Ancora una volta gli occhi di tutto il mondo si rivolgono a Parigi: fortunatamente non per piangere le vittime della violenza, ma per continuare a sperare. In questi giorni, infatti, la capitale francese ospita la ventunesima “Conferenza delle parti”, organizzata dall’ONU per far fronte alla grande questione della salvaguardia dell’ambiente.
Continuare a sperare, si diceva. Non è che i precedenti appuntamenti abbiano prodotto risultati particolarmente brillanti. Non di rado quegli incontri vengono ricordati per eventuali scontri con movimenti ambientalisti più o meno agguerriti che non per conclusioni originali, decisive e vincolanti di fronte ai giganteschi quesiti ecologici ed energetici.
In presenza di problemi di così ampia portata, la nostra umile riflessione ci invita a guardare ad alcuni capolavori artistici: non per evadere dalla realtà, ma per comprenderla meglio, dal momento che l’arte non è fuga dal mondo ma interpretazione del mondo.
Il degrado dell’ambiente, al quale quotidianamente assistiamo e del quale a vari livelli spesso siamo responsabili, ci rimanda a un sogno a un’utopia, che ha accompagnato il cammino dell’umanità: l’ideale di una terra incontaminata, una specie di paradiso, nel quale l’uomo e la donna possano realizzare i loro progetti; una “casa” in cui rispecchiarsi e riconoscersi; un giardino ricco di vegetazione e di animali, con cui entrare in rapporto di totale armonia.
Questo ideale, come tanti altri, ha trovato una formidabile risonanza nell’arte di tutti i tempi, al punto da dare vita ad un particolare genere pittorico, la pittura di paesaggio.
A onor del vero, va ricordato che è soprattutto nell’età moderna che il paesaggio prende consistenza e autonomia nell’arte.
Infatti nelle immagini antiche e medievali la veduta di un ambiente costituiva lo sfondo per le opere di un dio greco (soprattutto Ercole) o di un eroe o era il fondale allusivo e simbolico della figura di Gesù, della Madonna, di un santo o lo scenario di un ritratto. Invece, nella transizione dal medio evo all’età moderna, assistiamo a un fenomeno altamente significativo: il paesaggio, che era un elemento secondario, balza in primo piano e diventa protagonista, a volte protagonista assoluto.
Non sembra casuale il fatto che la pittura di paesaggio fa la sua comparsa nel periodo delle grandi scoperte geografiche, che hanno aperto agli occhi dei pionieri immensi territori sconosciuti. Questo genere artistico, perciò, riproduce l’immensamente grande nell’immensamente piccolo, come se la totalità del mondo potesse essere contenuta in un minuscolo frammento. Ma c’è una seconda circostanza che sembra ancor più decisiva: è il periodo in cui sommi scienziati, in primis Copernico e Galileo, proclamano un’immensità dell’universo nel quale l’uomo quasi si smarrisce in una vertiginosa piccolezza. Un quadro con un paesaggio, allora, è la raffigurazione di un segmento in cui l’uomo è una realtà, non la realtà.
Questo genere pittorico educa l’osservatore a guardare la natura non tanto con gli occhi dello scienziato (c’è anche questo, nell’arte) quanto con quelli dell’innamorato.
I primi maestri di questa nuova sensibilità furono senza dubbio Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer, preceduti da Ambrogio Lorenzetti e seguiti dagli italiani Giorgione e Tiziano, dai francesi Poussin e Lorrain, dagli inglesi Constable e Turner, dal sublime tedesco Kaspar David Friedrich, dagli americani Thomas Cole e Friedrich Church.
E chi fu innamorato della natura più di un Van Gogh? La sua Notte stellata è un inno alla bellezza del mondo, la nostalgia del paradiso perduto.
Tra i “padri fondatori” di questo genere pittorico è da annoverarsi il bolognese Annibale Carracci, soprattutto con la sua Fuga in Egitto, dipinta nel 1604 per decorare la Cappella Aldobrandini, oggi non più esistente, in Via del Corso a Roma. Attualmente il dipinto è custodito nella Galleria Doria Pamphilj della capitale, praticamente nell’ambito familiare per cui era nato.
Com’è stato argutamente notato, il dipinto sembra più adatto ad un salotto che a una chiesa. Ma il risultato è straordinario: la campagna romana vi è ritratta nel suo rigoglio, con la ricca vegetazione, i solenni edifici, i pastori che conducono gli animali al pascolo, il barcaiolo che ha traghettato i sacri personaggi dall’altra parte del fiume. La fuga caotica e improvvisa di Gesù bambino e dei suoi genitori perde completamente il suo aspetto drammatico e si placa in una specie di “gita in campagna”. Solo il ramo spezzato dell’albero allude a una sofferenza e i due cammelli che si intravedono in fondo a sinistra fanno vagamente pensare all’Egitto.
Tutto è ordine, tutto è pace. La linea dell’orizzonte distingue gli spazi, lo sguardo corre verso lo sfondo azzurrino, la luce è chiara e avvolgente, i personaggi sono in primo piano ma non giganteggiano rispetto all’ambiente.
Annibale Carracci e Vincent Van Gogh sono soltanto due voci del mirabile coro che l’arte ha elevato alla natura.
Voci che speriamo non restino inascoltate né dai grandi della terra riuniti a Parigi né dai singoli abitanti del pianeta, «questo capolavoro sospeso nel cielo», come cantava Celentano alcuni anni fa