In un’Australia senza regole, la sola legge che conta è la legge della strada, dominata da bande di delinquenti in moto che scatenano l’anarchia e la violenza. La Main Force Patrol, una squadra speciale composta da poliziotti senza scrupoli, cerca di opporsi al ritorno delle barbarie medievali, in un mondo in cui le risorse energetiche stanno per terminare e l’unico vero tesoro è la benzina. La Main Force Patrol può contare su Max Rockatansky, soprannominato Mad Max, un uomo che agisce per istinto e per un innato senso di giustizia. In seguito a uno scontro mortale con una banda di motociclisti, Max si ritrova, poco alla volta, da solo contro tutti, perdendo prima un collega e poi la sua famiglia, uccisa brutalmente dalla banda di Toecutter. Così, a bordo della sua V8 Interceptor, Max intravede come unica ragione di vita la vendetta, scatenando però dentro di sé una rabbia incontrollabile, frutto della sofferenza e della disperazione per una realtà senza futuro.
In Interceptor (1979), George Miller recupera gli scenari dei western di John Ford per contestualizzarli in un universo post-apocalittico in cui i cavalli, da un lato, e gli indiani e i banditi, dall’altro, sono rimpiazzati rispettivamente da moto e motociclisti senza legge. A questo si aggiunge un tema tanto caro al cinema: la vendetta, scatenata da un profondo senso di rivalsa e di angoscia e nutrita dal male e dall’odio che il protagonista prova verso chi lo ha ferito o gli ha sottratto gli affetti. In tal senso, Mad Max è vittima e carnefice allo stesso tempo, divenuto, dopo il torto subito, ignaro delle regole e del senso di giustizia proprio come lo sono i delinquenti che hanno ucciso la sua famiglia. Il successo del film, costato circa 300mila dollari australiani e capace di incassare oltre 100 milioni di dollari e di lanciare un giovanissimo Mel Gibson, risiede quindi non tanto nel soggetto, quanto piuttosto nello scenario, un deserto selvaggio e indomabile da cui non si può fuggire, reso affascinante dagli spazi maestosi senza traccia di civiltà.
Se nel primo capitolo la trilogia riesce a far esordire il filone post-apocalittico – il cui grande riscontro si deve, negli anni Ottanta, anche alla serie Ken il Guerriero, fortemente debitrice del mondo plasmato da George Miller – è però con il secondo e il terzo film che il deserto si trasforma in una nuova Terra di Mezzo senza frontiere, in cui il potere non lo detiene il portatore dell’Anello ma chi ha più benzina. In Interceptor – Il guerriero della strada (1981), chiarito l’antefatto – che riassume anche il primo film – riecco Max, da solo, che vaga senza meta nel deserto. Il suo unico obiettivo è avere un po’ di benzina. Ora però non è più un tutore della legge ma si è adeguato a quella realtà ed è diventato un eroe solitario al di là del bene e del male, uno che agisce soltanto in cambio di un tornaconto personale. E la raffineria della Tribù del Nord capita a proposito: lì c’è la benzina e lui ne ha un grande bisogno. Ma anche la banda degli Humungus la vogliono e sono disposti a tutto pur di appropriarsene. Lo scontro tra Max e gli Humungus non è molto diverso da quello di Joe/Clint Eastwood con i Baxter e i Rojo in Per un pugno di dollari: l’esito è lo stesso, così come la sequenza narrativa, che prevede prima una bruciante sconfitta da parte dell’eroe e poi una vendetta senza pietà.
Nel terzo e ultimo film, Mad Max – Oltre la Sfera del Tuono (1985), non c’è più traccia di civiltà e il nuovo Medioevo annunciato in Interceptor si è concretizzato. Max giunge nella città di Bartertown per recuperare i dromedari che gli sono stati appena rubati. In cambio di benzina e di cibo dovrà uccidere il gigantesco Blaster, che insieme a Master controlla l’energia di Bartertown attraverso lo sterco dei maiali. Questa è la proposta della regina della città, Aunty Entity. Ma Max, ricordandosi, forse, dei suoi trascorsi da tutore della legge e della civiltà a cui apparteneva, risparmia Blaster e viene abbandonato nel deserto (pena che la gente di Bartertown chiama “gulag”), per essere poi salvato da una tribù di bambini selvaggi che lo scambia per il Capitano Walker e che cercano la Città del domani domani. A differenza del secondo film, un barlume di speranza c’è ancora: i bambini, le nuove generazioni, un mondo che potrà rinascere, ripopolarsi e ricostruirsi. Se anche qui Max agisce solo in funzione di esigenze prettamente personali, non si può trascurare il saluto finale datogli proprio da Aunty Entity («Addio, eroe!»), che si collega, in qualche modo, con la frase del collega poi ucciso in Interceptor: «La gente non crede più negli eroi!». E non a caso, nella colonna sonora, Tina Turner/Aunty Entity canterà We don’t need another hero, in cui i bambini diranno che non è più necessario un eroe che li salvi e nemmeno una strada per tornare a casa ma tutto ciò che c’è al di là dell’arena («All the children say/We don’t need another hero/We don’t need to know the way home/All we want is life beyond/Thunderdome).
Thunderdome non è soltanto l’arena in cui avviene lo scontro tra Max e Blaster, ripresa nel titolo originale del film (Mad Max Beyond Thunderdome, tradotto ala lettera come “sfera del tuono”): in una società senza più alcuna autorità e senza nessuno in grado di giudicare le controversie, l’arena diventa il luogo ideale nonché il solo luogo in cui risolvere i conflitti. In tal senso va inteso il Thunderdome, un’arena non molto distante da quelle dei gladiatori romani: “Due combattono, uno vive” è il motto che incita la folla, per la quale nessuno può essere risparmiato. Ma l’arena diventa anche il simbolo nell’anarchia più totale: le uniche regole riconosciute sono quelle dello scontro a corpo a corpo, o meglio della legge darwiniana della sopravvivenza, per cui il più forte è quello che rimane in vita. La saga di Mad Max, al di là di ogni giudizio critico, ha avuto il merito di avviare, quasi per caso, la lunga carriera di Mel Gibson, diventato poi un cultore dei ruoli da protagonista nei film d’azione, mentre Interceptor, insieme a The Blair Witch Project, uscito vent’anni dopo, detiene il record di maggiore incasso con budget ridotto. Con Mad Max – Fury Road i sentieri selvaggi percorsi trent’anni fa da Mel Gibson diventeranno ancora più violenti e anarchici ma George Miller, che dirige il quarto capitolo della serie, non tradirà le attese per un viaggio nel deserto che si preannuncia carico di adrenalina.