Panico a Sanremo
di Damir Ivic
Cosa resterà di questo Sanremo, lo stabiliranno nelle prossime settimane le piattaforme di streaming: unico vero giudice di cui tenere conto nel capire dove e come il Festivalone incida sulle vita di noialtri, quanto davvero si inserisca nelle nostre passioni al di là della “settimana santa” in cui tutto e tutti convergono verso il monoteismo dell’argomento-di-cui-non-puoi-non-parlare. Cosa resterà invece alla Rai e ad Amadeus di questo Sanremo, beh, saranno i dati d’ascolto record: evviva per loro. Ma i dati d’ascolto record nel 2024 valgono molto di meno rispetto al 1984, al 1994, al 2004 – perché sono dati d’ascolto televisivi, e la televisione è solo uno dei tanti elementi nel menù della comunicazione e dell’intrattenimento odierni, non il Moloch dittatoriale che era fino a una decina d’anni fa. I dati record o comunque molto buoni ci sono anche per quanto riguarda il traffico on line, ma lì bisogna fare attenzione. Il marketing e l’analisi dei dati odierne si sono fatte molto più raffinate, e una cosa che conta – nell’ottica degli investitori pubblicitari, che è l’unica cosa che conta: sono loro a far muovere tutto il Carrozzone – è il sentiment.
…ecco, il sentiment. Occhio: perché quello che ha circondato il Sanremone nazionale anno 2024 potrebbe essere, oggi, molto meno salutare e positivo di quello che paiono raccontare i numeri e gli indici, e di quello che gli addetti ai lavori si raccontano a vicenda, per convincere non solo il mondo ma anche se stessi di essere nel giusto, assolutamente nel giusto, che va insomma tutto bene così. Va tutto bene davvero?
Sanremo 2024 è stato, in realtà, un festival bloccato dalla paura. Probabilmente mai come negli ultimi anni (diciamo dal 2018, dall’avvento della direzione artistica Baglioni). Panico a Sanremo, sì: e pure tanto. Un panico che in questa edizione non ha fatto danni, perché appunto i risultati numerici sono stati portati a casa, eccome; ma un panico che potrebbe essere il racconto di una crepa in procinto di allargarsi male, in grado di far ripiombare nell’arco di poco tempo il festival in una nuova fase di declino (sì, Sanremo ne ha avute e potrebbe averne ancora, di fasi di declino: non è una categoria dello spirito al di sopra dei mali dell’umanità e dei cicli della vita, delle mode, delle passioni).
Quel senso di rinnovamento e di risincronizzazione con la realtà, autentico elisir di anni recenti, nel 2024 si è affievolito. Di chi sono le colpe, lo si stabilirà col tempo – quando saranno de-secretati riunioni segrete, discussioni, scelte interne, strategie. Quando capiremo come mai i rapper hanno scelto di rinunciare all’hip hop (con l’eccezione di Geolier nella serata delle cover: e guarda caso ha trionfato). Quando capiremo fino a che punto gli artisti sono liberi di esprimersi e fino a che punto invece sono le grandi case discografiche che controllano, impongono e dispongono tutto anche dal punto di vista creativo, come e più di prima (imponendo cioè autori per testi e musiche, come “cintura di sicurezza”: quanti brani ha firmato Davide Petrella quest’anno?). Quando capiremo perché i momenti non musicali gestiti da Amadeus e Fiorello sono diventati così vecchi, imbarazzanti e sorpassati (diciamolo, su: anche Fiorello si è imbolsito), perché una roba come quella di Travolta e del Ballo del Qua Qua è faccenda da oratorio triste anni ’80 ma non c’è stata solo quello (tra mille esempi possibili, citiamo il mesto coinvolgimento di Carolina Kostner in un siparietto a favore di uno dei principali sponsor dell’evento).
Un’ipotesi ce l’abbiamo: la paura. Si muovono tutti con la paura. E da fuori questa cosa si è iniziata a vedere – quando parliamo di sentiment intendiamo esattamente questo.
La Rai si è mossa con la paura di perdere la sua unica, ultima, vera gallina dalle uova d’oro, e allora finché le cose vanno bene per carità non facciamo colpi di testa. Amadeus con la paura di osare troppo, uscire dal seminato e quindi non raggiungere più risultati da record. Le case discografiche si sono mosse con la paura di non massimizzare la presenza loro e dei loro artisti in queste kermesse che è, tra le altre cose, per loro costosissima. Gli artisti arrivati da contesti più indipendenti (hip hop o indie che siano) si sono mossi con la paura di perdere questa improvvisa, avvolgente e per certi versi sorprendente benedizione del mainstream nazionalpopolare.
Ma la paura, si sa, può facilmente diventare una cattiva consigliera. E non è un buon investimento per il futuro, soprattutto. Sanremo l’hanno guardato e seguito in tantissimi, in questo 2024, certo; ma quella dinamica per cui era percepito come di nuovo decentemente sincronizzato al paese reale, quello dei veri consumatori di musica, si nutre sul medio periodo solo ed unicamente col coraggio e con la voglia di innovare, e quest’anno di questi due non se n’è visto granché. Al loro posto invece un panico sottile che i grandi risultati degli ultimi anni possano intiepidirsi. La paura dei sazi. Il panico di chi non vuole perdere privilegi dati ormai per acquisiti. Non una bellissima cosa. Perché in una società sempre più veloce ed istantanea, i privilegi acquisiti – anche quelli più granitici – si possono perdere quando meno te l’aspetti.