Roma, maggio 2015. Via dei Portoghesi a due passi da Piazza Navona. La chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi, dalla splendida facciata di Martino Longhi il Giovane. Accanto alla chiesa, la Galleria IPSAR, che in questi giorni ospita la mostra La Divina Somiglianza di Francesco Astiaso Garcia, artista italo-spagnolo.
Deve essere un destino della zona, quasi un genius loci; tutti e tre questi personaggi sono giovani, tutti poco più che trentenni: Sant’Antonio di Padova (ma là bisogna dire: da Lisbona), Martino Longhi e Francesco Astiaso. Giovani maturi, con la grinta della giovinezza e tutta la responsabilità dell’età matura.
La mostra è formata da ottanta quadri. Un numero notevole, capace di testimoniare una produzione iniziata quando il maestro Astiaso era ancora bambino. Il leit-motiv dell’esposizione è in queste parole che l’autore consegna alla nostra riflessione: «Ho cercato sempre la maniera di rappresentare la figura umana in modo da fissarne sulla tela l’essenza spirituale e rendere visibile l’invisibile presenza del divino».
Entrando negli spazi espositivi, ben più ampi di quanto siano esternamente percepibili, il visitatore ha l’impressione di immergersi in un’atmosfera senza tempo, quasi una selva dantesca, nella quale è facile smarrirsi non per una sensazione di angoscia ma per un’esuberanza di vita.
Ogni artista, in modo più o meno consapevole, si mette (e ci mette) in rapporto con la natura. In Astiaso Garcia questa connessione non è solo esplicita, è molto di più: è strutturale. La natura diventa essa stessa parte integrante della materia pittorica. Francesco, in definitiva, non raffigura la natura ma raffigura “con” la natura. I suoi dipinti sembrano essere formati veramente di aria, acqua, terra e fuoco, con tutta la specificità del loro manifestarsi: posseggono l’inafferrabile leggerezza dell’aria, il fluido vagabondare dell’acqua, l’eroica densità della terra, l’insondabile passionalità del fuoco.
Ben si comprende, allora, il senso dell’intera mostra. L’artista, infatti, si muove alla luce di una profonda motivazione religiosa. In quest’ottica, la persona umana non è solo una creatura di Dio, ma ne è l’immagine; è il vertice e la sintesi dell’universo, accogliendo in sé la vertiginosa evoluzione della materia e l’avventuroso stupore dello spirito; è lo specchio nel quale la natura scopre la direzione del suo cammino e si proietta verso una rinnovata identità (fig. 1).
Con il brulicante ritmo della loro presenza i dipinti interrompono il paesaggio di un’esistenza opaca e si aprono come finestre verso una verità umile e incantevole. Il pittore s’immerge e ci immerge in una realtà che va al di là del visibile, ma che costituisce la vera essenza degli esseri e dell’essere. Lo stupore della natura riecheggia nei visi umani soprattutto femminili e, come una cascata di bellezza, inonda lo sguardo del visitatore. Tra i volti «silvani», come direbbe d’Annunzio, si riconoscono alcuni consegnati alla storia dalla grande tradizione dell’arte occidentale, citazioni di classici che giungono dalla scultura greca o dal Parmigianino o da Gian Lorenzo Bernini o, soprattutto, dall’amatissimo Leonardo, il cui stile sfumato è pienamente coerente con la sensibilità, il mondo valoriale e la cifra pittorica di Francesco. Non a caso la Sant’Anna del Maestro di Vinci, con la forza poetica del suo sorriso, è la prima opera a evidenziarsi nella sala d’ingresso (fig. 2). E con lei, in un crescendo armonioso ed elegante, ci vengono incontro figure evanescenti, la cui identità si rileva solo in una distanza logistica e sentimentale; svagate istantaneità che sfidano gli equilibri visivi fin troppo collaudati; specularità figurative e ideologiche, che solo nel loro insieme danno ragione della realtà. È il caso, ad esempio, della Donna africana o dell’Angelo e Lucifero: è la loro complementarità che trionfa nel reciproco richiamo di toni caldi e toni freddi della pittura. E, in modo tutto privilegiato, il dolce viso di Maria José, che del pittore è sposa, modella e musa.
Con uno stile e una tecnica molto originali (basti pensare, tra l’altro, ai vari colpi di spugna sulla carta, così da rendere le vibrazioni della materia), nascono forme nuove, le cui radici affondano non solo in un linguaggio estetico ma in una visione di vita. Sono opere che testimoniano il percorso compiuto dal pittore nel suo passaggio dal figurativo all’astrazione, per giungere a una sintesi personale tra le due istanze; ma soprattutto testimoniano le radici esistenziali di un’arte che vuole essere espressione di una fede religiosa e di una fedeltà umana. Le didascalie che accompagnano il visitatore descrivono il percorso di questa ricerca.
La costruzione dell’immagine si basa su moduli apparentemente occasionali, ma in realtà condotti con rigore e razionalità; i colori, con la loro alternanza e la loro corrispondenza, diventano forme; la luce non si limita ad accarezzare le superfici, ma le definisce con vigore e leggerezza; vuoti e pieni dialogano per creare dissolvenze, fino all’informale; impressionismo ed espressionismo s’intrecciano per delineare volti come paesaggi dell’anima, di fronte ai quali la pausa di sospensione diventa stimolo alla contemplazione.
L’universo culturale e visivo di Francesco s’ispira alle grandi intuizioni della Bibbia e della mitologia greca, autentiche folgorazioni capaci di interpretare stati d’animo personali e collettivi, speranze e desolazioni, esili e ritorni. Il manifesto della mostra è la Dafne, simbolo di una profonda simbiosi tra la divinità, l’umanità e la natura (fig. 3). Nel volto diventato foglia e nella foglia diventata volto la natura celebra il proprio autoritratto.
Così, al termine di questa esperienza visiva e culturale, si ripropone la grande domanda: se la natura si ritrova nell’uomo e l’uomo è immagine di Dio, sarà in grado di diventare anche somiglianza di Dio? Ne sarà un’immagine somigliante o un rottame sfigurato e corrotto? E in questo fallimento, anche la natura sarà travolta?
Il maestro Astiaso Garcia illumina la risposta con un ultimo soffio di speranza: «L’animo umano è abitato dal desiderio di trascendere tutti i limiti, la bellezza è fragile custode di questo insopprimibile anelito».
Non è l’uomo che protegge la bellezza.
È la bellezza che protegge l’uomo.