Ti piace il presepe?

In tempi di presepi viventi o morenti (o già morti?), di presepi contestati o affermati, vietati o usati come un manganello per confermare un’identità culturale, ritorna la domanda decisiva, posta una volta per tutte dal grande Eduardo De Filippo più di ottanta anni fa: «Te piace ‘o presepio?».
Nella sua celeberrima commedia Natale in casa Cupiello il presepe diventava da una parte il simbolo di una tradizione solida, capace di dare un senso alle cose della vita, dall’altra il segno di una volontà di chiudere gli occhi di fronte alle contraddizioni e alle storture dell’umana esperienza, una specie di paradiso artificiale fatto di muschio, di pecorelle e di ipocrisia.


La parola latina praesaepe, da cui deriva l’italiano presepe o presepio, significa stalla. Perciò “fare il presepe” vuol dire costruire una scena in cui una stalla ha il ruolo principale. Come narrano i Vangeli, fu proprio in una stalla che nacque Gesù, circondato da un coro di angeli, dai pastori della zona, da alcuni sapienti orientali e soprattutto dall’affetto della sua mamma Maria e di Giuseppe, il padre che lo aveva adottato: infatti il vero padre di Gesù è Dio.
Naturalmente questa bellissima storia ha valore per i credenti cristiani, i quali sono tali proprio perché credono al racconto dei Vangeli. Tuttavia anche i non credenti o i credenti in religioni diverse dal cristianesimo possono trovare in questa narrazione (e nel presepe che ne deriva) dei grandi valori spirituali o culturali, anche se non condividono la stessa fede in quel bambino nato a Betlemme.
Con il passare degli anni, poi, i cristiani arricchirono la narrazione evangelica per mezzo di altre tradizioni più o meno leggendarie: sono i cosiddetti Vangeli apocrifi. Ebbene, soprattutto nella rappresentazione della nascita di Gesù, queste tradizioni hanno avuto molta importanza, con l’inserimento di particolari dalla forte carica simbolica.


Ti piace il presepe?


Tra i dettagli registrati solo negli apocrifi, incontriamo due animali, il bue e l’asino, che probabilmente sono le bestie più caratterizzate nella storia dell’arte. La loro presenza accanto al neonato Gesù di solito viene interpretata in funzione di riscaldamento: con il loro alito e la loro vicinanza fisica hanno evitato che il bambino patisse eccessivamente il freddo.
Ma, al di là di questo, il bue e l’asino hanno dei significati molto più profondi. Dobbiamo fare un passo indietro e risalire a settecento anni prima di Cristo. Racconta la Bibbia che il profeta Isaia, parlando in nome di Dio, aveva rimproverato il popolo di Israele, perché era stato ingrato e non aveva vissuto secondo gli insegnamenti divini, dicendo: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». I cristiani dei primi secoli, invece, interpretarono queste parole non come un biasimo e un ammonimento, ma come una profezia (del resto, era stato un profeta a pronunziarle!). È come se Isaia avesse detto: verrà un giorno in cui il bue e l’asino conosceranno il loro vero signore. Ed eccoli, allora! Il bue e l’asino nella stalla di Betlemme stanno a significare che la profezia si è compiuta e perfino gli animali sanno identificare in quel bambino la presenza di Dio.


Alcuni antichi scrittori, poi, fecero un passo avanti e paragonarono il bue al popolo degli Ebrei, perché posti sotto il giogo della legge, e l’asino ai popoli pagani, perché intestarditi nell’ignoranza di conoscere il vero Dio.
A questo punto il cerchio si chiude: questi due simpatici animali, che per secoli hanno costituito l’asse portante della civiltà contadina, sono il simbolo di tutta gli esseri umani invitati ad incontrarsi presso la culla di Gesù: sia di quelli che attendevano il messia (gli Ebrei) sia di quelli che non lo attendevano (i pagani).


Gli artisti, infine, aggiunsero il tocco magico della loro intelligenza e abilità e raffigurarono questi nostri “rappresentanti” sempre più partecipi del grande avvenimento della natività. Così, ad esempio, Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, mentre dipinge l’intenso dialogo di sguardi tra Maria e il figlioletto, presenta il bue che condivide la stessa esperienza visiva e fissa i suoi occhi (i «pazienti occhi», dirà il Carducci) inserendosi in quello straordinario colloquio d’amore. Piero della Francesca, a sua volta, coglie il momento in cui l’asino unisce la sua voce (immaginiamo il … mirabile concerto natalizio!) a quella degli angeli.
Cosa risponderemo all’immortale domanda di Eduardo?
Ci piace il presepe?