Paolo Sorrentino è uno scrittore, Parthenope è l’inchiostro

Parthenope, ultimo film di Paolo Sorrentino, ha fatto discutere e dividere tanti appassionati e critici cinematografici. C’è chi lo reputa un altro lungometraggio senza trama, e c’è chi urla all’ennesimo capolavoro, quello che mi sembra essere un dato di fatto, è che Sorrentino è stato e rimane, un grande amante della penna. Con Parthenope ci ha lasciato delle pagine di poesia, prima che di prosa, per questo motivo in pochi lo comprendono; io che ho sempre odiato i poetelli della domenica sera, mi sono avvicinata in maniera ossessiva alla prosa, al romanzo, alla saggistica, lasciando il trono dei poeti a quelli che hanno tutto il diritto di essere appellati come tali: William Blake, Alda Merini, Walt Whitman, Paul Verlaine, Giacomo Leopardi… Sorrentino è un poeta, il significato di tutta una storia sta nei versi che affida ai suoi protagonisti, in quelle conversazioni intimiste e profonde sul senso della vita e sullo scorrere del tempo. Questo è il messaggio di Parthenope, la velocità dell’esistenza, la sua effimerità, la giovinezza che non ho vissuto– dirà l’autore in una intervista. Così Parthenope, sirena della mitologia greca che nasce dal mare e giunge esanime dove sorge Castel dell’Ovo perchè Ulisse risulta insensibile al suo canto, prende il volto di Celeste Dalla Porta, e ne prende anche il corpo, seduttivo, ammaliatore, totalmente libero nell’età e nella forma del pensiero.

Parthenope vuol far l’attrice, ma finisce con studiare antropologia, quella materia moderna che si prefigge di analizzare l’essere umano sotto il profilo culturale, sociale, filosofico, religioso, ne scruta i comportamenti e le psicologie all’interno della società. Uno studio in perenne prendere appunti che fa lo stesso Sorrentino, così attento a destinare i dialoghi più giusti, spiati tra i tavoli di un ristorante nella sua quotidianità, o nelle sue visioni oniriche notturne (immagino un taccuino pieno di annotazioni e di frasi che stanno cercando un volto ed un nome), ai personaggi più adatti.

NAPOLI

Parthenope ama Napoli, eppure ha sempre quel velo melanconico nello sguardo, perchè “non si può essere felici nel posto più bello del mondo“.
In questa Napoli, Sorrentino si è messo in strada, ha passeggiato nei vicoli meno fastosi delle sue pellicole precedenti, ha voluto dire la verità. In una carrellata, una Napoli fatta di tante piccole stanze che raccontano le piccole vite di gente comune, una vecchia che dorme accanto ad un bagno, sei bambini che saltano su un unico letto, una donna sola che allatta un neonato, la fatica e la povertà di una città abbandonata e forse anche un po’ rassegnata, una città dove si vive e si muore per motivi così futili.”

I PERSONAGGI

Tesorone

Arcivescovo di Napoli, uomo del Santo Protettore, delle ampolle e del miracolo di San Gennaro, è forse il personaggio più criticato dal pubblico italiano. Grasso, sudato, fanfarone e laido per immoralità, credo invece sia centrale nella comprensione del carattere della protagonista.
Parthenope lo incontra per approfondire il tema del miracolo, ed assiste ad una messinscena ormai iconica del napoletano, in cui il sangue però non si liquefà. Napoli, maestra nel custodire, creare e perpetrare favole e superstizioni che – dice Sorrentino – sono inutili ma indispensabili, alimenta certi attaccamenti superati, ma così orgogliosa delle sue tradizioni, le rinnova con ottusità e cecità.
Tesorone si avvicina a Parthenope con calma, come si fa con Dio e la religiosità. La seduce con la sfacciataggine, la veste solo del tesoro di San Gennaro, mentre Parthenope prende tutto con la leggerezza della giovinezza, con una sorta di affetto nei confronti degli emarginati (“tutto in me è fatto per essere rifiutato), con l’amore di chi ama profondamente perchè profondamente si sente solo. E questa è certamente una croce. “Tu ami troppo o troppo poco?” le chiede.

(Il miracolo si compie nel momento dell’amplesso.)

– Cosa le piace di una donna?
– La schiena, il resto è pornografia
.

Greta Cool
Camminate a braccetto con l’orrore e non lo sapete. Siete solo trasandati e folcloristici.
Siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi, arretrati, rubate e recitate male. E sempre pronti a buttare la croce addosso a qualcun altro, all’invasore di turno, al politico corrotto, al palazzinaro senza scrupoli, ma la disgrazia siete voi, siete un popolo di disgraziati. E vi vantate di esserlo, non ce la farete mai…cari orrendi napoletani io me ne torno al Nord, dove regna il bel silenzio, dal momento che io non sono più napoletana, da molti anni. Io mi sono salvata, ma voi no. Voi siete morti”.

Greta Cool (Luisa Ranieri) è la diva in decadenza, look alla Sofia Loren, accolta come una regina e buttata all’angolo come un neomelodico che decide di spiegare le ali e staccarsi dal fango di Napoli per volare altrove. Per i Napoletani o sei dentro o sei fuori, e quando sei fuori, devi essere eliminato. Come tutti i fanatici, non c’è sfumatura che tenga, il napoletano ama oppure odia, non ha mai le vie di mezzo, non può essere neutrale e soprattutto, possiede un attaccamento morboso alla sua terra con cui ha una sorta di amore incestuoso, così sanguigno ma indicibile, che vorrebbe scorticarsi di dosso ma non ce la fa.
Greta Cool si salva, scappando. E biasima i napoletani per la loro unione disgregante, compattati nella disperazione.

“Gli amanti si dicono sempre le stesse cose. 
Fortuna ci sono gli scrittori a togliere la monotonia con le loro parole.”

John Cheever
Insoddisfatto, malinconico, John Cheever è lo scrittore americano che Parthenope incontra nelle notti capresi (prima che nelle sue letture predilette), quelle più vitali dove la bellezza, come la guerra, le apre le porte, e dove la delusione arriva ancora più fulminea e tagliente delle armi.
John Cheever, un commovente Gay Oldman, affoga nell’alcol rimorsi e rimpianti, i dolori nascosti di una sessualità che non può essere esplicitata, il desiderio di storie mai iniziate e già finite.

Lo senti anche tu?
Cosa?
L’odore degli amori morti

IL SURREALE E LA MAGIA

Per trasformare un secchio di plastica in una lanterna magica, ci vuole l’ingegnosità che ebbe Hitchcock in “Suspicion” quando fece montare una lampadina dentro un bicchiere di latte, per rendere ancora più ambiguo e carico di mistero l’oggetto incriminato. In una corte di “stanze chiuse” dove le donne di malaffare salutano e osannano l’uomo di malaffare che passa a trovarle, accompagnato da Parthenope, scendono nel buio della notte dei panari, azzurri come il cielo e illuminati come delle lucciole. Portano messaggi d’amore, e trasformano la sequenza in un piano di pura poesia estetica.

Sono convinta che la grandezza di Sorrentino, come regista e sceneggiatore, basterebbe senza l’aggiunta di suppellettili surreali ad effetto wow. Ma il fatto che lui si diverta tanto, diverte molto anche me per osmosi.
Omaggi a Fellini? Semplice trastullamento? Il macrocefalo obeso è il figlio del Professor Marotta, (interpretazione straordinaria di Silvio Orlando) fatto di acqua e sale, come il mare, e affetto da disabilità, come Napoli.
Il commento di Parthenope “è bellissimo“, è forse la scena meno riuscita di tutto il film, forzata, con poca potenza, anche se dal simbolismo metaforico. Lascia, “il mostro”, una sorta di spazio bianco dove ciascuno di noi può scrivere la propria interpretazione, come quando guardiamo un quadro per la prima volta e non conosciamo nulla dell’autore, né del paesaggio o di chi vi è ritratto.
Il Professor Marotta sarà fondamentale per la crescita di Parthenope, che lascerà Napoli per dedicarsi alla docenza in Antropologia. Tornerà solo a settant’anni ricordando quel che le diceva il suo maestro:

Antropologia è vedere. E si inizia a vedere solo quando si perde tutto il resto.



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