manda i migliori pittori di Firenze ad affrescare la Sistina. Al suo ritorno a Firenze, Vannucci apre una bottega con pittori umbri creando un impero artistico ed economico, una catena di montaggio e di commissioni, grazie al suo talento imprenditoriale. Le richieste di suoi dipinti incalzano, la sua bravura si manifesta in maniera naturale nella leggiadria dei volti femminili, tanto che si dice abbia infatti inventato un inedito canone di bellezza. La sua tipologia di Madonna con viso insieme mesto e soave aprirà la strada all’indiscussa grazia delle Vergini di Raffaello. Vasari ci dice che la sua ispirazione potrebbe essere derivata da un modello reale, la moglie che amava “acconciare di sua stessa mano” con fantasiose pettinature, Chiara Fancelli. Inoltre, Perugino fu inventore di iconografie e portatore di un dinamismo effuso dai suoi personaggi, un moto interno a carattere devozionale. Cesare Brandi diceva che in Perugino “la pittura è aria e danza” e Virgilio Sieni coreografo di fama internazionale sta dedicando un suo studio proprio alla varietà gestuale nell’opera l’Ultima Cena.
Non mancano, a scandire la narrazione, gli interessanti affondi storici di Franco Cardini che ci riporta al periodo di confusione e severità mistica di Girolamo Savonarola che incitava i suoi seguaci a bruciare opere d’arte e averi sfarzosi in pire alzate nelle piazze. Appartiene a questo frangente il Compianto su Cristo morto (1495) della Galleria Palatina che bene seppe interpretare il messaggio di rigore del predicante e la tragedia della storia dell’umanità.
Tra i cicli pittorici del Perugino, capolavoro assoluto è Il Collegio del Cambio, nella Sala delle Udienze, che segue il programma iconografico di Francesco Maturanzio, mentre, la Pala Scaroni di Bologna, con la sua sintesi estrema – la scomparsa dell’architettura e la perdita della compenetrazione con la natura -, è un esempio di Protoclassicismo a cui si aderirà nel Seicento. È tuttavia “il tonfo della Santissima Annunziata” a Firenze a far decadere la stella di Perugino, schiacciato dalla nuova generazione di pittori e dalla sua reiterazione di soggetti e composizioni: “ormai non stupisce più e il pubblico non glielo perdona”.
Lascia poi scontenta un’esigente e ambita committente: Isabella D’Este gli commissiona una “Battaglia di Castità contro Lascivia”, dipinto dal soggetto profano; lui tarda la consegna e non la stuzzica con l’immaginazione. Gli ultimi capolavori ci riportano nella terra natale, l’Umbria; il maestro è ormai anziano ma continua a produrre in maniera prolifica. Il martirio di San Sebastiano di Panicale, non è una pittura “del tutto risolta, le figure sono serpentinate – annunciando il Manierismo – ma affettate” sostiene Veruska Picchiarelli che ne loda, comunque, la freschezza delle tonalità cromatiche.. Nel Febbraio 1523 il pittore, colto dalla peste, muore ancora strenuamente attaccato alla sua arte, il pennello stretto tra le dita come un’ancora di salvezza.
Come chiosa la voce calda, chiara e suadente di Marco Bocci, le opere di Perugino, nonostante tutto, “arrivano eloquenti fino ai giorni nostri, portatrici di bellezza”…una bellezza, credo, capace di manifestare un candore frastornante. Perugino è uno degli ultimi interpreti di un “mondo della grazia in cui nulla turba e nulla è turbato”.