Credo che un buon film possa definirsi “riuscito” solo quando il regista si mette a nudo. Senza pregiudizi. Succede la stessa cosa in fotografia, può esistere un ottimo scatto, tecnicamente perfetto, ma se non parla in qualche modo dell’autore, sarà un’immagine senz’anima e non racconterà nulla.
I registi che nella storia del cinema hanno o stanno lasciando il segno, sono esattamente queste figure coraggiose, che ci hanno aperto le porte del loro passato, o della loro mente, o delle loro curiosità, spesso parlandoci di perversioni, di ossessioni, di manìe, di complesso edipico, con una verità che può aver causato repulsione da parte del pubblico; mi viene in mente “Salò o le 120 giornate di Sodoma“, 1975 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Un’opera su-bli-me che meriterebbe centinaia di volumi per poter essere esplicitata, una geografia dantesca dell’Inferno, governato dai violenti. Scatologia, l’orrore del fascismo, il potere del sesso, sadomasochismo, necrofilìa, sono solo alcuni dei temi trattati dal regista; nell’estremizzazione della brutalità dei De Sade protagonisti, c’è tutto un codice societario che i telegiornali ci sbattono in prima pagina tutti i giorni.
“Il Portiere di notte” di Liliana Cavani (1974) segue il filone di quello che venne definito, insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma, il cinema nazi-erotico, un amore per il mostro, è la storia di una ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, che incontra il suo aguzzino (finito a fare il portiere di notte) per venirne di nuovo risucchiata e sedotta, perdendosi in un rapporto morboso sadomasochistico.
Ma di attrazioni e dello svelamento delle proprie ossessioni, Roman Polański è in cima alla lista con “Venere in pelliccia” (2013), perchè credo che quando la spinta e il desiderio di esprimere un concetto, una idea, sullo schermo o sulle pagine di un libro, sia così forte e così ben riuscito, allora quel pensiero è così radicato dentro di noi da rappresentarci. E sul regista la cronaca ha scritto di cause in attesa di giudizio (fissate per il 4 agosto 2025) per abuso su minori (ma questa è un’altra storia e non possiamo scriverla noi). Ci limitiamo ad esprimere giudizi sul mestierante, non sull’uomo, anche se ci chiediamo: “Possono essere scisse le due cose?”
Sempre sull’onda del feticcio non posso non citare Alfred Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte) del 1958, il regista vojeuristico per eccellenza, attratto dalle bionde glaciali ma soprattutto da quell’acconciatura a spirale che scopre della donna, la parte più vulnerabile: il collo. In una scena del film il protagonista chiede alla figura femminile di raccogliere i capelli in uno chignon, ecco il totem del regista che più di chiunque altro è riuscito a mettere su pellicola patologie, schizofrenie, fantasmi.
E per chiudere una prima parte dei registi che si sono messi a nudo, Lars von Trier in “Melancholia” del 2011 ci ha permesso di partecipare ad una seduta psicanalitica, perchè Melancholia è la vivisezione della depressione in immagine cinematografica. In una scena Kirsten Dunst, la protagonista, in un rallenty che dura oltre i cinque minuti, cerca di camminare ma viene ostacolata dalle radici che escono dal terreno, viene attratta verso il basso, bloccata (la perdita del piacere, il declino psico-fisico), l’aria si fa rarefatta (l’ansia, il panico), sulle note del Tristano di Wagner, e non poteva esserci colonna sonora più calzante, d’altronde von Trier non ne sbaglia una.
Un genio? No, ha solo avuto la grande sfortuna di conoscere la depressione. Solo chi ha vissuto, può spiegare.