di Enrico Maria Albamonte
Arriva finalmente sugli schermi italiani, dopo il successo clamoroso riscosso al botteghino in America, l’attesissimo kolossal di Quentin Tarantino, l’ultima, imperdibile fatica del profeta della pulp generation nato a Knoxville nel Tennessee nel 1963 e definito da Peter Bogdanovich ‘il regista più influente della sua generazione’: ‘C’era una volta… a Hollywood’. E speriamo anche questa volta in qualche oscar (Tarantino ne ha già vinti due in passato), perché questo film li merita davvero!
Un’autentica gara di bravura fra due titani della mecca del cinema a stelle e strisce: Leonardo DiCaprio (premio oscar nel 2016 per ‘The revenant’) e Brad Pitt (che con la sua società Plan B Entertainment si è aggiudicato la dorata statuetta per ’12 anni schiavo’ di Steve Mc Queen). Da notare che il biondo divo americano, sex symbol inossidabile, ha definito ‘maturo e lirico’ questo epico film.
Qui DiCaprio è Rick Dalton, attore della vecchia guardia di Hollywood che dopo i successi di una serie TV western anni’50, cerca di rimanere a galla nonostante il contesto avverso e super competitivo e gli effimeri ingranaggi dell’ambiente del cinema. Brad Pitt interpreta Cliff Booth, controfigura storica di Rick e suo grande amico, mai visto così in forma, anche dal punto di vista fisico. Le sue fan ne vedranno delle belle. Insieme i due giganti del cinema, che recitano forse per la prima volta fianco a fianco, formano una vera e propria famiglia.
Sullo sfondo della storia che conta un cast stellare (uno per tutti Al Pacino in un ruolo molto efficace) si innesta la figura di Sharon Tate, la splendida e sventurata moglie di Roman Polansky, tratteggiata abilmente già nello script del film e ricostruita grazie anche al talento drammatico di Margot Robbie (se l’avete amata in ‘Tonya’ di Craig Gillespie, qui la venererete). La bella attrice australiana dai grandi occhi penetranti che è attualmente anche produttrice di film oltre a essere brand ambassador di Chanel, incarna l’anima euforica e spensierata di una Hollywood che sta per essere offuscata dalle menti scellerate degli adepti di sette deliranti.
Fu questa la degenerazione di quel movimento hippy che, come Tarantino ha ribadito in molte delle interviste rilasciate sul film, ha poi trainato la transizione verso la nuova Hollywood dopo il 1969 l’anno in cui il film è ambientato. La Hollywood per intenderci dei Peter Fonda e dei Michael Douglas, i ragazzi ‘spettinati’ destinati a scardinare il cliché dell’attore duro e macho, impersonato nel film quasi a volte con tratti parodistici da DiCaprio.
Questo che vedrete sul grande schermo è il film in assoluto più personale di Tarantino. Da cinefilo accanito qual è, Tarantino ci riporta indietro nella golden age del cinema americano con la sua straordinaria macchina del tempo per rivivere da vicino un anno decisivo nella storia della settima d’arte ma anche della cultura e del costume: il 1969 è l’anno di ‘Easy rider’, di ‘Hello dolly’, di ‘Un uomo da marciapiede’ e di cantanti di rottura come Marvin Gaye, i Doors, Diana Rosse molti altri. Geniale a questo proposito la colonna sonora del film che somma tutti i grandi amori del regista, cresciuto con la radio e il cinema nel quartiere Alhambra di Los Angeles.
Il tam tam mediatico che ha accompagnato l’uscita del film distribuito da Sony Pictures Italia e che fa parte di una trilogia comprendente ‘Django unchained’ e ‘Bastardi senza gloria’, prevede che questa sia la penultima fatica cinematografica-ma noi auspichiamo che non sia così-per il grande regista affermatosi nello star system mondiale grazie a film come ‘Le iene’ e a ‘Pulp Fiction’, il film manifesto degli anni’90 con il quale il cineasta ha conseguito la palma d’oro a Cannes.
Difficile da dimenticare quest’ultima pellicola che è un atto d’amore nei confronti di una Hollywood che non c’è più, narrata anche nel libro ‘Pictures of a revolution’ di Mark Harris. Tarantino si è imposto nell’olimpo hollywoodiano grazie a un film che ha fatto breccia nei cuori dei fan del cinema indipendente, dedicato ai palati più esigenti e oggi non più così di nicchia. Quello stesso movimento che ha iniziato a esistere a Hollywood proprio nel 1969, si direbbe dal film un’ottima annata.
Preceduto da un’attesa quasi messianica, il film più glamour dell’anno è stato concepito in 5 anni di appassionata gestazione, con una sceneggiatura trattata e gestita artisticamente alla stregua di un vero e proprio romanzo. Il titolo è un omaggio a Sergio Leone, inventore di un filone di grande successo, ma nel film si cita con una punta di nostalgia e grande ammirazione anche l’opera e la filmografia di Sergio Corbucci, regista di ‘Western spaghetti’, un genere che nel 1969 si affacciava ancora in sordina sulla scena mondiale. E siamo grati a Tarantino anche per questo tributo.
Oltretutto anche se gli effetti speciali ci sono, Tarantino ha deciso di rinunciare alla ripresa in digitale optando per il 35 mm. per dare magari una patina più preziosa e vintage al suo ultimo capolavoro. Interessante la scelta cromatica del film che si tinge di giallo, il colore del mistero (Tarantino è un grande fan di Dario Argento), e insieme il colore dell’era hippy (let the sunshine in è la canzone hippy per eccellenza) e della ‘golden hour’ di Los Angeles secondo il super fotografo Herb Ritts. Come giallo era l’abito di Dries Van Noten che Margot Robbie ha sfoggiato alla première a Roma del film, già presentato a Cannes.
A questo proposito vorremmo spendere qualche parola per elogiare la costumista Arianne Phillips che oltretutto ha anche un curriculum con il pedigree. La stylist, stilista e costumista amica di Alessandro Michele direttore creativo di Gucci, con il quale ha lavorato su un esclusivo progetto editoriale, ha collaborato con Madonna per i costumi e il guardaroba dei suoi ultimi 6 tour mondiali, ha curato i costumi dei due film di Tom Ford, e ha anche collaborato per alcuni progetti creativi con maison del calibro di Cartier, Valentino, Van Cleef & Arpels e altre. Un ulteriore fattore di successo per questo grande film.