LATO B | Ho ascoltato per voi un disco Free Jazz, e non l’ho capito.
Forse dovrei dirvi che sì, ho ascoltato un disco che si autodefinisce Free Jazz, ma non so cosa sia davvero. Se per il pop esiste il pop, e basta, per il jazz non è così.
Esiste il jazz delle origini, il New Orleans, il Dixieland, lo swing, il Bebop, il Free e la Fusion, tutto naturalmente, in ordine di tempo in termini di correnti stilistiche, e di comprensione dal più semplice al più difficile da comprendere.
Se il jazz delle origini serviva per ballare, per vivere un momento di convivialità, il jazz della corrente Free allontana, divide, tende a non essere compreso, perché abbandona completamente ogni tipo di struttura, di regola, e si dice che necessiti di un ascolto “attivo” da parte dell’ascoltatore. Se lo comprendi è troppo pop per essere jazz, e troppo accessibile per far parte di un’elite. L’ oligarchia musicale dei colti non può permettersi di parlare una lingua di pubblico dominio, non può accettare di piacere ai troppi. Potrebbe essere un rischio.
Ma se ci penso, è la regola a tenere l’ascoltatore e l’esecutore sullo stesso binario. Giusto?
E’ la regola a permettere uno scambio, a permettere un racconto a doppio senso di marcia, a riprodurre, a “ricantarsela” in testa, a ripensarci. Senza regola, come accade nel Free Jazz ad esempio, non esiste capacità di riproduzione. L’ esecutore rimane lì, da solo, ad eseguire qualcosa che forse un ascoltatore “attivo” proverà a capire, ma che per ovvi motivi non capirà fino in fondo, perché non potendola fare propria si troverà a sentirsi troppo lontano da quella cosa, per apprezzarne la bellezza in toto, qualora di bellezza si parli, ovvio.
La cosa subdola degli esecutori, o auto-determinatisi, free-jazzisti, è quel sorriso di base che, davanti agli occhi dell’ascoltatore un po’ preoccupati che sembrano dire “io questa cosa non l’ho capita”, il loro sguardo saccente dice “non l’hai capita perché non sei colto abbastanza per capirla”. E allora, l’ascoltatore che, bhe se si trova lì ad ascoltare Free Jazz non è proprio un frequentatore abituale della sagra di paese, proverà a dirsi: l’ho capita. Cosa? Non è importante cosa. Lui l’ha capita, si è auto-determinato degno di accedere all’olimpo degli incompresi.
Ma che cos’è un linguaggio senza comprensione? E’ uno strumento senza potere, senza forza sociale. Pensiamo alla musica Funky, utilizzata quasi come arma di distrazione di massa negli anni 70: il suo potere ipnotico, ripetibile, accessibile, riproducibile, era così essenziale da poter essere collegato agli istinti più primordiali dell’uomo.
Naturalmente ci tengo a precisare che teniamo fuori da questo ragionamento le fasi ultrasperimentali di John Coltrane, Ayler o Taylor, che senz’altro hanno aperto le strade dell’avanguardia alle generazioni successive. Molto di questo ragionamento è piuttosto contemporaneo, è dedicato agli intellettuali vestiti bene, che non amano dire a voce troppo alta di aver ascoltato Stevie Wonder nella loro vita, e che sì, forse Coleman non è nella loro playlist quotidiana.
Se da un lato il pop si fa paladino spesso della mancanza di valori umani, e dell’eccessiva importanza data all’immagine più che al contenuto, il jazz nelle sue forme più incomprensibili è portavoce della corrente intellettuale “per partito preso”, altrettanto pericolosa corrente umana.
Anche la musica si fa spesso rappresentante di ciò che vogliamo essere, ciò che vorremmo essere, dei titoli che non abbiamo o di quelli che abbiamo ma che vogliamo far contare nella società.
Del racconto del weekend il lunedì in ufficio, del cosa hai fatto tu, e di quelli che hanno fatto meglio di te, o che hanno percorso più km. L’ incessante competizione che porta il quotidiano ad una destinata infelicità, nel perseguire qualcosa di troppo distante dal proprio essere reale.