di Tommaso Basilio
Caro Oliviero,
ti scrivo perché sei partito e non ci siamo salutati. Ti ho conosciuto nel ‘79. Io allora studiavo Ingegneria, mai scelta più sbagliata. A Milano si cominciava a respirare un’aria nuova dopo gli anni di piombo, dove tutto era politica e scontro. Anche il divertimento di noi ragazzi era stato politicizzato. Si andava nei bar frequentati dai compagni o da quelli dei camerati. Non c’era via di mezzo. Ma nel ‘79 le cose stavano per cambiare. Ed io per guadagnare qualche lira accettai un lavoretto come fattorino in una piccola casa di moda dove mio cugino era lo stilista. Portavo pacchi con vestiti alle boutique e mi capitava anche di andare agli studi di Vogue, uno scantinato con una scala che conduceva direttamente su un set fotografico. Dietro ad una serie di flash c’era un tipo alto, con due baffoni alla tartara, che dava indicazioni a due modelli che saltavano. Tutto mi sembrava così divertente! Beh, quello con i baffi eri tu, ed io, spaesato, timido, con un pacco in mano cercavo di capire a chi consegnarlo. Poi un attimo dopo mi chiedesti di indossare un piumino rosso (sì, c’erano già i piumini, ma erano i primissimi e venivano dagli USA, li aveva portati Donna Jordan, la tua fidanzata/modella del tempo che allora faceva la stylist).


Tu eri energia pura, io iniziai a fare da modello sui tuoi set ed il destino fece il resto: la redazione di L’Uomo Vogue cercava assistenti. Lo chiesero a me. Senza un background, senza una preparazione, senza forse neanche una passione. Evidentemente in me avevi visto qualcosa, una luce, uno sprizzo di eccentricità. Era un periodo di grande creatività nella moda, mi appassionai alla fotografia e al piacere di lavorare con te. Tra i servizi più importanti de L’Uomo Vogue ricordo un numero dedicato al futuro, io e te soli a scarrozzare una decina di bauli per vestire professori del MIT di Boston, scienziati a Cape Kennedy e Robert Jarvik, il dottore che aveva costruito il primo cuore artificiale che tu ritraesti come un nuovo Gesù Cristo. Tu, fotografo già affermato in tutto il mondo, avevi accettato di viaggiare senza assistenti, senza luci, con uno spirito di avventura che chiamavi “situazionismo”.
Nell’incedere degli anni ‘80 la moda diventava sempre più potente e le riviste, con a disposizione grossi budget, potevano permettersi viaggi in location stupende. Ma il tuo punto di vista era diverso, non sei mai stato schiavo della moda, per te il vestito era rappresentazione di sé, segno di cambiamento, espressione di nuove istanze sociali e politiche. Non ti interessava il prodotto, ma il suo significato: hai amato la minigonna perché per te rappresentava il progresso dell’umanità più dei trattati di sociologia. Avevi in fondo l’anima del photoreporter come tuo padre, ma documentavi il mondo con l’aiuto della fiction (modelle, styling, luci, ecc.). Sottolineavi che il fotografo non era solo un cameraman come i reporter di guerra, ma anche scenografo, sceneggiatore, direttore della fotografia e regista. L’immaginazione era un mezzo per toccare la verità; agli albori del fashion system hai sempre preferito trattare temi caldi, sociopolitici, problematiche sociali attraverso immagini prodotte per l’industria della moda. Privilegiavi le collaborazioni con chi produceva per la massa, piuttosto che per pochi privilegiati. Facevi quest’esempio: “È più importante produrre un’auto che costa poco, con un ampio bagagliaio e che consuma pochissimo, piuttosto che una Lamborghini”.
La tua intelligenza mi spiazzava, i tuoi pensieri erano estremi e mi facevano riflettere per giorni; amavi rompere lo status quo, un po’ per convinzione, retaggio della tua generazione di ribelli, un po’ perché ti divertiva. Mi hai insegnato che l’uomo si esprime attraverso il lavoro e che in vacanza si annoia, tu che stavi su due o tre set contemporaneamente sempre con un’energia contagiosa e circondato da tantissimi amici.


Nel 2014, quando ti ho aiutato nella redazione del libro, “Più di 50 anni di magnifici fallimenti” , ho raccolto le opinioni che di te avevano tantissime persone speciali, da David Bailey a Philippe Starck, dal Cardinal Ravasi a Franca Sozzani. In questi giorni, dalla tua mancanza, in Italia e all’estero scrivono di te, sei il fotografo italiano più conosciuto al mondo, a Milano hanno fatto la fila per ore per poter vedere la tua ultima mostra (l’hanno organizzata i tuoi amici con tipica mossa situazionista che ti sarebbe piaciuta). Malgrado mi sia spesso capitato di volerti difendere da accuse di amici e conoscenti che non gradivano le tue dichiarazioni forti, ho potuto constatare che ci sono migliaia di persone che ti ammirano; i social, che tu detestavi, sono intasati di giudizi di gente che non ti conosce e che pensa di dimostrarsi viva nell’esprimere odio. So che poco te ne importerà e andrai avanti per la tua strada, onesto, franco e sincero, sempre. Sei circondato da persone che ti vogliono bene e che sanno vedere il grande cuore dietro la tua cruda franchezza, sono gli amici un po’ eccentrici e folli di cui amavi circondarti, dei “marziani”, come dicevi tu, come Warhol e Benetton, esseri speciali, non-normali.
Durante il lockdown mi hai raccontato moltissime avventure su Parigi e sui francesi che giudicavi un popolo molto civile; sugli USA, una terra libera che ha lanciato la musica di Bob Dylan e i ranch con i cowboy e l’energia degli afroamericani; aneddoti della tua vita speciale da cosmopolita che ho scritto su “Ne ho fatte di tutti i colori” uscita per i tuoi 80 anni per La Nave di Teseo. Degli afroamericani amavi la loro energia, i vestiti eccentrici e colorati, la musica che ascoltavano, tanto che nel ‘73 gli hai dedicato un monografico e messo in copertina un ritratto con i colori delle Black Panther.

Non facile da far accettare a Liberman, il Direttore Editoriale ucraino-americano di Vogue, ma l’enfant terrible, come lui ti chiamava, ha vinto. Nel numero, i servizi di moda scattati ad Harlem e i ritratti di artisti come James Baldwin e Miles Davis, simbolo di cosa, per me, dovrebbe fare un giornale: ricercare, stimolare, informare. Still life, ritratti, reportage, impaginazione grafica, sei sempre stato una macchina da guerra, d’altronde sei stato educato dai professori del Bauhaus conosciuti a Zurigo.
È in America però che hai fatto la cosa più difficile, ma che ti stava molto a cuore: fotografare i condannati a morte per uno dei committenti per te più intelligenti: Luciano Benetton. Le tue idee, le tue lotte per il progresso si mescolavano con la pubblicità commerciale, questo è stato un unicum nel mondo della comunicazione.
In questi giorni mi hanno chiamato in tanti chiedendomi di te. Tra gli altri, il tuo amico e collega Paolo Roversi che, commosso, mi ha detto “I fotografi non muoiono mai, vivono attraverso le immagini che hanno prodotto. Ne sono convinto.”
Ti abbraccio.
Firmato: Il “fidanzato d’Italia” (come ti divertiva chiamarmi quando, sui tuoi set, mi facevi baciare tutte le modelle).
(in copertina Benetton campaign 1991)